Ci puoi contare, su Ettore Messina

Gli Spurs, la politica, il lavoro di squadra: intervista all’assistant coach di Popovich.

Sono i primi giorni del training camp a San Antonio: un mattino, verso le nove e trenta, risponde al telefono dal suo ufficio in sede, poco prima di scendere in campo con la squadra per gli allenamenti. La Nba sta ricominciando dopo un’estate vertiginosa: diversi campioni hanno cambiato squadra di loro iniziativa, puntando i piedi. È il segno che la lega è sempre più in mano ai giocatori neri – i conservatori si chiedono dov’è finita la fedeltà alle maglie, i progressisti apprezzano l’empowerment. Nel frattempo, dopo anni di violenza razziale, in modi diversi la Nba e la Nfl, la lega di football, stanno prendendo posizione contro i razzisti e contro Trump che non li denuncia. Le squadre protestano durante l’inno, Trump chiama i giocatori sons of bitches incitando i presidenti al licenziamento. È l’America, e Messina da qualche hanno ha avuto il coraggio di fare il salto.

Stavo cercando di spiegarlo ad amici che non seguono il basket. È come se Guardiola facesse da assistente ad Ancelotti. È una cosa incredibile la situazione in cui si è messo, da vero student of the game.

Un pochino, sì.

Il viaggio dall’Italia all’America però è passato prima dalla Russia.

Quando decisi di andare in Russia è perché il Cska mi dava l’opportunità di competere e provare a rivincere l’Eurolega. Io avevo allenato due squadre che avevano vinto l’Eurolega a Bologna, in quel momento lì il Cska aveva i mezzi, la mentalità, la tradizione soprattutto per poter puntare a vincere l’Eurolega, che è quel che siamo riusciti a fare un altro paio di volte. Detto questo, mi incuriosiva fare un’esperienza all’estero, mi incuriosiva provare ad allenare in Paesi diversi: ero stato a fare dei corsi per allenatori in Spagna, in Francia, un po’ in giro per l’Europa, e mi sarebbe piaciuto, molto banalmente. In quel momento lì c’era questa grande possibilità, l’ho presa al volo, e da allora sono dodici anni che sono fuori dal Paese.

A che punto era il suo percorso?

Ero un po’ stufo di stare in Italia, e il motivo, glielo dico, è molto semplice. Io avendo allenato la Virtus Bologna e la Benetton Treviso degli anni d’oro, dove praticamente vincevamo quasi sempre noi, o comunque molto spesso, ero diventato una specie di nemico pubblico numero uno: in qualsiasi posto andavo, tranne quando giocavo in casa, prendevo solo degli insulti, e – non metaforicamente – in qualche campo anche gli sputi. Allora sai: una volta, due volte… Siccome non sono uno che si nutre dell’invidia altrui o dell’odio altrui, non trovo motivazione in un sentimento contro, anzi mi deprime, è una cosa che mi deprime parecchio, era già uno o due anni che pensavo che forse un’esperienza all’estero potesse essere la soluzione migliore. Oltretutto, in quel periodo lì, nostro figlio aveva sei-sette mesi, non c’erano problemi di scuola e di organizzazione di vita, con mia moglie abbiamo deciso di andare. E da allora non siamo più tornati. Detto questo, dopo l’esperienza col Madrid, e un anno con i Lakers in un momento un po’ delicato della mia vita perché ho perso mio fratello e mia sorella nel giro di due anni, due anni e mezzo, un periodo un po’ complicato, poi sono tornato a Mosca, ho fatto altri due anni lì, e poi ho avuto la possibilità di venire ad allenare con quello che non è solo il miglior allenatore – Popovich – ma è anche una persona assolutamente particolare, in un’organizzazione assolutamente particolare, perché se c’è un’organizzazione dove i rapporti sono curati, il rispetto per le persone, l’accountability, che non riesco mai a tradurre in una parola italiana…

Strano, eh? Non si può tradurre, ci sarà un motivo. [In economia è la trasparenza aziendale, nei rapporti personali è il poter contare sul fatto che un altro si prenderà le sue responsabilità.]

