Piero Chiambretti, solo per numeri dieci

Per inventiva, fantasia e irriverenza, è il "trequartista" della televisione. Il torinista Chiambretti racconta come si vive il calcio con ironia.

Il suo ufficio è un ristorante. Piero Chiambretti ci accoglie al Fratelli La Cozza, a Torino. Uno dei tre in città di cui è socio – gli altri sono il Birilli e lo Sfashion Café. «Ho sempre cercato di fare delle cose, sia in tv sia fuori, che non c’erano…», dice Piero. «Quando noi a Torino abbiamo aperto il primo locale (il Birilli, ndr), all’epoca, parliamo del ’92, c’erano solo due tipi di locali: quelli da 150mila lire e le trattorie dove la signora anziana, un po’ vecchia un po’ grassa, andava in giro con le ciabatte. Non c’era quella via di mezzo, con ironia, perché non si era mai potuto scherzare sul cibo nei ristoranti italiani. Poi, quando abbiamo cominciato noi, tutti a mettere scritte divertenti, e il disegno, e la scultura…».

Qualche anno dopo, sul finire degli anni Novanta, è nato il La Cozza, e il mitile è il tratto distintivo del locale, onnipresente e famelico – tanto da avere uno Yacht Club tutto suo, fondatore Aristoteles Onassis, o un marchio sportivo, Robe di Kozza, sulle maglie di una Nazionale del passato. «Sono giochi innescati per divertire il pubblico. Questo è un locale molto divertente che rappresenta in qualche modo il mio spirito televisivo. Sono dell’idea che quando un personaggio pubblico – e speriamo popolare – apre un locale debba metterci una parte di sé. Quando in un locale trovi il disegno di un architetto che non rappresenta nulla del personaggio è un errore, uno spiazzamento». Ma poi c’è il cibo. Racconta orgoglioso di quando andò a Napoli a reclutare personalmente il pizzaiolo di origine controllata che avrebbe sfornato le pizze dei Fratelli La Cozza. «Andai da Bassolino, che all’epoca era sindaco di Napoli ma anche presidente dell’Associazione Verace Pizza Napoletana. Mi feci dare la lista dei migliori pizzaioli della città. “Vuoi venire a Torino?” “No”. “Vuoi venire a Torino?” “No”. “Vuoi venire a Torino?” “Sì”. Quello che mi disse sì era l’ultimo dei Brandi, cioè la famiglia che si dice abbia inventato la pizza margherita».

Alle pareti, un poster di Piero Chiambretti e Diego Armando Maradona testimonial per Robe di Kappa, i cui uffici sono proprio a fianco al ristorante. «Aveva già smesso di giocare. Molto disponibile, giocherellone, anche troppo. Io andai a casa, ma qui la festa continuò in tutte le salse». E Maradona pronunciò la frase che rimane impressa su un altro poster, al piano superiore del ristorante: «Ai Fratelli La Cozza sono come sono e me piace». Maradona, la pizza, Napoli. «Per me è una seconda casa. Li è nata la mia attività televisiva con la tv dei ragazzi. Poi io sono un po’ scugnizzo. E il Napoli mi diverte molto vederlo giocare, spero vinca lo scudetto. Mi piace tantissimo Insigne. Anche se non andrei mai dal suo barbiere».

Ma Piero, lo sanno tutti, è tifosissimo del Torino. Ci infiliamo nella sua Cinquecento granata: «Questo colore la Fiat non lo fa». Se non per lui, e il toro rampante su tricolore all’interno toglie ogni dubbio sul perché della scelta cromatica. «Dei nostri migliori clienti abbiamo incorniciato i tovaglioli: da una parte i giocatori del Torino del ‘76 che vinsero lo scudetto. Dall’altra quelli che segnavano sempre gol in Coppa Campioni alla Juventus». Già, la Juventus. «Ci sono stati anni in cui la Juve, legata a Robe di Kappa, veniva qui per le cene aziendali. La sera dell’inaugurazione del ristorante abbiamo messo Ciro Ferrara alle pizze. C’è ancora la foto di lui che inforna e sotto abbiamo scritto “licenziato”».

Ⓤ Del mondo del calcio chi hai intervistato con più piacere?  

La simpatia di Ancelotti mi sembra quella più interessante da proporre a un pubblico televisivo, perché parla come mangia, è molto disponibile, brillante. Il più intrigante è Mourinho. Ancora oggi quell’intervista fatta in un programma di intrattenimento – e non specializzato di sport – rimane nella storia della televisione, perché riuscii nella missione di rendere Mourinho simpatico. E lo era poi veramente.

Ⓤ E in quell’occasione disse «nemmeno Gesù piaceva a tutti».

