Lavagnette – Il bel gioco serve a vincere?

Capiamolo con una delle partite più famose e strane dell'ultimo secolo.

Monaco, Germania Ovest, 7 luglio 1974. Si disputa la finale del Mondiale tedesco: da una parte l’Olanda di Michels, una squadra che aveva lasciato tutti a bocca aperta, in grado di unire tecnica e prestanza fisica, ritmi altissimi, velocità e compattezza, una squadra totale; dall’altra la Germania Ovest che cercava di mettere a frutto una decade di ingenti investimenti atti a sfornare una serie di guerrieri perfetti più che atleti. Due squadre all’apice della loro forma, una partita che poteva e doveva sancire non solo la vittoria sportiva ma anche quella ideologica della due nazioni contrapposte. Sappiamo tutti come andò a finire, ma vediamo di ricostruire con che premesse si è arrivati a questa finale e quali conseguenze ha portato con sé.

In Olanda, negli anni ‘60, l’elevata arretratezza sociale del Paese e la sopraggiunta maturità dei baby boomer hanno scatenato profondi cambiamenti sociali. Questo ambiente in fermento, combinato con la storica ossessione olandese per l’ottimizzazione degli spazi, ha portato a una rivoluzione unica anche nello sport e in particolare nel modo di pensare il calcio. In quel periodo si era passati in un breve arco di tempo da un calcio ancora dilettantistico e amatoriale all’introduzione del professionismo, e ciò ha dato la spinta decisiva alla generazione d’oro che ha portato l’Olanda a vincere molto, anche se non tutto.

La spinta decisiva è stata data da due principali fattori. Il primo può essere definito come un miglioramento sociale di una intera generazione – quella dei baby boomer sopra citati. Le migliori condizioni economiche, tecnologiche e culturali hanno senz’altro portato alla crescita di una fucina di giovani ben più preparata a emergere sul piano della personalità, e quindi anche sportivamente. A questo si unisce una rivoluzione tattica che ha accompagnato l’avvento del professionismo; ai tempi del dilettantismo infatti l’Olanda adottava ancora moduli superati da almeno un paio di decenni, come il 2-3-5 (la piramide di Cambridge), oppure il sistema di Chapman. Due personalità di spicco di quegli anni rappresentano bene quanto appena detto: Johan Cruijff per quanto riguarda il nuovo modello di sportivo, e ovviamente Rinus Michels per quanto riguarda ila rivoluzione tattica.

Il fulgore creativo dell’Olanda di quegli anni si trasmette anche ai giovani che giocano a pallone. Provare nuove finte, nuovi modi di toccare il pallone e nuovi movimenti senza palla diventa quasi una sfida generazionale

 Questa particolare situazione ha messo l’Olanda nel mappamondo del calcio mondiale: il secondo posto dell’Ajax nella Coppa dei campioni della stagione 1968/69 ha anticipato un quadriennio di dominio olandese in Europa (prima Feyenoord e poi tre volte Ajax). L’Ajax di Michels giocava il cosiddetto calcio totale, composto da un alto tasso di interscambiabilità dei giocatori, per far sì che la squadra fosse in grado di mantenere in qualsiasi momento la necessaria compattezza. Questa idea di gioco innovativa richiedeva una elevatissima qualità sia fisica che tecnica dei giocatori: gli attaccanti dovevano saper difendere e i difensori dovevano possedere spiccate doti offensive. Ma la principale chiave innovativa dell’Ajax sta nella fase difensiva: già all’epoca infatti l’Ajax di Michels difendeva “in avanti”; se è vero che hanno contribuito alla creazione del pressing alto che tutti noi conosciamo oggi, in realtà la loro principale innovazione consiste in una difesa posizionale in zona avanzata. Così facendo i lancieri riuscivano a recuperare palla in modo da creare pericolosità in modo più dominante. Il risultato di questa combinazione di giocatori tecnici e organizzazione difensiva ha portato ad un controllo continuo ed elegante del gioco che può essere definito come estetico.

Qui l’avversario (il Bayern) è in fase di impostazione. Già dai primi minuti l’Ajax porta i terzini molto alti, addirittura più avanzati delle punte lasciando il centrocampo scoperto con i centrocampisti arretrati a difendere, ma andando subito ad ostacolare la fase di impostazione avversaria e creare pericolosi contropiede

Qui si nota un primo rudimentale tentativo di pressing che sarà fondamentale nello sviluppo del Gegenpressing

Dopo la terza Coppa dei campioni consecutiva conquistata dai lancieri, tuttavia, il ciclo ha cominciato a rallentare. Il testimone è stato raccolto immediatamente dal Bayern Monaco, che ha dominato la successiva edizione della coppa. Il gioco dei bavaresi era più tradizionale, basato sulle capacità in cabina di regia di Beckenbauer e soprattutto dalle abilità realizzative di Gerd Müller, Der Bomber. Quel Bayern faceva leva sulla prestanza fisica dei loro giocatori, e attaccava in una maniera decisamente meno pianificata rispetto all’Ajax, crossando dalle fasce o cercando l’imbucata centrale una volta fatto avanzare il pallone tramite potenti triangolazioni laterali o isolate percussioni centrali. Il calciatore-emblema di quel Bayern era senz’altro Müller, attaccante antiestetico, macchinoso ma capace di segnare quasi 400 gol in 450 partite coi bavaresi.

