Il Cile da ricostruire

Una delle migliori squadre degli ultimi cinque anni è fuori dal Mondiale e la sua generazione dorata è al capolinea. Reinaldo Rueda vuole farla tornare grande.

Dalla prima notte insonne trascorsa da Marcelo Bielsa nel suo alloggio, all’interno del centro sportivo Juan Pinto Durán, all’ultima rete di Gabriel Jesus in Brasile-Cile, che ha condannato la Roja a saltare il prossimo Mondiale, sono passati dieci anni. Il periodo più importante della storia del calcio cileno, in cui la Nazionale, l’Equipo de Todos, ha incontrato un’identità di gioco unica, degli interpreti di livello mondiale, un’inusitata sicurezza dei propri mezzi e, soprattutto, i primi e unici trofei della storia del fútbol trasandino. Un decennio che ha lasciato al Cile qualcosa di più distintivo della maglia rossa, e lo ha inserito tra le potenze calcistiche del Sudamerica.

Nel periodo successivo alla mancata qualificazione a Russia 2018, infatti, il presidente della Anfp (la Federcalcio cilena) Arturo Salah ha risposto così alle domande dei giornalisti su chi fosse il profilo adatto a sostituire Juan Antonio Pizzi: «Non possiamo permetterci il lusso di rimanere fuori dal Mondiale per due anni di fila. Chiunque sarà il prossimo allenatore della Roja, avrà come primo obiettivo, logicamente, quello di qualificarsi a Qatar 2022». Quel chiunque, che in senso più lato dovrà costruire un nuovo ciclo, consapevole che l’ambizione cilena non si ridimensionerà facilmente, è Reinaldo Rueda.

Contaminazioni

Il cammino di Rueda si è sviluppato attraverso contaminazioni, più che semplici tappe. La voglia di attingere a piene mani dai Paesi e dai luoghi esplorati, calcisticamente e non, lo ha accompagnato in ogni momento della sua vita e della sua carriera. Fin dal momento della sua giovinezza in cui si trasferì con la famiglia da Yumbo, nell’area metropolitana di Cali, a Barrancabermeja, nel dipartimento di Santander, iniziò ad assorbire ciò che incontrava di diverso. In Colombia, più ci si sposta verso il mar Caribe e più si sente l’acordeón suonare forte il vallenato, il genere musicale locale, tipico della regione della Magdalena Grande. Rueda se ne innamorò subito, ascoltando i canti delle zie, sebbene i caleños siano solitamente più inclini alla salsa.

Durante gli studi, la sua università partecipò a un “Convenio Colombo-Alemán”, che gli permise di entrare in contatto con alcuni precettori tedeschi. Travolto da una nuova incontenibile passione, il giovane Reinaldo iniziò a studiare la lingua tedesca da autodidatta. Dopo una decina d’anni, ebbe l’occasione di frequentare l’Università dello Sport di Colonia, dove finalmente poté coltivare il proprio amore per la Germania e per il suo Fußball. Ancora oggi, appena ne ha la possibilità, prende un aereo e torna nel suo punto preferito d’Europa, ora per assistere a un allenamento dell’Hoffenheim di Nagelsmann, ora per visitare un museo o una mostra.

Questa peculiare formazione gli valse l’attenzione della Fcf, la Federcalcio colombiana, che iniziò a lavorare con lui fin dagli albori della sua carriera, nella prima metà degli anni Novanta. Allenare le divisioni inferiori della Selección Cafetera richiede una certa capacità di insegnare calcio, accettare di farlo abbandonando la panchina di una nobile del campionato colombiano come l’Independiente Medellín, dopo solo quattro mesi di lavoro, richiede una vera vocazione per l’insegnamento. Rei l’ha ereditata dalla madre professoressa e appartiene all’uomo, prima che all’allenatore: «Quando insegno o formo altri tecnici mi sento bene. Se non fossi un dt, sarei senza dubbio un professore», ha detto in un’intervista pochi mesi fa.

Era il 2002 e la Fcf puntò su di lui per preparare la Sub-20 al Sudamericano e al Mondiale dell’anno seguente: Rueda rispose rispettivamente con un quarto e un terzo posto (la caduta al Mondiale negli Emirati arrivò soltanto in semifinale, contro la Spagna di Iniesta), che spinsero la Federazione a fare le cose più in grande e promuovere sulla panchina della Nazionale maggiore l’uomo che aveva formato una generazione su cui la Colombia puntava moltissimo. Per un punto, non riuscì a qualificare al Mondiale la squadra presa in corsa da Maturana.