Ho arricchito il suo repertorio, ho allungato la lista di frasi celebri.

Ⓤ Soddisfazione?

È chiaro che quando hai una persona davanti, che interessa a un pubblico vasto, più riesci a interpretare il pensiero di chi guarda più vai vicino all’obiettivo. Oggi tutti intervistano tutti, c’è un’overdose di interviste, ospiti, conduttori, si è quasi arrivati alla nausea. Per provare a differenziarti devi cercare di partire da altri presupposti: con un pizzico di presunzione, le domande devono essere meglio delle risposte. Dalle risposte spesso esci deluso in quanto la diplomazia, il politicamente corretto che tutti devono osservare fa sì che il 95 per cento delle interviste che vedo in televisione sono di una banalità e di una noia mortale. Il 5 per cento che rimane è il mio.

Ⓤ E in quanto a diplomazia, il calcio è al primo posto.

Il calcio ha dieci frasi che sono sempre le stesse, e che peraltro non sono solo le stesse risposte, ma sono anche sempre le stesse domande. La colpa non è solo dei giornalisti, o dei calciatori: è del sistema. Il sistema deve avere delle regole oltre le quali sei indicato come una voce fuori dal coro, una persona pericolosa, una multa all’orizzonte. È evidente che il pericolo di fare interviste banali è all’ordine del giorno, anche perché le interviste sul calcio tra radio e tv sono continue, dal lunedì alla domenica, dal mattino alla sera. 

Ⓤ Voce fuori dal coro… ci viene in mente Piero Chiambretti. Quando a inizio anni Novanta, con Prove tecniche di trasmissione, era l’elemento disturbatore del calcio.

Fu l’apripista di un nuovo sistema televisivo che abbinava l’intrattenimento allo sport. Fino a quel momento i calciatori erano diversi, erano meno star. C’erano grandi campioni, che però affrontavano la tv con molta circospezione. Il fatto di entrare in un ritiro senza un pass, senza un accredito, senza un titolo, creava quello scompiglio che innescava un divertimento che nasceva dagli imbarazzi. Il gioco era: noi affittavamo delle camere come illustri sconosciuti nell’albergo dove alloggiavano i giocatori. Nascondendo le telecamere nelle valige, e non essendo ancora noti, nessuno si creava il problema di farci entrare e darci una camera al piano sopra o al piano sotto dei giocatori. Questo ci permetteva che a un certo punto della sera si montavano le telecamere, si scendeva di un piano e li trovavi tutti. Senza bisogno di fare grandi ricerche.

Ⓤ E poi?

Si partiva. Io avevo un canovaccio di domande che erano più legate al pretesto per poi costruire delle scene comiche, perché la differenza tra me e tanti è che io non vado alla ricerca della verità, che peraltro non esiste, meno che mai in tv. Vado alla ricerca della situazione: il situazionismo, che spesso innesca del divertimento. Io sono diventato grandissimo amico di Arrigo Sacchi dopo un incontro sull’ascensore all’hotel Ambasciatori di Torino prima di un Torino-Milan. Trovarsi con Sacchi in ascensore che non sa chi sei, ti vede con una telecamera, pensa di essere blindato intoccabile inarrivabile… Solo la faccia, solo la faccia, ti dà uno spunto di spettacolo. Se poi a quella faccia aggiungi una battuta: «Anche lei Sacchi ha commesso un errore, non ha mai usato la brillantina Linetti», che era una pubblicità che si faceva negli anni Sessanta, tu hai già fatto gol.

Ⓤ E le reazioni?

Divertite, violente, sorprendenti, sconvolgenti. Giocatori che scappavano perché non volevano assolutamente farsi vedere per paura di chissà quale figuraccia. Ricordo un altro albergo, sempre a Torino, c’è il Napoli, che gioca contro la Juventus. Solita storia, noi prendiamo le stanze, arriva il Napoli, che aveva come gioiello Maradona. Mi faccio dare dopo lauta mancia il numero della camera da un cameriere, e con la telecamera vado a bussare cercando di imitare, molto lontanamente, la voce di Gianni Minà, grande amico di Maradona. «Diego apri, sono Gianni», e lui apre la porta nudo, perché esce dalla doccia. Quando vede la mia faccia, che non è ovviamente quella del grande Gianni Minà, peraltro grande tifoso granata, beh, lì la reazione fu forte.

Ⓤ Impazzì?

Bum, bam, bum, bam. Porta che si apre, porta che si chiude. «Andate via», «No sono io, ho fatto la plastica, ti giuro, sono Gianni Minà, te lo giuro sulla testa di Fidel Castro». Cioè era un continuo gioco, non era un’intervista.

Ⓤ Ma l’elenco delle “birbonate” è lungo.

