Imparare ad allenare

Dentro la scuola di Coverciano con Renzo Ulivieri, dove nascono gli allenatori del futuro.

Sono passati quasi sessant’anni da quando il Centro Tecnico Federale di Coverciano è stato inaugurato, ma ancora riesce a emanare una sensazione profonda di tradizione che appartiene ai luoghi che sfiorano il sacro. È qui che “si diventa allenatori”, o almeno è qui che si consegue l’abilitazione con cui poter calcare i campi di A.

Mentre ci muoviamo all’interno dei corridoi su cui campeggiano i momenti che hanno segnato la storia del calcio italiano, alcuni degli studenti stanno già camminando nei pressi del centro tecnico. Tra gli iscritti al corso Uefa A, quello con cui un allenatore viene abilitato ad allenare fino alla Lega Pro, ci sono un po’ di volti e nomi noti. Poco dopo, seduti tutti nella stessa aula, troveremo Ibrahim Ba qualche banco dietro a Mohamed Kallon, Esteban Cambiasso accanto a Silvinho, Patrizia Panico nelle prime file all’opposto di David Di Michele nascosto un po’ in alto. Una volta superato questo corso toccherà prendere parte a quello Uefa Pro, il cosiddetto “Master” con cui si arriva ad allenare in A e B. Renzo Ulivieri arriva non molto tempo dopo che ci siamo accomodati nella sala su cui campeggia il logo della Federazione: ha lo sguardo sicuro e gli occhi leggermente ingialliti dal tempo. Il tecnico ex Fiorentina e Bologna è oggi il Direttore della scuola allenatori di Coverciano, è dalla sua testa e dalle sue intuizioni che passa il futuro degli allenatori italiani. Proprio da lui che si definisce «amante del pensiero anarchico». Quando gli chiedo cosa deve avere un tecnico per superare il test ed essere considerato a tutti gli effetti un allenatore, risponde: «Deve avere le conoscenze che diamo qua. Però quando escono da qui noi non sappiamo se faranno gli allenatori o meno. Questo perché poi c’è il tirocinio vero che è quello del campo. La formazione dell’allenatore italiano avviene: attraverso la scuola, che dà conoscenze, e poi c’è un grande tirocinio, che sono i campionati. Sono questi che lo formano. Per esempio in un campionato come quello italiano, dove c’è grande diversità tattica, sapersi adattare alle situazioni è una caratteristica fondamentale».

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Ulivieri è uomo di principi e idee chiare ma non totalizzanti: c’è sempre, nelle sue parole, un richiamo all’apertura alla possibilità, al cambiamento delle cose a seconda del contesto. Una sua dichiarazione di qualche tempo fa sottolineava come la duttilità di idee servisse a scongiurare il pericolo di votarsi a un solo credo tattico: «Uno degli impegni miei nei confronti di chi arriva qua e ha troppe certezze o sicurezze, è quello di togliergliele. Qui non può arrivare uno che dice “questo è il mio calcio”. Il tuo calcio non è quello che tu hai come credo, ma quello che puoi mettere in atto con i giocatori che hai a disposizione. Poi li puoi migliorare, ma il miglior calcio che puoi fare sia dal punto di vista dello spettacolo che dal punto di vista dei risultati, è quello che si applica meglio ai giocatori che hai a disposizione. Quella dell’allenare è un’arte napoletana: un allenatore deve sempre avere una parte di napoletanità, è l’arte di adattarsi».

Quella della mancanza di certezze è una questione che ritornerà più volte durante la conversazione. Si potrebbe dire che, pur non esistendo uno “stile italiano” di allenare, pare certamente esserci una scuola che non parla al corpo ma approccia il calcio in maniera filosofica? «C’è un’interpretazione diversa che noi lasciamo a questi ragazzi. Noi diamo loro cosa? Noi gli spieghiamo il calcio. Devo spiegare il calcio di Sacchi, quello di Zeman, quello di Spalletti, quello di Sarri, di Conte, Ventura e quello di Ancelotti. Devo spiegarli tutti, tutti i vari modi di pensare tenendo a mente che la nostra filosofia, che è stata etichettata per lungo tempo, ed era anche vera in parte, era quella degli italiani “catenaccio e contropiede”. Noi stiamo cercando di modificarla senza perderla. Perdere quella parte di noi sarebbe un errore: c’è stato un momento in cui volevamo a tutti i costi diventare spagnoli». Ulivieri si riferisce all’ultimo decennio, in cui la Serie A ha cercato in ogni modo di riprendere per osmosi il gioco di posizione di matrice spagnola. Un’era che sembra essere stata archiviata negli ultimi anni: «La nostra idea è che l’identità nostrana vada conservata senza rimanere l’unica via, altrimenti rimaniamo poveri e l’abbiamo visto dal 2006. Per tre o quattro anni ci siamo beati di essere campioni del Mondo senza progredire. Dopo siamo riusciti a cambiare: lo sforzo è proprio questo, riuscire a meticciarsi, unire le culture».

