«Un pallone a tutta questa gente»

La grandezza di Beppe Viola in "Sportivo sarà lei", l'ultima raccolta di scritti uscita per Quodlibet.

«Quello dello scomparire è un concetto strano: se si scompare non si muore veramente, altrimenti che trucco è? Infatti Beppe Viola giornalista è semplicemente scomparso: una domenica era a San Siro (ippodromo o stadio non importa) e la domenica dopo puff, è sparito». Nella bella introduzione a Sportivo sarà lei, uscito da qualche giorno, Marina Viola parla di Beppe, suo padre, come qualcosa (più che qualcuno) che scompare come per opera di un mago e che dopo un po’, per incanto o per ricerca – ad esempio in un archivio Rai, ricompare. Beppe Viola potrebbe non essere morto, o essere vivo in un diverso senso della parola. Il ragionamento, contemporaneamente, tecnico e affettuoso che fa Marina Viola spiega una cosa che ho fatto per anni, e che forse continuo a fare.

Vivo a Milano da più di vent’anni e da subito ho cercato di far parte della storia della città, di conoscerla per come era stata prima di me. E prima di me c’era stato il bianco e nero e una nebbia per forza più fitta, “come una volta”, ma quale volta? Cercavo la città con una poesia di Raboni, salendo su un tram, ascoltando Gaber e Jannacci, pensandoli nei loro quartieri, nelle sale da biliardo – fumose più che mai –, immaginandomi Beppe Viola allo stadio, all’ippodromo. Milano era stata ed era quella gente lì, e lo è ancora, sono tutti “scomparsi” e il bello è lasciarli riapparire quando ci pare, quando si può. Ho una tale ammirazione per Beppe Viola che avrei voluto essere Gianni Rivera solo per farmi intervistare in tram; non che giocare come Rivera mi avrebbe fatto schifo, ma farsi intervistare da Beppe Viola è tutta un’altra cosa, chi sarebbe in grado di farti una domanda meravigliosa come: «La vita ti è passata tra i piedi, si può dire, hai calpestato qualcosa?».

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Beppe Viola ricompare oggi, dopo 35 anni, ancora una volta in Sportivo sarà lei, una raccolta di scritti, appunti, racconti brevi, pizzini, ipotesi di sigle, testi di canzoni e delle mille altre cose di cui era in grado di scrivere il giornalista milanese; accompagnati dall’introduzione di Marina Viola e da scritti di Giorgio Terruzzi (amico e allievo) e di Marco Pastonesi (anche lui giornalista che lavorò per Vogue, giornale che subì una delle mirabolanti battute di Viola: «Giornale per abbronzati a novembre»). Colpisce come sempre la sua grande ironia, ma prima ancora la visione limpida sulle cose, lo sguardo lungo, la capacità di sintesi; anche in queste pagine emergono personaggi straordinari, descritti in poche parole come “Il Meazza” o “Zio Nick”.

Viola mi pare fosse anche capace di intravedere il futuro, lo si vede già dalle prime pagine dove troviamo “Trenta domande a Sergio Zavoli”, un’intervista mai realizzata, tra queste leggiamo: «Si nasce in tram e si finisce in un’auto blindata. È serio tutto ciò?». Ovvero la storia di questo Paese e poi: «È più difficile realizzare un minuto di telegiornale sulla nebbia in Val Padana o un documentario sulla fame in India?». Forse a questa non c’è ancora risposta.

Il libro prosegue con le parti rimaste fuori dalla canzone “Quelli che…”, che sarebbero tutte da citare, una lunga perfetta sintesi degli italiani attraversato una carrellata infinita (e avrebbe potuto esserlo) di luoghi comuni e di rielaborazioni di frasi fatte. Oppure “Sport è…” ipotesi per una sigla, che contiene una grande verità: «Sport è… dare un pallone a tutta questa gente per evitare che si facciano male…».

Beppe Viola sapeva scrivere tutto, è commovente quando racconta la Stazione centrale, un brano degno di un grandissimo scrittore. Sapeva tenere il passo cinematografico, come quando narra della zona della Lomellina negli anni del Dopoguerra, o delle fughe mattutine nella sala del biliardo, dove si imparava come a scuola. Leggi e ti ricordi la voce di Beppe Viola, quell’accento milanese arricchito dal fumo e dal tono caldo, da quel mezzo sorriso che affiorava insieme alle parole. «Sono costretto a una piccola digressione: c’era un tale, il signor Tironi, parrucchiere per signora dalle parti di Porta Vittoria, che giocava meglio con una mano sola che con due. Si faceva dare i punti di vantaggio dagli avversari e pare abbia perso soltanto una volta in vita sua. Accadde semplicemente perché aveva scommesso sull’avversario».

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Naturalmente il Milan, quello di Rivera, quello di Prati e di Romeo (Benetti). Un Milan fortissimo, e gli sfottò agli interisti. Interisti che ritornano negli appunti di Viola, troviamo una proposta per un film sui nerazzurri mai realizzato, che prevedeva interventi di Celentano, Mina e Johnny Dorelli; oppure in un’ipotesi di un servizio su Hans Müller, che avrebbe dovuto raccontare Milano e l’Inter, in questi appunti si noterà anche il talento di regista televisivo di Viola, che immagina gli stacchi, i tempi, le carrellate di immagini, gli zoom.

«Andare a Lampugnano vuol dire perdere».

I tifosi, l’invenzione della moviola (quando leggerete capirete che certe cose sono state così dall’inizio), Gramsci e il ciclismo, Lenin e il calcio, il Derby e Bongio, e poi la tristezza e la solitudine, e tante altre storie. Nel breve, Beppe Viola, raccontava il lungo, faceva ridere e commuovere e sapeva andare più in là delle apparenze. Sapeva mostrare il ridicolo delle cose e sapeva non prendersi sul serio.

Il libro va a chiudere con brani di Giorgio Terruzzi e di Marco Pastonesi e ci si commuove ancora un po’, perché Beppe Viola era Milano, era una roba difficile da afferrare, era un signore che veniva fuori dalla nebbia con un microfono in mano e che ti faceva la domanda giusta. Beppe Viola è stato molto di più di un giornalista sportivo, e questa raccolta di scritti lo dimostra una volta di più: «E dopo aver corso per tanti giorni guardi indietro e vedi che la vecchia trappola, allontanandosi, diventa sempre più piccola e pensi che lo faccia per non farsi riconoscere o per nascondere la sua bruttezza. La stazione di Milano scompare a poco a poco, ma tu chissà perché te la ricordi per un bel pezzo».