Mi facevo dare un finto pass da giornalista, oppure una pettorina degli addetti della Rai. Appena le squadre entravano, io mi buttavo in campo con i giocatori. Avvicinandomi a loro facevo domande del tipo, non so, a Baresi feci domande del tipo, mentre camminava, «ma scusa, qual è il tuo sport preferito?». Mentre camminava, lui capitano del Milan, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio. Chiaro che anche lì le reazioni erano… più che altro erano sorprendenti i silenzi, i silenzi. Oppure mi ricordo Völler. Eravamo a Roma, entro in campo e dico: «Ma è vero che tu hai vinto il biglietto della lotteria», perché erano i giorni dopo la lotteria, quella di Capodanno, «e tieni i soldi nei calzettonen?». Cose anche molto futili. Cioè, all’epoca cercavo di essere molto infantile, ma volutamente ancora più infantile perché i calciatori sono dei bambinoni. Erano delle cose veramente divertenti, che non ho mai più visto.

Ⓤ Hai rischiato di prenderle!

Sì, beh, sì, ho fatto anche delle corse, rincorse, dentro le curve, anche di B, di C. Da una parte trovavi l’entusiasmo di gente che non poteva immaginare che la televisione si interessasse del Barletta Calcio, dall’altra però… Una volta ero ad Ascoli. La settimana prima avevo fatto un telebeam, che era una sorta di presa in giro delle prime macchine tecnologiche che facevano vedere i gol con le prospettive, eccetera. A conclusione della partita mi trovavo nello stadio, chiedevo il risultato e come erano stati realizzati i gol e poi li rifacevo senza palla, con la curva che, ogni volta che fingevo di buttarla dentro, urlava come se il gol fosse stato fatto in quel momento. In smoking. Era veramente il surrealismo televisivo più puro.

Ⓤ Dicevamo di Ascoli.

Mi trovavo a Udine dove l’Udinese batté l’Ascoli 5-0, e la settimana dopo andai ad Ascoli. Dimenticando i gol di una settimana prima, ma non per sberleffo contro l’Ascoli, ma perché quello era il format del gioco. Insomma, Ascoli, arrivo sotto la curva, che pensavo fosse calda come tutte le curve che mi aspettavano, e cominciano a tirarmi della roba. Solo l’aiuto della polizia mi salvò.

Ⓤ Oggi guardi il calcio con più distacco?

Mi sto annoiando. Le partite le trovo tutte molto uguali, c’è molta enfasi intorno al mondo del calcio, si esaltano anche illustri bidoni. Il calcio italiano ha pochissimi campioni eccelsi. Il calcio si è trasformato e oggi vincono solo le squadre che hanno i campioni. I campioni costano e non tutti se li possono permettere. Bisogna costruirli in casa, ma costruirli in casa non è facile. Non mi diverto come un tempo. Mi fa ridere che le tv commentano qualunque partita come partite eccezionali, alla lunga diventa stucchevole. E poi falso, perché non è così.

Ⓤ Il calcio è diventato un prodotto televisivo da confezionare nel miglior modo possibile?

Sì. Poi ogni tanto c’è anche la giocata, e quando c’è la rivediamo almeno duemila volte perché è come il panda, qualcosa da conservare tra i beni dell’Unesco. Tutto il resto invece è contorno, è uno spettacolo pari, se vogliamo fare un parallelismo, al Festival di Sanremo, dove è tutto meno che le canzoni. il calcio spesso è tutto tranne la partita: è la polemica del giorno prima, il ginocchio del giorno dopo, il Var, diventato oggetto di seduzione per molti e di tortura per altri… quindi direi che molto dello spettacolo del calcio è fuori dal calcio. Come a Rimini tutto è bello tranne il mare, ma uno ci va lo stesso perché sono stati talmente bravi che ti hanno fatto dimenticare che il mare non è quello delle Maldive.

Ⓤ Da “sperimentatore” della tv come arricchiresti di contenuti il calcio?

Hanno inventato tutto, non si inventa più niente. Si può solo migliorare. Forse non è stata ancora trovata una formula veramente riuscita di raccontare il calcio in una forma spettacolare che non sia totalmente tecnicista, e che possa attirare un pubblico più largo che guardi questo programma non solo per il lato sportivo ma anche per il lato di costume, per il fatto giornalistico. Forse l’unica cosa che mi piacerebbe fare, e che non ho mai fatto, è un’intera trasmissione come potrebbe essere Pressing, quella di Raimondo Vianello, che riusciva a coniugare il calcio giocato con quello parlato, unito di una buona dose di ironia e spettacolo.

Ⓤ È ancora possibile l’ironia?