Potente

I blocchi fondanti del gioco di Ajax e Bayern Monaco erano costituiti prettamente di giocatori del Paese e questo si rifletteva nella rosa delle rispettive Nazionali. Germania Ovest e Olanda, infatti, giocavano esattamente con gli stessi principi di gioco dei due club. Il Mondiale tedesco del 1974 prometteva essere la resa dei conti di questa grande rivalità sportiva e così è stato: Olanda e Germania Ovest si trovano in finale dopo un cammino agevole in cui hanno schiacciato sul piano del gioco tutte le avversarie. Una premessa a questo punto è importante: in realtà questa finale non vede davanti due poli diametralmente opposti. Questi potevano essere ad esempio il possesso della Jugoslavia o della Polonia e la fisicità della Germania Ovest. Ma Germania Ovest contro Olanda rappresentava molto di più: l’Olanda è stata la prima (e per ora unica) Nazionale fluida a provare ad unire questi due poli in maniera vincente e spettacolare allo stesso tempo. Era quindi la prova del nove per dimostrare che un altro calcio era effettivamente possibile.

L’inizio del match sembra non dare dubbi: gli Oranje battono il calcio d’inizio e passano in vantaggio in appena un minuto, dopo che Crujiff partendo da ultimo uomo difensivo (!) dribbla qualche difensore tedesco e si procura un rigore. Immediatamente dopo, l’uomo incaricato a marcare a uomo Crujiff, il mastino Berti Vogst, viene ammonito per un fallo sull’olandese stesso. La mossa di mettere Vogst a uomo sembra essere un errore madornale da parte dell’allenatore tedesco Schön: troppo lento, macchinoso e scoordinato il tedesco in confronto all’olandese.

Mettendo da parte il pessimo passaggio finale, in due passaggi l’Olanda si ritrova con un 4-4 lanciato con una fluidità nell’occupare lo spazio disarmante

Nei primi minuti l’Olanda continua a macinare un gioco che sembra di un altro pianeta. Per batterla servirebbe essere in grado di proporre un gioco altrettanto avanguardista e veloce e cercare di sovrastarli tecnicamente. Oppure proporre un calcio estremamente vecchio e superato.

Ed è proprio così che Schön decide, un po’ a sorpresa, di mantenere Vogst a uomo nonostante il giallo e le difficoltà in marcatura e di cercare più insistentemente il possesso palla in mediana per liberare spazi sulle fasce con triangoli non troppo complessi, fare partire dei filtranti e crossare nella speranza di sovrastare fisicamente i difensori avversari.

Non solo, questo esponeva la squadra tedesca a letali contropiede olandesi e la partita avrebbe potuto trasformarsi in una disfatta. Tuttavia, gli uomini di Schön iniziano a macinare gioco e dopo aver creato alcune occasioni riescono a pareggiare su calcio di rigore. La partita sale di intensità e la Germania non si lascia prendere dalla smania e continua col suo gioco organizzato. Al minuto 43 si decide la finale: un possente quanto banale inserimento in fascia coglie impreparata la difesa olandese, cross a centro area e Müller è bravo a sfruttare il caos e a mettere dentro un goal piuttosto semplice.

Il gol che decide la finale mondiale nasce praticamente del nulla, ma quello che più stupisce è la prestanza muscolare e fisica della Germania, in particolare si nota nella finta prima del cross e nella deviazione in aerea come l’agilità e l’esplosività dei tedeschi permetta di avere un vantaggio di almeno un metro rispetto al diretto marcatore

La vittoria tedesca dunque evidenzia l’importanza di uno stile di gioco finalizzato all’ottenimento del risultato a prescindere dal valore estetico del gioco espresso. Ma in realtà il secondo tempo di quella finale mondiale ha visto l’Olanda dominare il gioco, mancando il pareggio solamente a causa di imprecisioni e miracoli del portiere avversario, Maier.

Dopo questa sconfitta il movimento olandese sparisce dai radar sia a livello nazionale che di club. La finale mondiale del ‘78 è più casuale di quel che si pensi, l’Olanda fatica in tutte le partite esprimendo un brutto gioco e spesso le risolve grazie a giocate fortunose o colpi da 40 metri. Bisognerà aspettare una decade abbondante per rivedere il Psv trionfare in Europa. Il Bayern invece continuerà a dominare per altri due anni e in generale il movimento tedesco se la giocherà con il movimento inglese per tutta la decade.

Che cosa ci insegna questa storia? Anzitutto che giocare per vincere è a prescindere un’idea valida, evitando perciò la ricerca forzata del bel gioco. In secondo luogo, la prima metà degli anni ’70 ci illustra come un’alternativa più innovativa ed elegante esisteva, e probabilmente meritava la consacrazione definitiva in quella sera tedesca. La domanda chiave è: siamo sicuri che la lezione del 1974 sia definitiva? È possibile ora sviluppare una ricerca ossessiva del bel gioco come arma principale per ottenere la vittoria?

Da allora a dominare il panorama calcistico europeo si sono sempre alternate squadre che hanno puntato tutto o sul possesso o sulla forza fisica, con la sola eccezione del Milan di Sacchi ,considerata una delle squadre più forti di sempre nonostante, a ben guardare, in entrambe le annate in cui dominò la Champions perse il campionato dietro a Napoli e Inter e la coppa Italia con la Juventus. A dimostrazione che una simile sublimazione calcistica richiede un dispendio di energie e un livello di concentrazione impossibile da mantenere su più fronti. Insomma, forse ha ragione Sarri a dire che «non serve vincere per fare la storia», nella speranza che un giorno qualcuno trovi la formula magica e dia consistenza a questa utopia calcistica. O forse no, forse è giusto ammirarne solamente il mito.