Fu un colpo durissimo, ma l’ennesima contaminazione della sua carriera lo aspettava già in America Centrale: intraprese la sfida di riproporre in Honduras il lavoro svolto in Colombia. Da tempo pensava che il prototipo del giocatore honduregno avrebbe assimilato al meglio il suo stile di gioco, e non esitò ad accettare la guida della Nazionale maggiore dei Catrachos. In un ciclo perfetto che durò quattro anni, portò l’Honduras per la seconda volta nella sua storia a giocare la Coppa del Mondo. Ovviamente, non si limitò a influenzare un movimento calcistico, ma diventò letteralmente parte del popolo honduregno: oltre a ottenere la cittadinanza, rimase legato a doppio filo al Paese centramericano, così come fece la sua famiglia. Anche in Ecuador raggiunse l’obiettivo del Mondiale, applicando sempre i propri principi di gioco. La forza del metodo e l’attenzione verso ciò che circonda il campo hanno fatto di lui un tecnico perfetto per le Nazionali.

L’acqua nel deserto

Formare giocatori è sempre stato l’altro lato fondamentale del suo modo di allenare: durante la sua prima esperienza sulla panchina di un club, il Cortuluá, convinse un giovanissimo attaccante a cambiare area di competenza e piazzarsi definitivamente in difesa. Il ragazzo era Mario Yepes, e da questa intuizione nacque uno dei difensori centrali più forti della Colombia degli ultimi anni, oltre che un capitano unico. Qualche anno dopo, all’Independiente Medellín, in un clásico contro l’Atlético Nacional, fece esordire il quarto portiere, il ventenne David Gonzalez, che oggi conta più di duecentocinquanta presenze e tre titoli con la maglia del Poderoso de la Montaña, oltre che un passaggio al Manchester City. Alla guida dell’Ecuador, invece, andò oltre inventandosi il sesto miglior marcatore della storia della Trí: dopo la tragica morte di Christian Benitez, avvenuta nel 2013, gli ecuadoriani persero sia un riferimento sportivo che uno degli attaccanti più forti della loro storia recente. Rueda riempì il vuoto tecnico spostando il giovane esterno dell’Emelec Enner Valencia nel duo offensivo. Da quel momento in avanti, l’Ecuador trovò il proprio centravanti, che oggi conta 21 reti segnate con la maglia della Trí e, senza concorrenti in attività oltre a Caicedo (ritiratosi dal giro della sua Selezione), è a dieci gol di distanza dal più prolifico di sempre, il Tin Delgado. Anche oggi Rueda sperimenta, lasciando al ventenne trequartista del Flamengo Lucas Paquetá l’incombenza di rimpiazzare Paolo Guerrero con il bagaglio di agilità, visione e tecnica che, secondo Rei, fa di lui un ottimo falso nove.

Allo stato attuale delle cose, il Cile potrebbe avere il bisogno urgente di un insegnante di calcio in grado di inventare dal nulla nuove soluzioni, come fatto da Rueda in passato: la spina dorsale della Roja più forte di sempre è quella della generación dorada di Sánchez, Vidal, Aránguiz, Medel, Isla ed Edu Vargas. Giocatori fenomenali, alcuni per gli standard cileni, altri per quelli mondiali, tutti nati verso la fine degli anni Ottanta e, pertanto, intorno ai trent’anni. Una boa, quella dei trenta, che i vari Valdivia, Bravo, Jara, Díaz e Beausejour hanno già girato da tempo, e si avviano verso la fase calante delle loro carriere. Russia 2018 sarebbe stata l’ultima grande competizione per il gruppo più forte della storia del calcio cileno: chi resisterà, dovrà aspettare giugno 2019 per tornare a giocare una partita ufficiale e difendere il titolo di campione in carica in Brasile, nella prossima edizione della Copa América, con un anno e mezzo in più sulle spalle. In Qatar, invece, Sánchez avrà quasi 34 anni, Vidal avrà compiuto i 35, mentre Edu Vargas, il più giovane degli undici titolarissimi che hanno perso la partita decisiva contro il Brasile insieme ad Aránguiz, ne avrà già 33. La sensazione attuale, al tramonto di una generazione d’oro, è che ci vorrà più di una notte perché l’alba porti nuovi leader tecnici. In quest’ultimo anno di qualificazioni è stato più facile vedere Pizzi richiamare giocatori esperti, un po’ ai margini del giro (Puch, Carmona, Orellana, addirittura il Mago Paredes), piuttosto che affidarsi con convinzione a Nico Castillo ed Erick Pulgar, che con una manciata di spezzoni giocati sono comunque gli under 25 più utilizzati. Nella speranza che emerga una nidiata di giovani cileni all’altezza di quella che brillò al Mondiale Under 20 del 2007, sarà compito di Rueda formare i giocatori già a disposizione e inventarsi qualche soluzione. Perché, come ha scritto il giornalista colombiano Alejandro Pino Calad in un suo recente editoriale per El Gráfico de Chile: «Reinaldo te encuentra agua en desiertos».