Ecco, appunto… Bravo, forse perché non è nelle nostre corde. Comunque, insomma: il rispetto per quel che uno fa, la volontà di non trovare colpevoli quando le cose vanno male, piuttosto trovare soluzioni… Tutte queste cose qui devo dire esercitavano su di me un fascino molto elevato. Oltretutto in un momento in cui, dal punto di vista della carriera, potevo fare qualche anno in più in Europa per provare a vincere un’Eurolega in più o in meno… Ma alla fine, cosa ti spostano? Per carità, sono cose importantissime, però non ti spostano più di tanto da un punto di vista di vita. Oltretutto questo mi ha dato una possibilità di fare un’esperienza a me e alla mia famiglia – adesso è il quarto anno qui, mio figlio studia qui – è stata un’opportunità molto importante. Poi sì, è vero, ogni tanto mi manca non avere una mia squadra, ma essere – per quanto tu sia considerato il primo assistente, il più anziano del gruppo degli assistenti, bla bla bla bla bla bla, per quanto mi trattino devo dire benissimo – è ovvio che ogni tanto il fatto di non allenare in prima persona e quindi di non prendere decisioni finali un po’ ti manca. Questo sì. Devo dire. Sono momenti brevi, superabilissimi.

Nel momento in cui lei arriva nell’organizzazione, parla con il General Manager R.C. Buford, parla con Popovich, e si chiama Ettore Messina, come viene tirato fuori l’elefante nella stanza? Lei è un grande allenatore e ora deve venire qui ad assistere il più grande o uno dei più grandi allenatori americani. È stato fatto questo discorso? Come si gettano le basi per una relazione che da quello che si percepisce da fuori non sembra essere problematica?

Non è problematica per niente. Innanzitutto perché io e lui siamo amici da qualche anno, da quando ci siamo conosciuti ai tempi in cui io allenavo Manu Ginobili. E poi perché il primo fondamentale qui per far parte di questa organizzazione, loro lo dicono sempre: vogliono prendere gente che insomma non se la tiri…

…Com’è l’espressione che usano sempre? Check your ego at the door?

No, loro dicono sempre: «We want people who are over themselves» [più o meno, gente che non pensa troppo a sé]. Lo diceva anche ieri in conferenza stampa, parlava del fatto di avere gente che non lo fa per se stessa, non lo fa per le telecamere, non lo fa per mettersi in prima fila ma lo fa per il gusto di fare le cose insieme. Quindi non è che tu vieni qui e ti porti avanti le tue medaglie, i tuoi riconoscimenti e pensi che grazie a questo dovrai avere chissà che ruolo particolare, perché lì hai già sbagliato, lì hai già finito.

Per i giocatori, dei ragazzi che arrivano negli Spurs, è un elemento di ispirazione in più vedere un allenatore con una storia come la sua che si mette a lavorare con o per un altro allenatore?

No, non credo. Qui il rispetto te lo guadagni nella quotidianità cercando di far bene.

No, non mi sono spiegato: un giocatore che deve entrare nel sistema Spurs, un sistema realmente ubuntu, di collaborazione, il fatto di vedere il rapporto tra lei e Popovich è un’ulteriore ispirazione o sono io che idealizzo?

Senza falsa modestia, vedere lui sicuramente è un’ispirazione, vedere me magari non sanno neanche dov’è l’Europa. Hanno una forma di rispetto perché sono brave persone, ecco.

Ho una domanda su Tim Duncan. L’altro giorno, ospite nel podcast di Zach Lowe di Espn, c’era un giornalista che ha pubblicato un libro sulle più grandi squadre di tutti i tempi. La caratteristica principale di tutte le squadre era avere un capitano con certe caratteristiche. C’era, per capirci, Puyol del Barcellona calcio, e c’era Duncan. Dicevano: grandissima disponibilità a parlare con tutti personalmente, all’ascolto, e dall’altra un’abnegazione fino alla follia e anche a fare cose che approfittavano di certe regole… Approfittare delle regole, che è una cosa che Pop cura molto. Come è stato vedere il passaggio dagli ultimi anni di Duncan alla nuova leadership di Kawhi Leonard?

Il vuoto che ha lasciato Tim Duncan è abbastanza grande, appunto per la sua grande capacità di prendersi cura di tutti, che fossero i compagni, che fossero gli allenatori, che fosse la franchigia, lui ha sempre avuto questa grande capacità. È ovvio che il tipo di leadership a cui ci dovremo abituare è completamente diversa. Intanto perché sta nuovamente passando di mano, Tony Parker, Leonard, Aldridge… Ci vuole tempo per abituarsi a modi nuovi. I modi di esercitare la leadership sono diversi a seconda delle personalità, del momento, della cultura. La cultura del momento intendo. Adesso siamo in un’epoca in cui si comunica di più, chessò, con Whatsapp piuttosto che a voce. È il mondo dei social network dove tutto viene amplificato, dove tutto viene portato in pubblico, quindi è difficile in questo momento capire che tipo di leadership si affermerà. Però credo che i valori di questa organizzazione continueranno a essere portati avanti, perché chi viene qui ci crede in questi valori.