Secondo Howard Wilkinson, ultimo allenatore inglese a vincere la Premier League nel 1991/92, il successo dei tecnici azzurri sarebbe nell’avidità con cui cercano di imparare. Wilkinson ci definisce «schiavi dell’apprendimento». Ulivieri sembra essere sostanzialmente d’accordo: «È così, è così. Se te pensi, qui abbiamo eliminato tutti i libri, siamo senza. Ma perché? Se scrivo un libro, in un anno e mezzo o due che impiego a finire il corso, quel libro avrà concetti già superati, sarà vecchio. Noi, invece, ed è un discorso un pochino più ampio, dobbiamo apprendere quello di oggi ma pensare anche a quello che succederà fra cinque, sei anni». Quello dello sguardo al futuro è uno dei passaggi più interessanti che tocchiamo con Ulivieri, che a 76 anni non si è accartocciato sui suoi principi: «Molti vengono qui e vorrebbero soluzioni. Noi, invece non gliene diamo, neanche una. Vorrebbero esercizi e noi non gliene diamo, ma gli insegniamo come inventarne o costruirne di propri». Poi ride.

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Viviamo in un tempo in cui il calcio cambia sempre più rapidamente. «Prendi il pressing», dice, «cerchiamo di esaminare tutte le tipologie della situazione. Io lo divido in alto medio e basso, che era quello tradizionale in fatto di spazi. Poi c’è n’è uno temporale che è quello immediato, che è diverso. Ma è impensabile attuarlo tutta la partita, devo pensare alla situazione in cui riesco a portarlo ma anche quella in cui gli avversari non me lo consentono e devo ritirarmi dietro. Oppure il contrario, in cui gli avversari mi aspettano e sono costretto ad attaccare in spazi stretti. Queste cose le dobbiamo esaminare. Il calcio oggi viene approfondito di continuo, ci sono delle necessità oggi che prima non c’erano. Noi, con questa scuola, otto anni fa prendemmo la strada della flessibilità tattica: cioè squadre che cambiano durante la stessa partita. Devi imparare come si fa ma anche come si gioca contro chi lo applica. Tutte queste cose vanno allenate». Arriviamo poi alla videoanalisi come fattore propedeutico alla preparazione di una partita: «Importante ma da non fissarcisi», dice lui.  E sull’aspetto emozionale del gioco del calcio: «Noi alleniamo la parte fisica, e la mente. Alleniamo in sintesi anche il cuore, la parte sensibile. Anche la partita è un intreccio di sentimenti, sia quelli dei giocatori che quelli dell’arbitro. È una cosa bellissima per chi volesse raccontarla. Se io sapessi scrivere e fossi uno scrittore mi impegnerei a raccontare questo piuttosto che l’aspetto tattico. Quanto può cambiare la parte sentimentale di una partita, l’intreccio di emozioni tra i giocatori. Mi piacerebbe molto saperla narrare».

Gli chiedo se ci sono dei principi fondamentali comuni a tutti i corsi ogni anno, aspetti fondamentali e immutabili: «Nessuno, non ce ne sono. Qui è tutto fluido, tutto in evoluzione. I gesti tecnici che dovrebbero essere immutabili, anche quelli sono cambiati. Oggi devi saper controllare mentre l’avversario ti viene addosso, bisogna saper fintare. Una cosa è rimasta la stessa, e non è cambiata: l’importanza della tattica e della strategia», e mentre lo dice sembra parlare di antiche battaglie. «Poi qualche volta ci siamo ammalati di tattica e di strategia e siamo andati nell’aspetto negativo pensando che fosse tutto e solo “tattica e strategia”. Ma sono importanti e vanno adoperate nella misura giusta».

Riusciamo ad assistere a una sua lezione: in un’aula ad anfiteatro, Ulivieri si mostra come un demiurgo che lascia che siano gli alunni a portare avanti la lezione. È così che Rivalta o Loria si trovano a spiegare la propria esperienza con la difesa a 3, delle distanze tra i reparti, di orientamento verso la palla e di spazio da difendere. Palla coperta, palla scoperta, niente è imposto dal mister, è qui che si capisce il perché del “non dare certezze” ai propri allievi: «Devi aumentare i punti interrogativi. Sembrerebbe quasi da dire “allora che lezioni del cazzo sono?”. Aumenti i punti interrogativi perché se io ti parlo solo di un allenatore o di un solo tipo di calcio, ti do certezza che si giochi in quel modo e basta. Aumentando i punti interrogativi aumentano le proposte, più proposte hai più puoi trovare soluzioni differenti».

È in questo scambio di idee che sta il segreto del successo della scuola degli allenatori italiani. Dove entri senza libri e con qualche certezza, ma esci senza certezze e con un testo. Scritto di tuo pugno, che contiene suggestioni, qualche schema ma, soprattutto, la prima idea di calcio degli allenatori del futuro.

Foto di Luca Grottoli
Dal numero 17 di Undici