Dizionario sentimentale del pallone

Un libro che conserva nostalgia ma senza snobismo, con una costante concessione alle grazie di una memoria collettiva fatta di storie individuali.

Dopo un po’ ti si mescola tutto nella testa e non riesci più a capire se la vita è una merda perché l’Arsenal fa schifo o viceversa. (da Febbre a 90° di David Evans, tratto dal libro di Nick Hornby).

Nel 1953, il lanificio Rossi di Vicenza firma un contratto di sponsorizzazione con la squadra di calcio locale per 8 milioni di lire, che poi verranno aumentati a 12. Sulla scia di questa operazione, favorita da un vuoto normativo, tra il ’55 i primi anni ‘60 la Simmenthal si legherà al Monza, l’Ozo petroli al Mantova, e nasceranno lo Zenit Modena e il Sarom Ravenna. Sono i primi sponsor del calcio italiano, che uno a uno verranno poi vietati dalla Federazione. Tutti, tranne quell’azienda laniera, perché la proprietà era riconducibile alla famiglia Rossi, come il club. Fino al 1990, la “R” azzurra resterà sulle maglie indossate da Paolo Rossi e Roberto Baggio: quelle della Lanerossi Vicenza. Così la sentivo chiamare ancora quand’ero bambino, mentre in tv leggevano la schedina, e a lungo mi sono chiesto il motivo, visto che l’abbinamento dei club ai marchi era (e resta tutt’oggi) per lo più prerogativa di altri sport. Per il primo vero e proprio sponsor sulla maglia in Serie A, bisognerà invece aspettare il 26 agosto 1979, con la scritta Ponte a reclamizzare un pastificio in cambio di 400 milioni, necessari a coprire parte del costo del prestito di Paolo Rossi, in arrivo proprio dalla Lanerossi appena retrocessa. In quella squadra, però, Pablito sarà l’unico a scendere in campo senza sponsor sulla divisa, perché vincolato da un accordo personale con un marchio concorrente.

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Storie come queste sfilano in ordine alfabetico, proprio come in un dizionario, in un libro appena uscito che raccoglie aneddoti e curiosità del calcio che fu, per riflettere su quello che è diventato. Nostalgia senza snobismo, con una costante concessione alle grazie di una memoria collettiva fatta di frammenti di storie individuali. Ognuno può trovarci la sua personalissima madeleine, nell’elenco proposto dal giornalista Giovanni Tarantino in Calciopop. Dizionario sentimentale del pallone, pubblicato dalla casa editrice palermitana il Palindromo: ciascuno sedotto dal ricordo di un nome, una data, una canzone o un fumetto. Vicende raccolte con cura d’archivista, che in fondo potrebbero fare da cornice ai talk parecchio in voga su “cosa ne sanno i 2000”, che non erano nati quando sulla maglia della Roma campeggiava la scritta Barilla e non veniva fischiato il rigore per l’intervento di Iuliano su Ronaldo. Eppure, queste pagine non creano una barriera ma un ponte tra generazioni: non si vuol dire tanto “eravamo meglio noi”, ma “per noi era meglio”, e venite a capire perché, se non c’eravate.

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L’aneddotica è ricca, ma frutto naturalmente di una scelta personale. Ci sono i campioni che trascendono il campo, finendo sui fumetti per diventare eroi senza corpo né tempo, come il Roberto Baggio protagonista di un fumetto di Paolo Ongaro, apparso a puntate su Hurrà Juventus – di fumetti e fanzine è pieno il calcio, come questo libro che lo omaggia –, in cui il Divin Codino viaggia nel tempo e finisce per giocare nella preistoria e poi nel futuro, prevedendo pure il passaggio al Milan con 3 anni di anticipo rispetto alla realtà. E poi ci sono i bidoni, veri o diventati tali a forza di dirlo. “Lutero, il bombardiere nero”, ça va sans dire: se Luther Blisset, incapace di adattarsi anche perché nei primi anni Ottanta «in Italia era impossibile trovare qualcuno che mi portasse una scatola di Rice Krispies», al Milan avesse fatto più di 5 gol, lo si sarebbe probabilmente evocato e citato molto meno; e se Gerónimo Barbadillo, il Garrincha degli anni ’80, indimenticato ben oltre Avellino, avesse avuto un altro nome, o un’altra capigliatura, ne avrebbero lo stesso fatto un’icona pop?

