La sconfitta di una squadra, non di un movimento

Riconsiderare la mancata qualificazione ai Mondiali: il fallimento di una gestione tecnica, non del nostro calcio, che sembra essere ripartito.

La cosa peggiore è che ce la ricorderemo. Ricorderemo tutto, i cross persi nel nulla, Belotti che piange e si nasconde la faccia nella maglietta, l’uscita di scena, dolorosa, di Gigi Buffon. Ce la ricorderemo, Italia-Svezia, perché penseremo a lungo a tutto quello che non sarà, l’eccitazione febbrile, le serate davanti alla tv o a un maxischermo, le gioie – e perché no, anche le delusioni – che un Mondiale sa regalare. Quando Buffon – un gigante, perché il primo a metterci la faccia nell’immediato post partita – dice che la qualificazione sarebbe stata importante anche «a livello sociale», coglie nel segno. Questo fallimento – la Nazionale che, per la prima volta dopo 60 anni, non parteciperà ai Mondiali – riguarda tutti, nessuno escluso.

Il giorno dopo la catastrofe si invocano rivoluzioni e ordalie. Si parla di fallimento del movimento, ma in realtà è stato il fallimento di una gestione tecnica, quella di Ventura. L’impressione è che il gruppo da un certo punto in avanti non ha più creduto nelle direttive del ct, e alcune immagini – Insigne in Svezia che non è convinto di giocare in mezzo, De Rossi che a Milano si imbufalisce, chiedendosi a cosa possa servire il suo contributo – sono eloquenti. La disfatta in Spagna ha lasciato alcune scorie: la squadra, nei senatori, ha fatto quadrato, ma è stato in quel frangente che la guida tecnica ha perso gran parte della sua credibilità.

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Lo stesso Ventura si è accorto di come la situazione gli stesse sfuggendo di mano: ha recuperato il 3-5-2 che era stata la base delle fortune di Conte allo scorso Europeo, ha convocato giocatori che sembravano fuori dal suo progetto tecnico – su tutti Jorginho, autore di una grande prestazione nel match di Milano – e ha sperimentato una serie di soluzioni che gli hanno scrostato di dosso l’immagine di dogmatico e “fissato” con le proprie idee. Non è servito, perché, forse, il tutto ha sortito l’effetto di creare maggior confusione. Ma non possiamo pensare che la qualità che possiamo mettere in campo sia inferiore a quella svedese. Né prendere la sconfitta di Madrid come indice unico e assoluto di un gap con la Spagna – la stessa formazione che, poco più di un anno fa, l’Italia ha fatto a pezzi con Antonio Conte in panchina. Si resta con una squadra che, dopo la prova insufficiente di Solna, ha messo tutto quello che aveva nel match di ritorno – il cuore, ancor prima che le gambe, come sottolinea quel pallone ripetutamente baciato da Florenzi prima dell’ultimo calcio d’angolo, che è una dichiarazione d’amore, un senso di appartenenza urlato in mondovisione.

Lo sconforto dell’eliminazione è anche il peggior modo per salutare la colonia ancora presente in Nazionale dei campioni del mondo del 2006, da Buffon a De Rossi e Barzagli. Congedarsi dopo aver giocato un Mondiale sarebbe stato un premio per le loro straordinarie carriere. Ma non è detto che sarebbe stato il loro Mondiale: il mancato accesso a Russia 2018 è una grande occasione sprecata perché sarebbe stato il torneo dei Belotti, degli Insigne, dei Verratti, dei Bernardeschi, con dietro di loro gente come Donnarumma, Rugani, Caldara, Spinazzola, Conti, Pellegrini, Chiesa. Giocatori che rappresentano la nuova linfa del calcio italiano, e che in qualche caso sono già affermati: Verratti e Insigne, per esempio, in due sfiorano le cinquanta presenze in azzurro e le sessanta in Champions League. E per molti di loro l’impatto in una grande realtà è stato indolore – come è successo a Conti e Pellegrini, quest’anno.