La nuova Roja

Da Tegucigalpa a Quito, passando per Barranquilla, il sistema base di Rueda è sempre stato il 4-4-2, adattato alle caratteristiche dei giocatori a disposizione. Sicuramente, la squadra più brillante (e vincente) tra quelle proposte in carriera dal Profe è stata l’Atlético Nacional, campione della Copa Libertadores 2016: un undici creativo, capace di tenere in pugno le partite con il possesso palla, di gestire l’ampiezza con profondi cambi di gioco e di innescare le chiavi del suo sistema offensivo, gli esterni d’attacco. Un 4-2-3-1 talmente ben orchestrato che funzionava indipendentemente dalla presenza di una punta di ruolo, ma non poteva fare a meno di un motore creativo: Macnelly Torres o, principalmente, il Lobo Guerra.

Un modello applicato anche nella sua ultima esperienza al Flamengo e sul quale, verosimilmente, Rueda imposterà il proprio Cile, viste le caratteristiche e le qualità dei giocatori a disposizione. Sánchez e Vargas, nonostante nella Roja abbiano brillato al massimo in un attacco a due, sarebbero in grado di spostare il peso offensivo della squadra sugli esterni, ma uno dei due potrebbe anche essere impiegato da centravanti. Vidal e Aránguiz, due giocatori sopra la media per bagaglio tecnico e tattico, interpreterebbero alla perfezione le coperture, il lavoro di palleggio e verticalizzazione richiesto agli interni di Rueda, ma soprattutto i movimenti offensivi che in verdolaga svolgeva Sebastián Pérez e in rubronegro spettavano a Willian Arão. In difesa, invece, anni di sampaolismo hanno educato i centrali a impostare con ordine dal basso, primi su tutti Medel e Jara: non sarà difficile tessere la manovra dalle retrovie, con particolare attenzione alla verticalità verso gli esterni, come già si è visto fare a Medellín e a Rio de Janeiro (con il terzino Pará su tutti).

I nodi più interessanti saranno la scelta del riferimento offensivo e l’impiego di Jorge Valdivia: il Mago ha ricevuto il proprio spazio vitale (e la propria dose di indulgenza) da Sampaoli, mentre da Pizzi è stato presto accantonato. Valdivia sembra il giocatore perfetto per aprire sentieri e dare creatività al sistema di Rueda, ma le sue intemperanze, come quelle di Vidal, potrebbero costare care davanti a un tecnico che fa della disciplina un dogma anche meno aggirabile del possesso palla: «Con lui, chi commette un errore non torna più, a prescindere da come si chiami. Lo allontana e basta. La Selección viene prima di tutto», ha detto Fabián Vargas, centrocampista colombiano agli ordini di Rueda nella Cafetera.

Juan Carlos Osorio, prima di abbandonare l’Atlético Nacional, fece ciò che fanno tutti i maestri quando lasciano un progetto a metà: suggerì alla dirigenza di rimpiazzarlo con i suoi assistenti. Poi, aggiunse : «Tra i profili esterni, il mio candidato preferito è Reinaldo. Una grande persona e, soprattutto, un uomo di calcio e per il calcio». Hombre de fútbol y para el fútbol, come Bielsa e Sampaoli. L’uomo da cui il movimento calcistico cileno deve ripartire.

 

Immagini Getty Images