Tommy Haas, grande e incompiuto

Si è ritirato un tennista che aveva promesso molto e vinto poco, ma che associamo comunque ai migliori del tennis.

Se fossimo nel 1999 ci potremmo facilmente trovare di fronte a un videogioco arcade a gettoni. Lì dentro, tra una fila di videogame caricati per allietare i pomeriggi dei bambini, non ci sarebbe troppo difficile trovato un videogioco chiamato Virtua Tennis che ha per protagonisti alcuni dei migliori tennisti del panorama mondiale del momento. Scorrendo la lista dei tennisti con cui giocare, tra l’ex numero uno Jim Courier e la grande speranza del tennis britannico Tim Henman, avremmo trovato un ventunenne tedesco di belle speranze che di nome fa Tommy Haas e che come caratteristica principale il gioco segnale la dicitura “diritto potente”. 19 anni dopo Tommy Haas ha deciso di concludere la sua carriera da giocatore professionista lasciandoci la certezza, non solo che quel “diritto potente” era un “grande diritto”, ma che forse al posto del diritto il gioco avrebbe dovuto segnalare un “gran rovescio”.

Il rovescio “a una mano” di Tommy Haas ha significato per molti una delle rappresentazioni più esteticamente riuscite del gesto. Secondo per eleganza forse a quello di Roger Federer, il rovescio di Tommy Haas è stato capace di disegnare il campo come pochi altri del suo tempo, ed è stato per tutta la carriera il vero termometro del suo stato di forma. A due occhi attenti ed esperti bastavano due rovesci – o forse anche solo uno – per capire se Haas fosse in giornata o meno. Bastava notare come il tedesco centrava il colpo e come la palla fuoriusciva dal suo piatto corde per avere chiaro la partita che il talento di Amburgo ti avrebbe messo davanti agli occhi.

Un riassunto di Haas, da guardare fino in fondo

È difficile inquadrare Tommy Haas nella storia del tennis. Non è facile inquadrare un giocatore tanto talentuoso quanto tristemente incompiuto. Ci sono stati – e ci saranno sempre nella storia del tennis – quei giocatori che hanno lasciato il segno. Non tanto sul campo o sugli almanacchi quanto nella testa degli appassionati. Basti pensare a Vitas Gerulaitis, perfetta trasposizione tennistica di quegli anni Settanta che per molti hanno rappresentato libertà e trasgressione, creatività e autodistruzione. Stretto in una morsa crudele tra Borg, McEnroe e Connors, Gerulaitis rimarrà nell’immaginario collettivo più per il suo talentuosissimo stare in campo che per la sua vittoria Slam, quando agli Australian Open del 1977 sconfisse John Lloyd al quinto set. Quinto set che è protagonista anche della partita che forse ha mostrato il picco massimo della carriera di Gerulaitis e che – forse non a caso – si è conclusa con una sconfitta. La semifinale di Wimbledon nel 1977 contro Borg.

Ecco, Tommy Haas sicuramente non ha vissuto una carriera fuori dal campo come Gerulaitis – tra discoteche e bevute – ma qualcosa in comune con l’asso americano c’è. Il non essere riuscito a salire al numero uno del mondo, per esempio – Haas al massimo sarà numero due nel maggio 2002 mentre Gerulaitis sarà numero tre nel febbraio 1978. Certo, Vitas è riuscito a portare a casa uno Slam mentre Tommy no. Ma a quel tempo l’Australian Open era considerando uno Slam minore e, quindi, spesso snobbato dai big del mondo. Entrambi, in sostanza, non sono riusciti a raccogliere quanto la loro classe avrebbe meritato. E di classe Tommy Haas ne aveva tanta. Da far spazio almeno a tre o quattro Slam. Sicuramente molto di più di un Master 1000 come trionfo più prestigioso della carriera – quello di Stoccarda nel 2001 quando superò il bielorusso Marks Mirny – e di “sole” cinque semifinali come picchi massimi dei tornei dello Slam e raggiunti agli Australian Open nel 1999, 2002 e 2007 e a Wimbledon nel 2009.

Ci sono stati gli infortuni che si sono ripetuti. Ci sono stati “quei due”, che poi sono diventati tre e alla fine quattro. Forse però il grande rammarico di Tommy Haas non è da cercare in un match o un torneo particolare quanto in un arco temporale di transizione in cui i grandi titoli erano terreno di conquista anche di giocatori non certo eccezionali come Thomas Johansson. Una sorta di terra di nessuno – tra i domini di Sampras e Federer – che ha visto i titoli dei vari Hewitt e dei Safin e dove c’era spazio un po’ per tutti. Tutti, tranne proprio che per quel fenomenale rovescio a una mano che invece s’imbrigliava quando era avanti due a uno nella semifinale degli Australian Open 2002 oppure quando l’inerzia di una finale Olimpica a Sydney 2000 sembrava dalla sua parte all’inizio del set decisivo contro Kafelnikov.

Non sappiamo perché ma quando pensiamo a Tommy Haas lo associamo a uno dei grandi del tennis. Un’immagine che si rafforza, paradossalmente, con la consapevolezza di non avergli visto alzare ciò che il tennis sembrava avergli “promesso”. Forse sarà perché è l’ultimo rappresentante di quel gioco arcade del 1999 che tanto sa di nostalgia. Oppure sarà che Tommy Haas, quando ha voluto e potuto, ha saputo incantare il pubblico come forse solo altri due o tre giocatori nell’arco di questi ultimi quindici anni. Sempre con quel capellino rovesciato da ventenne, come se avesse voluto ingannare il tempo per guadagnarsi ancora una chance.