Ovviamente i valori vanno adattati via via che cambia lo scenario e si ricevono nuove sfide. Quest’estate c’è stato un mercato divertentissimo. Wade ai Cavs, Carmelo e George a Oklahoma City, Paul ai Rockets… I campioni si sono resi conto della loro importanza economica nel contesto della lega e quindi a chi dice non ci sono i valori di una volta, la fedeltà eccetera, qualcun altro come ad esempio Jalen Rose dice No ma in realtà questo è un momento di empowerment perché sono i giocatori che si rendono conto che hanno questo peso e che quindi vogliono farsi vedere, farsi valere, fare contratti più brevi e decidere del loro destino. Questa è una cosa di cui tra voi dovete discutere a parole o l’evoluzione è così lenta che non richiede stati generali?

Lì andiamo un po’ nei massimi sistemi. Noi abbiamo una linea guida. Noi cerchiamo di avere continuità. Tutti i nostri giocatori sono stati qui molti anni. Quello è l’obiettivo, continuare su quella linea. Poi se ci saranno situazioni diverse credo che verranno affrontate di volta in volta. Però l’idea è sempre quella di costituire un nucleo base e soprattutto che ci sia continuità. Continuità nel lavoro, nelle relazioni umane, nelle relazioni tra squadra e pubblico, tifosi.

Un giocatore che viene da poca continuità e da un’esperienza negativa come quella ai Kings, Rudy Gay, come si innesta negli Spurs? Come si sta trovando?

È arrivato qui da pochi mesi, però, da quello che leggo, da quello che dice e mostra in campo, ci tiene veramente a far parte di un’organizzazione “diversa”. Questa è la cosa interessante. Un giocatore che per la prima volta, dopo aver giocato con la Nazionale, ha il senso di dire sono in un posto dove posso provare a vincere qualche cosa o posso provare a giocare ai massimi livelli possibili.

Avevo già gli occhi sul vostro training camp perché pochi giorni fa Popovich ha parlato molto di Trump. Com’è vivere questo momento in America? C’è stata anche la questione degli inni nella Nfl, Pittsburgh non è scesa in campo per l’inno pur di non decidere se inginocchiarsi o meno in segno di protesta.

Ne abbiamo parlato con tutta tranquillità. C’è il senso di dire a ognuno di loro: quello che voi pensate quello che voi volete fare, le vostre idee qui sono rispettate e non c’è mai una recriminazione per un’opinione politica che uno di voi ha espresso.

Com’è la combinazione tra questa squadra così internazionale e il contesto texano?

L’impressione è che qui a San Antonio sia la squadra della città. C’è un’integrazione enorme, tutti qui si danno da fare per appoggiare le associazioni benefiche, c’è veramente un impegno costante e reciproco. Anche a Houston e a Dallas ci sono molti tifosi degli Spurs, non esiterei a definirla la squadra di un’intera regione.

Se dovesse tornare ad allenare una squadra, anzi prendiamo direttamente la Nazionale italiana che ha appena allenato agli Europei: che principi si sente di aver scoperto grazie alla cultura americana?

Scoperto niente, però la grande attenzione che qui c’è al miglioramento individuale, anche soprattutto nei periodi in cui non c’è competizione, secondo me è una cosa che un po’ a noi manca. Questo investimento che qui uno fa talvolta anche prendendosi un allenatore personale durante l’estate per migliorare. E giocare nelle leghe estive. C’è il senso di dire: se io ho finito così a maggio, a settembre mi devo presentare che son più bravo, se no qualcuno mi porta via il posto. Sia che io sia così così, ma anche se sono un campione magari divento un po’ meno campione se non mi alleno.

Sono d’accordissimo. È un po’ la stessa sensazione che ho avuto io rispetto al mondo letterario. La voglia di confrontarsi per migliorare sempre. L’America ha questa idea – sembra competizione ma alla fine diventa una cosa spirituale…

Sì, sì.

Quando alla fine ci si mette lì al lavoro, si smette di essere i propri successi e si ricomincia ogni volta da capo.

È un po’ lo stesso concetto che lei ha visto applicato in quella storia di concorsi universitari truccati in Italia… [Ride.]

 

Dal numero 18 di Undici