C’è un portiere sul poster di Russia 2018

E non è un caso. Ma non c'entra solo Yashin.

Martedì 28 novembre la Fifa ha svelato il poster ufficiale dei prossimi Mondiali in Russia. È stato realizzato dall’artista Igor Gurovich (fa parte del gruppo Ostengruppe), è ispirato a un’estetica sovietica e raffigura, naturalmente, Lev Yashin. Il Ragno Nero è, ancora oggi, l’unico portiere ad aver mai vinto il Pallone d’oro, e nella sua carriera calcistica (è stato anche un giocatore professionista di hockey su ghiaccio) ha vinto un Europeo, nel 1960, e una Olimpiade, nel 1956.

Yashin giocò quattro edizioni del Mondiale, dal 1958 al 1970, e tuttavia il legame tra i portieri e la Russia, o, ancora prima, l’Unione Sovietica, è profondo e unico, differente da quello degli altri Paesi del mondo, e va anche oltre i record dell’ex numero uno della Dinamo Mosca. Ne parla Jonathan Wilson – giornalista del Guardian, fondatore di The Blizzard, scrittore, già firma di Undici – in The Outsider, libro edito da Orion nel 2012 (per l’Italia, Isbn Edizioni, traduzione di Gabriele Atripaldi) e dedicato alla storia, simbologia ed evoluzione del ruolo del portiere.

Shoots And Scores

Nell’Unione Sovietica bolscevica, spiega Wilson, il portiere era una figura estremamente popolare tra i diversi ruoli in campo. Nel 1937 venne messo in scena un musical intitolato Vrtar, che ebbe un enorme successo di pubblico. Raccontava la storia di Anton Kandidov, un ragazzo, proletario, il cui mestiere era quello di ammassare angurie sul rimorchio di un carro. Notato da un, diremmo oggi, talent scout mentre maneggiava con mani e braccia i pesanti frutti, Kandidov venne messo sotto contratto da una squadra di calcio, andando incontro a enormi fortune. Dieci anni prima, nel 1927, lo scrittore Yuri Olesha pubblicò il romanzo Zavist, in cui l’eroico portiere Volodya Makarov salva con svariate prodezze l’intera squadra dall’individualista attaccante tedesco Getzke, il cui unico obiettivo era bombardare di tiri la squadra russa.

Infine, era un portiere anche il russo (decisamente poco sovietico) Vladimir Nabokov, che nella sua autobiografia Parla, ricordo (Adelphi) scrive: «È l’aquila solitaria, l’uomo del mistero, il difensore estremo. I fotografi, piegando con reverenza un ginocchio, gli scattano un’istantanea nell’attimo in cui lui si tuffa davanti alla porta deviando con la punta delle dita un fulmineo tiro rasoterra, e lo stadio ruggisce d’approvazione mentre lui resta lungo disteso per qualche istante nel punto in cui è caduto, la porta ancora inviolata».