Per un calciatore essere versatile è un bene?

Alcuni ne traggono vantaggio, per altri è un freno: anche da qui passa l'evoluzione dei protagonisti in campo.

Parlare oggi in senso generale di versatilità, dell’importanza che riveste sul campo, significa arrivare tardi di oltre mezzo secolo. Ma da una prospettiva secondaria, mettendone in discussione i corollari, il tema presenta un lato d’ombra che può offrire ancora una grande varietà di spunti. Il tutto partendo da un presupposto: la versatilità intesa come qualità del singolo è in senso assoluto un pregio. Il saper fare più cose sul campo, l’essere in grado di orientarsi in zone diverse al suo interno, rappresenta innegabilmente un elemento di vantaggio. Preso individualmente e slegato da ogni genere di contesto, il concetto di versatilità delinea un carattere utile e prezioso del background di un calciatore. È un discorso intuitivo, per afferrarlo basta osservare chi oggi rappresenta questa categoria: Alaba e Muller nel Bayern, Koke e Saúl Ñíguez nell’Atlético, Emre Can nel Liverpool.

Mettendolo sotto la lente d’ingrandimento però ne emergono anche le pecche, i tratti deficitari. Uno di questi lo ha parzialmente sollevato Oscar Cini con questo pezzo pubblicato su Undici. Oggetto dell’analisi in quel caso era Marcus Rashford: «Vuoi per l’età, vuoi per la fase di formazione che lo ha visto cambiare ruolo per necessità durante il periodo in Under 18 dello United, per Marcus è semplice adattarsi alle richieste dell’allenatore. Ma questa cosa sta realmente facendo il suo bene?». Scomponendo la questione specifica ne viene che oggi la crescita di Rashford, un attaccante estremamente moderno, e quindi versatile, sta venendo frenata anche per via della sua versatilità. È vero, Mourinho ha a disposizione tanti giocatori offensivi di qualità; ed è vero anche che tra questi Rashford è per distacco il più giovane, e quindi il più sacrificabile. Sono elementi che condizionano l’esito (ossia: Rashford in panchina) ma non bastano a spiegarlo. Se Rashford ha una media di minuti giocati a partita pari a 53, molto lo “deve” anche alla sua capacità di entrare a partita in corso in almeno tre posizioni su quattro dello scacchiere offensivo di Mourinho. Che, tenendolo in panchina, può giocarselo nei secondi tempi contando proprio sulla sua versatilità. Per lui come per pochi altri parlano i numeri: in carriera ha già giocato almeno dieci partite in ciascuna delle tre caselle del tridente.

Ora, considerate le qualità di Rashford è plausibile che in un altro contesto starebbe già seguendo le orme di Mbappé e Dembélé, gli altri due attaccanti-prototipo della sua generazione. Non li citiamo per caso, ma perché entrambi rappresentano una sfumatura differente, riuscita, della versatilità applicata al calciatore. Mbappé ad esempio è un attaccante estremamente versatile, molto simile a Rashford da questo punto di vista. Però è emerso in un ambiente più soft, senza le luci dei riflettori puntate addosso, e una volta conclusa la stagione da protagonista ha fatto il salto. Discorso simile per Dembélé, se non fosse che, a differenza degli altri due, lui l’attaccante vero e proprio non lo ha mai fatto. Il loro caso, in sostanza, è emblematico di come la versatilità in sé, pur avendo valore assoluto, non possa prescindere da un contesto che la valorizzi. Servono coincidenze e uno sguardo attento da parte di chi poi è chiamato a scegliere. Mbappé e Dembélé hanno avuto entrambi, a Rashford sin qui è mancato spesso il secondo.

Per rimanere dalle parti di Manchester, ancora in casa United, un discorso del genere può essere impostato anche riguardo Pogba. Servono delicatezza ed elasticità, ma serve soprattutto partire con una premessa: oggi, pur con tutte le sue contraddizioni, Pogba è un centrocampista di altissimo livello. Nel suo profilo il francese ha incarnato al contempo entrambe le deviazioni della versatilità, ed è curioso che ciò sia avvenuto – a memoria – solo con lui. Ovvero: da un lato è da anni il l’idealtipo del centrocampista moderno, forte fisicamente ed atleticamente, bravo nel leggere il gioco, nel crearlo e nel romperlo, a suo agio in ogni posizione di competenza del ruolo; dall’altro il suo potenziale alla prima stagione in Premier è apparso non del tutto espresso, ed era forte il sospetto che ciò potesse dipendere dalla difficoltà nel trovare certezze posizionali. Pogba mediano, Pogba mezzala, Pogba trequartista, fino a disorientarlo. Aveva (ed ha) le capacità per fare ciascuna di quelle tre cose, eppure non era così raro vederlo giocare sottotono. Il suo caso ci suggerisce banalmente che la versatilità non è un attributo monocolore; ne esistono bensì livelli differenti. E comunque approfittarne in misura eccessiva difficilmente consegue benefici, soprattutto per il singolo nel suo percorso di crescita.