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Ci sono, in queste pagine, vicende individuali e collettive, c’è il tifo – un’ampia seconda parte è dedicata alla nascita e all’evoluzione del fenomeno degli ultras – e ci sono i tifosi di tutti i tipi: quelli veloci di mano e di coltello, che non da oggi abitano il mondo del calcio, e quelli veloci di pensiero. I derby, per dire, massimo esempio di rivalità. Come a Genova, per molti la stracittadina più affascinante, tanto da sedurre i giapponesi già prima di Kazuyoshi Miura (nel libro non citato: ma il limite all’amarcord, si capisce, sta solo nel fatto che un punto bisogna pur metterlo). Da un lato quindi De Andrè, «che nel periodo della prigionia dell’Agnata passava il tempo a scrivere sui bigliettini le formazioni del Grifone», dall’altro il suo amico d’infanzia Paolo Villaggio, che nel giorno dello scudetto spiegava: «Mi dovrei vergognare di queste sensazioni, ma le provo tutte… io sono considerato un intellettuale di sinistra, dovrei vivere le cose con distacco. Ma è dura… non si può. Io sono innamorato della Sampdoria, e un amore dura tutta la vita».

Il Torneo Anglo-Italiano e le origini presunte di “Clamoroso al Cibali”; i gol leggendari come la palomita di Aldo Pedro Poy del Rosario Central nel derby contro il Newell’s Old Boys del ’71, o quello dello scozzese Archie Gemmill all’Olanda del ’78 – leggendario, questo, al punto da essere riprodotto in una statua, anche se poi inutile per la qualificazione al turno successivo del Mondiale, perché vincere non è mica l’unica cosa che conta. Oppure ancora le vicende di Capitan Tsubasa Ozora, Oliver Hutton per noi occidentali. Voce per voce, si scopre tanto – tipo che Irvine Welsh tifa Palermo, oltre che gli Hibs – e tanto ancora torna alla mente, stimolando associazioni e ricordi. A ciascuno la sua madeleine, appunto.

 

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Non c’è quindi da vergognarsi, nel gustare il feticismo da calciofili disseminato in questo dizionario. Tanto più che ormai è finalmente sdoganata anche da noi, la simbiosi imperfetta ma inevitabile tra calcio e cultura. Lo spiega Camus, naturalmente, in una delle più celebri frasi da segnalibro: «Alla fine tutto ciò che ho appreso sulla morale e sugli obblighi del genere umano lo devo allo sport (inteso calcio)»; e lo illustra convinto Eduardo Galeano, che ancora di Camus racconta quando sostiene che col calcio «ha imparato anche a vincere senza credersi Dio e a perdere senza considerarsi una nullità, nozioni complicate». Qui, Galeano è citato alla voce Felicità, con il suo Splendori e miserie del gioco del calcio: «Un giornalista chiese alla teologa Dorothee Sölle: “Come spiegherebbe a un bambino cos’è la felicità?”. “Non glielo spiegherei. Gli darei un pallone per farlo giocare”».

Oggi, non si può più considerare impunemente il calcio solo come una distrazione per le masse, un oppio legale e necessario al potere. Tra l’altro perché, spiega nel libro lo storico Giovanni Armillotta, «i ricercatori di questioni storico-statistiche riguardanti il pallone – in Europa – con un facile calcolo saranno più di 50 mila: ossia in numero infinitamente superiore rispetto a quelli di un qualsiasi insegnamento universitario del Continente». Il pallone è insomma un gioco serissimo. E come scrive nel suo Homo ludens lo storico olandese Johan Huizinga, «quando il gioco genera bellezza, implicito è il suo valore per la cultura».