Addio, Palermo

L'epopea in Sicilia di Zamparini, dopo 15 anni, sembra arrivata al capolinea. Lascia rimpianti, amori mai sbocciati e conti in disordine.

Non è una gran partita, questo Palermo-Venezia. Occasioni poche, emozioni ancora meno, uno 0-0 in fondo prevedibile tra due delle migliori difese del campionato, con i rosanero orfani di Nestorovski – autore di quasi la metà dei loro gol – e i lagunari di Pippo Inzaghi venuti al sud soprattutto a consolidare un robusto castello di punti. Eppure qualcuno se lo ricorderà, questo Palermo-Venezia. È solo un caso, certo, curioso incrocio del calendario sportivo e di quello giudiziario; ma non si può non fermarsi a pensare che le due squadre della vita di Maurizio Zamparini finiscono per giocare di nuovo contro, dopo molti anni, proprio alla vigilia del (primo) giorno del giudizio in tribunale sui conti del Palermo, e in fondo anche sullo stesso Zamparini come presidente-imprenditore, uomo di calcio e d’affari.

Il 7 dicembre, alla sezione fallimentare del tribunale di Palermo è fissata l’udienza in cui si discuterà l’istanza di fallimento della società presentata dalla Procura. Bilanci falsati, valore gonfiato del marchio, vendite fittizie e impossibilità di coprire in futuro i debiti, stimati in 62 milioni di euro, sono le accuse. Troppi, per un club la cui rosa – calcola sempre la Procura – varrebbe sul mercato una ventina di milioni. «Una perizia basata su mere previsioni inconsistenti», replica il club. «La società non è mai stata così sana come adesso», giura Zamparini. Una sentenza potrebbe arrivare a breve, anche entro Natale, poi chissà. Se i giudici dovessero dar torto al patron rosanero, il club passerebbe nelle mani di un curatore fallimentare magari fino a fine stagione. Con lo spettro di una nuova radiazione, come trent’anni fa.

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Il peccato originale

«Vedrete, prima o poi scaricherà anche voi». Nei giorni di gloria, al Barbera la predizione (maledizione?) dei tifosi del Venezia risuonava come un’eco di bile, il segno di un rancore comprensibile ma di cui, comprensibilmente, ai tifosi del Palermo importava poco. Il calcio, in campo e fuori, è sempre stato questo: urla di gioia e di dolore allo stesso momento, figurarsi a 1.500 km di distanza. Era solo invidia, il livore per quell’amore in Laguna interrotto dopo 15 anni e tanti momenti belli come non ne avevano mai vissuti prima. A Palermo, invece, si vedevano cose come il pallonetto di Zauli al Napoli, le testate a raffica di Luca Toni alle spalle dei portieri, e la sera del 29 maggio 2004: Palermo-Triestina-3-1, quella serie A mai vista prima da un Under 30; e chissenefrega del Venezia.

La rabbia verso Zamparini, per la verità, veniva da qualcosa di più di un passaggio di proprietà in fondo spiegabile come il passaggio a una più grande, pur se non a una grande. A giustificarlo, c’erano l’ambizione, e i soldi (potenziali, almeno): tutto regolare. Se non fosse per il “ratto di Pergine”, quello sì un momento traumatico per tutti, conquistatori e saccheggiati. Sul bus che arriva al ritiro del Venezia a Pergine Valsugana, in un giorno di fine luglio del 2002, vengono fatti salire in 12. Il viaggio non è lungo: un centinaio di chilometri di statale fino a Longarone, dove si era riunito un Palermo sospeso tra Sensi e Zamparini, tra passato e futuro. Tra i pali Gegè Rossi, in difesa Bilica, Conteh e Modesto, in mezzo al campo Lai, Marasco, Morrone, Ongfiang, Soligo (poi riprestato al Venezia) e Mario Alberto Santana, là davanti Arturo Di Napoli e l’Imperatore Pippo Maniero, quasi capocannoniere in A con una squadra retrocessa in B, roba da Igor Protti. In panchina, su quel pullman probabilmente nel posto davanti, Ezio Glerean, il profeta del 3-3-4, che sognava il calcio più offensivo d’Italia ma a Palermo resisterà solo una giornata di campionato, diventando il primo dei 28 allenatori cacciati da Zamparini – che altrettanti ne aveva fatti fuori a Venezia in altrettanto tempo, in un geometrico equilibrio delle reazioni vulcaniche (è quello l’aggettivo preferito sui media, quando si parla di lui). Poi arriveranno anche Igor Budan e il ds Rino Foschi, ciascuno a modo suo un pezzo della storia del nuovo Palermo. Un’intera squadra “scippata”, più qualche riserva. È il grande travaso, una roba unica a memoria di tifoso italiano. Roba da Zamparini.

