Roger gioca da solo

Federer si è trasformato, e il risultato è che nessuno – né i vecchi, né i giovani – riesce a essere un avversario all'altezza.

Bill Tilden lo ripeteva sempre: cerca il colpo migliore dell’altro, non il suo punto debole: se lo costringi a sbagliare dalla sua parte, gli insinuerai un dubbio al quale finirà per impiccarsi da solo. Bene, per vincere il suo ventesimo Slam, Roger ha fatto esattamente questo. All’inizio del quinto set, dopo avere perso cinque game di fila – e, in apparenza, anche il filo del match – si è trovato a difendere una palla break con la seconda. Chiunque, a cominciare da Cilic, si aspettava la soluzione più ovvia, un kick a uscire. Roger ha invece servito una palla centrale, lenta, sul dritto di Cilic, cioè sul colpo con cui, da una ventina di minuti, l’altro si apriva implacabilmente il campo, e andava a punto. Non gli restava che farlo anche adesso: avrebbe cominciato il set con un break, e messo Roger in un angolo quasi senza uscita. E infatti, Cilic ha impostato uno dei suoi vincenti, solo che andando incontro alla palla il braccio ha perso potenza e il dritto, inerte, si è fermato a mezza rete. Zero a zero e quaranta pari: equilibrio perfetto a guardare il tabellone, partita capovolta in un secondo a leggere altri particolari – ad esempio, negli occhi di Cilic, il terrore di replicare quel misfatto da lì alla fine del match. Come poi è puntualmente successo.

2018 Australian Open - Day 14

La finale degli Australian Opel 2018 è stata il tennis al suo meglio, quale si manifesta, eminentemente, in match di per sé non straordinari. Roger ha giocato un primo set demoniaco e controintuitivo, riducendo al minimo consentito dalla fisica l’intervallo fra rimbalzo e colpo, e infliggendo a Cilic il trattamento già riservato a Chung per un set e a Berdych per tutto il match: far arrivare la palla dove non avrebbe dovuto, mezzo secondo prima di quando avrebbe dovuto. Contro quel tipo di danza feroce e sanguinaria l’unico antidoto conosciuto è aspettare che si plachi. Cilic ha aspettato 24 minuti e un set, e quando l’altro ha cominciato semplicemente a giocare il suo tennis sublime è entrato in campo. Da lì in avanti è stata una corsa a scatti, dove ognuno per ragioni arcane cedeva il set nel preciso momento in cui pareva avviato a vincerlo: è successo a Roger nel secondo, e a Cilic nel terzo. Nel quarto, ottenuto un break, Roger si è trovato nella posizione che i suoi devoti più temono, quella in cui deve solo arrivare alla fine mantenendo il servizio: il quale servizio, come da copione, lo ha abbandonato sul più bello. Marin contemporaneamente è salito – molto – di livello, e per i cinque game successivi ha fatto quello che ha voluto. Federer sembrava, all’improvviso, in sua balìa, e addirittura spaesato. Non era un’impressione, dato che lui stesso in conferenza stampa ha ammesso di essersi ripetuto per venti minuti una sola frase, più ominosa che incoraggiante: cerca di non incasinare tutto. La confusione è durata fino all’inizio del quinto, dove per i primi cinque punti, fino alla palla break del primo game, la partitura sembrava la stessa – Marin che picchiava, Roger che sbandava. Poi è arrivato il punto che ho descritto all’inizio, e pochi minuti dopo è finito tutto.

Quando Cilic entra dentro il campo si fa difficile

A questo punto, «che altro dire di Roger?», mi chiedeva ieri sera Davide Coppo. Innanzitutto c’è moltissimo da non dire. Ad esempio, che stiamo assistendo alla sua seconda giovinezza, o a un insperato prolungamento della sua straordinaria carriera. Non è così. Il Federer 2017/2018 è un giocatore sostanzialmente diverso dal fuoriclasse del quale, nel quindicennio precedente, abbiamo vissuto l’ascesa, le cadute, e persino un segmento di quello che si annunciava come un lungo, malinconico tramonto. Dai sei mesi off è infatti emerso un tennista del tutto nuovo, in nulla paragonabile alla sua incarnazione precedente. Sono cambiati i colpi e la posizione in campo, come è stato notato da tutti. Ed è cambiato, senza che molti fin qui se ne siano accorti, il suo atteggiamento mentale. Il Roger precedente giocava un tennis fenomenale, dove però gli acuti dei celebratissimi “Momenti Federer” mascheravano l’ossessione, spesso perniciosa, che gli è costata non voglio pensare quanti titoli: quella di battere gli avversari,  soprattutto Rafa e Nole, al loro stesso gioco. Il Roger di oggi è invece un Master of Ceremonies implacabile, il cui primo obiettivo – mai si è visto come in questo torneo – è sgretolare, dopo averlo studiato con uno scrupolo maniacale, il tennis altrui. Per riuscirci, Federer fa leva sulla sua qualità fin qui più sottovalutata, e cioè uno spaventoso furore agonistico (mai il Roger di prima avrebbe ringhiato «Nice call, buddy» a un giudice di linea reo, secondo lui, del peccato opposto), e su una dote, invece, inedita: una capacità di lettura del match, e quindi di gestione delle sue crisi, che è l’equivalente mentale dell’anticipo con cui colpisce la palla.