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Non sarebbe stata, perciò, una Nazionale di basso livello: anzi, l’impressione è che, proprio quando conosce il fallimento più grande degli ultimi 60 anni, l’Italia sia ripartita. A livello di giocatori, di allenatori – c’è mezza Italia che trionfa in  giro per il mondo, da Conte a Carrera – e pure di idee, se oggi ci troviamo ad ammirare il Napoli di Sarri o la Lazio di Simone Inzaghi. In Europa la Juventus ha raggiunto due finali di Champions in tre anni, quest’anno la Roma ha messo al tappeto il Chelsea campione d’Inghilterra, l’Atalanta ha tenuto testa al Lione e sverniciato l’Everton. Non è esattamente un momento negativo per il calcio italiano: notti più buie le abbiamo vissute di recente, con due Mondiali terminati al primo turno – tra 2010 e 2014 gli azzurri hanno ottenuto una vittoria in sei partite. Paradossalmente, si può guardare al futuro con maggior fiducia ora che in passato.

In molti hanno poi accostato il fallimento azzurro alla folta presenza di stranieri nel nostro calcio, che in Serie A sono uno su due. La Germania campione del mondo, che ha vinto una finale con gol di Götze (22 anni) su assist di Schürrle (23 anni), ha nel proprio campionato il 52,7 per cento di stranieri, un dato molto vicino al 53,3 per cento della Serie A. Oltretutto, nelle prime due divisioni tedesche, non c’è un limite all’impiego degli extracomunitari, cosa che invece in Italia è regolamentata. Gli stranieri, probabilmente, non interferiscono nei successi di una Nazionale. Anzi, possono innalzare non solo il livello del campionato, ma anche quello dei singoli: Insigne non è forse migliorato con Mertens e Callejón? Bernardeschi non può forse avere da Dybala stimoli e insegnamenti? Ancora: nell’Inghilterra dominata dagli stranieri – più di un terzo in Premier, ma le quote sono elevatissime anche nelle academies – i giovani inglesi hanno spadroneggiato nel 2017: finalisti nell’Europeo Under 17, vincitori del Torneo di Tolone, vincitori del Mondiale Under 20, semifinalisti dell’Europeo Under 21, vincitori dell’Europeo Under 19, vincitori del Mondiale Under 17.

Italy v Sweden - FIFA 2018 World Cup Qualifier Play-Off: Second Leg

E le nostre giovanili? Prosperano. L’Under 21 è tornata in semifinale all’Europeo di categoria, dopo un’edizione precedente da dimenticare. Ai Mondiali Under 20 gli azzurrini sono arrivati terzi – dopo, peraltro, tre mancate qualificazioni di fila alla competizione – ideale proseguimento del secondo posto ottenuto un anno prima agli Europei Under 19. Il movimento esiste, cresce e si vede anche in Serie A: se parliamo dell’Atalanta, è perché ha creduto nei giovani; se abbiamo già visto i primi millennials far gol tra i grandi, vuol dire che le occasioni ci sono – Kean e Pellegri, peraltro, continuano a giocare con discreta regolarità; se persino in una squadra di alte ambizioni come il Milan il diciannovenne Cutrone può soffiare il posto ad André Silva e Kalinic, siamo entrati in una fase in cui l’età, giustamente, non è tutto.

La mancata partecipazione a Russia 2018 deve comunque essere un momento di riflessione: da un lato bisogna ricucire un vestito competitivo attorno alla Nazionale, con un nuovo allenatore, con idee chiare, con un’impronta di gioco delineata; dall’altro bisogna andare avanti su alcuni temi che la Federcalcio ha sviluppato negli ultimi anni – i Centri Federali per esempio, che oggi sono trenta – e riconsiderare alcuni aspetti della competitività a livello giovanile – mettere subito sul tavolo la creazione delle squadre B, perché il passaggio dalle Primavere alle formazioni professionistiche è un salto troppo ampio e complicato per i ragazzi. Si ripartirà, anche se una serata così, purtroppo, la ricorderemo ancora a lungo.