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Damnatio memoriae

Ecco perché in fondo a Venezia ce l’hanno ancora con lui. Pure dopo 15 anni. E perché a Palermo potrebbero avercela con lui, anche fra 15 anni. Giura che ci ha provato, Zamparini, a lasciare la squadra in buone mani. Lui si dice «stanco del calcio», «deluso dall’Italia». Al club di viale del Fante ha «dato tanto», ed è vero. Qualcosa (troppo?) ha pure preso. Oggi a Palermo c’è un centro commerciale, il Conca d’Oro alle porte dello Zen – per i palermitani, semplicemente “da Zamparini” – che però, dice lui, «ha dato lavoro a mille persone ma non ha ancora prodotto un euro di ritorno». Un po’ come con il Palermo calcio, sembra la parabola di un mecenate. Senza contare il grande investimento mancato, lo stadio di proprietà, pomo della discordia in Laguna come in Sicilia. Il suo unico vero rimpianto, probabilmente.

I conti, comunque, si faranno in tribunale, e poi non è quello il punto, non per i tifosi. Certo il presidente friulano non è il palermitano Renzo Barbera, e del resto perché avrebbe dovuto esserlo. Gli affari, e i bilanci (sic!), nel calcio moderno sono molto, se non tutto. Bisognava vendere Cavani, Pastore, Dybala. Difficile contraddire, anche se in molti ancora si chiedono dove siano finiti i milioni di Cavani, Pastore, Dybala. Ma appunto, non è tanto su quello che giudicherà la memoria dei palermitani. Quando Zamparini andrà via, il Palermo calcio starà meglio, o peggio, di quando è arrivato? Basteranno i bei ricordi, se non rimarrà un presente?

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Non scordiamoci il passato

I palermitani, lascia intendere il patron quando sbotta – insomma non di rado – sono degli ingrati. Quando mai l’avevano vista, una squadra così. La serie A nobile, le notti di calcio in giro per l’Europa, i piedi di Miccoli e la testa di Amauri: tutte cose che prima vedevano solo in tv. Eppure, come se la squadra oscillasse ancora tra le trasferte a Battipaglia e gli indimenticati gol di Sasà Campilongo, anche i tardi millenial a Palermo continuano ad avere spesso una seconda squadra, che poi è in realtà la prima. Soprattutto la Juve, e a cascata le altre. Ingrati, appunto. Incapaci di emanciparsi davvero. Una testa da sudditi che ringraziano l’imprenditore venuto dal nord come dei miracolati («chi glielo faceva fare, a Zamparini?»), sentendo forse che tutto era provvisorio, e non gli apparteneva veramente. Quindi meglio non farsi illusioni e scegliersela subito, una vera grande.

Nessuno certo potrà cancellare la festa per la A, il gol di Brienza alla super-Juve, gli ottavi di Europa League contro lo Schalke 04 e la tripletta del Flaco al Catania, la marea rosanero nella Capitale per la finale di Coppa Italia: 15 anni di successi e sorrisi, record e campioni veri, in mezzo a qualche dimenticabile scivolone. Però, la società appare latitante da anni, e anche se non è facile vendere – e vendere bene – a Paul Baccaglini si poteva forse lasciare spazio per un altro tatuaggio, al posto dell’aquila rosanero, risparmiando delusioni a chi si è voluto illudere. Insomma, già prima di arrivare in tribunale, e già prima pure dell’ultima retrocessione, era una storia finita quella tra il Palermo e Zamparini, o almeno quella tra Zamparini e i tifosi palermitani: una di quelle che continuano per mancanza di alternative, da entrambe le parti. E di solito, quando questo non si capisce in tempo, si finisce per soffrire di più, e scordarsi che insieme si è stati felici.

 

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