Con la racchetta praticamente attaccata a terra

Sono tutte cose che Federer in queste due settimane ha perfino raccontato, invitando contestualmente i colleghi a un atteggiamento verso i media meno robotico – è un virgolettato – e più intrattenente. Per conto suo, ha molto insistito su due storie, che a scelta dell’ascoltatore si potevano considerare come apologhi, confessioni, o minacce. La prima gli è servita a rendere l’idea di quanto continui a divertirsi, giocando – o il Natale scorso alle Maldive, saputo che Cilic stava arrivando in vacanza sulla sua stessa isola, non gli avesse chiesto se per caso gli andassero un paio d’ore di tennis. Così, come un sabato al circolo. La seconda è stata invece un invito a non prendere quel divertimento per spensieratezza. Pensieri ne ho, ha raccontato Roger, o la sera prima del quarto di finale, per una semplice vibrazione spiacevole, non avrei convocato all’improvviso il mio staff, costringendolo a rivedere insieme ampi stralci dei miei incontri precedenti con Berdych: tutti. Dedicato a chi ancora pensa che Federer vada in campo così, per il gusto di un ultimo balletto.

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Diciamolo, che un signore in avvicinamento ai 37 domini più o meno incontrastato uno sport professionistico costringerà prima o poi a ripensare lo sport, e anche il professionismo. Certo, in parte trattasi di miracolo, che come sostiene uno dei suoi artefici, Pierre Paganini, potrebbe interrompersi da un momento all’altro. Prima che persino Roger si inchini al Tempo, tuttavia, vorremmo vederlo, per piacer nostro, insidiato da qualche avversario all’altezza. Già, ma da chi? Murray e Djokovic sono quasi al passo d’addio, e nulla garantisce che risolveranno problemi fisici molto complessi. Rafa è altrettanto segnato, e gli infortuni si moltiplicano a un ritmo preoccupante. A ognuno dei NextGen manca qualcosa – a Kirgyos, il più dotato, un minimo di ragionevolezza; a Zverev un minimo di peso; a Thiem un minimo di estro. Niente ancora garantisce che il talento più puro del circuito, Shapovalov, non raggiunga Dimitrov nell’apposito girone dei superdotati inadatti a vincere. Nessun altro? Per i primi dieci giorni del torneo, molti hanno pensato a Chung. Fatto secco Zverev, contro Djokovic è sembrato a tratti una riedizione contemporanea del primo Agassi. Poi però gli è toccato Federer, e finché è rimasto in campo sembrava uno di quei tennisti di circolo che, ringalluzziti dai complimenti del maestro, gli chiedono di fare qualche game – salvo pentirsene all’istante. Il futuro potrebbe in parte essere suo, vedremo. Ma, per attenersi al presente, del suo Australian Open rimarranno le sue risposte, in un rigidissimo inglese di base. Da dove hai preso la tua tattica di gioco? «È quella di Nole, mio idolo. Ho copiato lui». Come mai inciti il pubblico sulle tribune? «Visto fare a Nole, mio idolo. Ho copiato lui». E così via.

A proposito di domande e risposte, nella conferenza stampa dopo la finale Roger ha ripetuto un paio di volte come nelle lunghe ore di attesa del match fosse tormentato da un interrogativo che cercava invano di scacciare: «How cool could it be to win this one?». Qualcuno nel campo accanto avrebbe potuto aiutarlo, strano non se ne sia accorto. Tennys Sandgren, tanto per dire. Emerso quasi per caso dalla palude stigia dei Challenger, e dal Sud più profondo e faulkneriano che esista, Tennys ha vinto le sue prime quattro partite di fila in un torneo del circuito con un gioco brillantissimo e un sorriso da qui a lì. A strapparglielo dalla faccia hanno provveduto per tempo i soliti zuccherini dei media, grigliandolo per benino con due domande ossessive: 1) da dove diavolo avesse preso un nome del genere; 2) cosa fossero tutti quei retweet da siti Alt-Right. Ma nei primi giorni, dovendo spiegare come trovasse giocare uno Slam, battere Wawrinka e Thiem, o quadagnare soldi che fino alla settimana prima si sognava, Tennys rispondeva con un gran sorriso, e una formula sempre identica: «Pretty cool». E allora Roger, in attesa di una definizione migliore, sfruttiamo Tennys, e diciamo che, da parte tua, vincere il ventesimo Slam è stato pretty, pretty, ma proprio pretty cool. Il resto si vedrà.

 

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