Altro aspetto interessante da prendere in considerazione, quando si parla di versatilità, è il modo in cui si arriva a definire un giocatore “versatile” o meno. È importante, perché tra un giocatore versatile ed uno che non sa fare nulla di particolarmente utile sta un abisso. E infatti i giocatori versatili riusciti, quelli che negli anni hanno saputo mettere a frutto la loro qualità, sono apprezzati e ricercati perché sanno fare bene più cose, non perché ne sanno fare tante in generale. Florenzi e Asamoah ne sono un esempio lampante, ma anche un giocatore come Lulic è stato preziosissimo in passato per questo motivo. Oppure prendiamo Bonaventura: a 28 anni ha giocato tante volte in ogni posizione dal centrocampo in su, rispondendo a consegne diverse con la stessa efficacia. E in un Milan che dal 2014 ogni anno è stato chiamato ad una rifondazione tecnica lui ha rappresentato (quasi) sempre un punto fermo. Sa dribblare, sa passare, sa inserirsi, e sa muoversi per creare spazio in qualsiasi zona di campo. Per riprendere e sovrapporre ad un caso concreto quanto detto sopra, la sua versatilità non consiste nel cavarsela in tutti questi fondamentali, ma nel saperli eseguire bene.

Poi c’è il discorso inverso, che riguarda i giocatori privi di una collocazione fissa per altre ragioni. Al centro ci sono soprattutto quei giovani ancora acerbi, tendenzialmente monotematici, che faticano ad esprimere con continuità la loro qualità principale (il dribbling, la visione di gioco, il tiro dalla distanza). Due esempi sono di grande aiuto per concentrarsi su questa categoria: quello di Coutinho e quello di Kovacic. Entrambi sono arrivati all’Inter ad un’età in cui perdersi è facile, soprattutto se il processo di maturazione fisica e caratteriale deve ancora compiersi. Oggi sono piuttosto diversi rispetto a quattro anni fa, si sono definiti. Coutinho è diventato un centrocampista offensivo – né ala né seconda punta – e Kovacic una mezzala di possesso – né regista né trequartista. Entrambi a Milano venivano schierati in posizioni differenti di mese in mese, ma non tanto perché fossero versatili, quanto perché non riuscivano a trovare una collocazione in cui esprimersi con continuità. E con il passare degli anni abbiamo avuto la controprova, seppur parziale: Kovacic si è strutturato fisicamente e anche grazie a questo oggi ha leggermente aumentato il suo livello di versatilità, mentre Coutinho, pur nella sua crescita verticale, è rimasto un giocatore non-versatile.

Allo stesso modo esistono (e ne esistono sempre di più) giovani che passano di posizione in posizione perché vi garantiscono rendimenti equivalenti in positivo. Sono casi in cui la maturazione di cui sopra è già avvenuta, e pertanto si può lavorare sul calciatore senza doversi preoccupare di farlo sul ragazzo. Di alcuni – Saúl Ñíguez, Rashford, Mbappé – abbiamo già parlato, ma non sono gli unici. Carlos Soler, Joshua Kimmich e Dele Alli rientrano perfettamente nella categoria, ma anche giocatori di appeal minore come Santi Mina o Bernardeschi hanno tratto vantaggio dalla loro versatilità ad un certo punto della loro breve carriera. La capacità di sapersi districare con successo in situazioni diverse rappresenta spesso e volentieri una discriminante decisiva per comprendere un giocatore, e in alcuni è stata addirittura il plusvalore. Poi però c’è l’altra faccia della medaglia: giocatori come Tom Davies o come Schick oggi fanno fatica anche per questo, perché la loro versatilità li confonde (è il caso del primo) o li relega ai margini (è il caso del secondo, simile alla situazione di Rashford).

Tirando le somme, va tenuta in considerazione una serie di fattori complementari alla versatilità per far sì che questa risulti efficace. Uno di questi è la maturità (da cui la biforcazione: maturità vera e propria-sviluppo fisico): chi ha già raggiunto un livello soddisfacente da questo punto di vista è avvantaggiato e può metterla a frutto. Poi le qualità cerebrali, che di un discorso di questo tipo sono il perno: il calciatore in grado di leggere il gioco nelle sue fasi (e veloce a sufficienza per condizionarlo) parte con una marcia in più. Il processo di crescita dei calciatori di oggi tende a mettere sempre più al centro la versatilità, e gli indicatori che lo dimostrano sono numerosi. Basti pensare, in relazione a quanto detto sin qui, ai nomi di chi si contenderà il Pallone d’Oro al tramonto della diade Messi-Ronaldo. O ancora, al fatto che la modernità spinga la definizione del concetto di ruolo verso l’idea di funzione, piuttosto che di posizione. In sostanza, se fra dieci anni fare l’ala non signicherà più “giocare da esterno d’attacco” ma “coprire l’ampiezza, stringere nei mezzi spazi, lasciare spazio alla sovrapposizione”, dal momento che le funzioni aumenteranno per ciascun singolo, saranno sempre meno i giocatori iper-specializzati, e quindi non-versatili. Questo l’obiettivo in chiave futura: crescere con l’idea del multitasking senza rinunciare alle prerogative individuali. È anche di qui che passa – e sta passando – l’evoluzione dei calciatori.