Dipende da chi lo fa. Non dipende dai calciatori, dipende da chi, imprenditore, editore, regista, produttore, decide di puntare su un programma di questo tipo. Oggi forse l’unico che dovrebbe farlo, secondo me, è il mio amico Urbano Cairo, perché ha una tv, una squadra di calcio e la Gazzetta. Non fare un programma di sport a tutto tondo, cercando di rompere gli schemi che hanno costruito altri, mi sembra un delitto.

Ⓤ Ci siamo arrivati. Cairo.

Il più bravo di tutti. Grande lavoratore, guadagna su tutto quello che fa, è molto stimato. Non gli si può fare nessun appunto se non quello – ma lo capisco perché è un imprenditore – di non fare pazzie, quindi non compra al di là di una certa cifra per non mettere la società in difficoltà. È chiaro che da tifoso uno vorrebbe che si comprassero i giocatori migliori del mondo.

Ⓤ Che ne sarà di questo Toro?

Quest’anno probabilmente si pensava di farcela, l’investimento su Niang, l’aver trattenuto Belotti, e altri giocatori importanti, Sirigu, N’Koulou, c’erano tutte le condizioni per cui la squadra fosse più forte dell’anno scorso e quindi anche pronta per il salto. Forse il connubio Torino-Mihajlovic non ha funzionato e oggi ci troviamo in una situazione di limbo in cui non andiamo in B ma quasi sicuramente è difficile agganciare l’Europa.

Ⓤ E quindi si torna alla noia.

Non so se riuscirò a vedere il Torino vincere qualcosa, me lo auguro anche per mia figlia Margherita che vorrei fosse granata.

Ⓤ Non lo è?

Lo è, ma non lo è. Perché ha sei anni, a scuola son tutti della Juventus, e c’è un processo imitativo. Però io le faccio vedere le partite anche se non le capisce, conosce bene il nostro inno, le ho regalato la maglia… più di così.

Ⓤ È vero che sei diventato del Toro dopo la morte di Meroni?

Sì, prima ero dell’Inter. Giocavo bene, ero piccolo ma avevo i piedi buoni, e lì ai giardini mi chiamavano Suárez, piccolino, poco fisico, grande qualità nel palleggio. Poi dopo la tragedia di Meroni ci fu il derby del 4-0, vinse il Torino, io lì fui, purtroppo o per fortuna, non lo so, folgorato. Pregai per mezzora una salma che non era quella di Meroni, vabbè, era buio, confuso… io ragazzino…

Ⓤ Tre nomi granata nel tuo pantheon personale.

Primo Claudio Sala. Per me è stata una cosa meravigliosa vederlo dribblare, andare sul fondo con i calzettoni abbassati, crossare per la testa di Pulici e Graziani… ecco, poi ci metterei Pulici, perché è rimasto nel cuore di tutti, non si è montato, non ha cambiato maglia se non alla fine, continua a essere un cuore Toro. Poi ce ne sarebbero tanti… mi viene in mente Martín Vázquez perché era un giocatore del Real Madrid arrivato al Torino, e ci fece respirare qualcosa che fino a quel momento io tifoso non avevo mai visto. Un amico che mi è rimasto nel cuore è Pasquale Bruno. Andai anche a trovarlo in Scozia quando giocava con gli Hearts. Al suo esame di inglese… volevo passargli il compito, ma fu bravo da solo.

Ⓤ Tanti amici nel calcio?

Non sono un grande frequentatore, con tutti quelli che ho intervistato non ho mantenuto una corrispondenza. Sono molto torinese, non disturbo. Se poi c’è l’occasione, ben volentieri, ma non vado a crearla. Ed è anche uno dei miei limiti perché sono un cane sciolto, non ho creato reti di amicizie…

Ⓤ Beh, dai, uno ce ne sarà.

Ho un ottimo rapporto con l’ahimè sfortunato ex ct della Nazionale Ventura. Al lunedì, quando era a Torino, si mangiava insieme, si parlava di calcio, si parlava di televisione… una bella persona. Dopo l’eliminazione della Nazionale l’ho sentito poco.

Ⓤ Non avrà avuto molta voglia di parlare.

Beh, sai, entrare nella storia del calcio come quello che non porta la Nazionale ai Mondiali dopo 60 anni non fa piacere a nessuno. Nello stesso tempo poteva anche essere l’allenatore giusto della Nazionale, se non che ci sono degli errori a monte. Vedendolo da fuori, credo che imporre un proprio gioco in una Nazionale che vedi troppo poco è molto pericoloso. Il selezionatore deve prendere i blocchi, deve farli giocare come giocano nelle loro squadre. Più il blocco è largo, meglio è. Lui ha avuto la piccola presunzione di portare un gioco completamente inedito con giocatori che nelle loro squadre giocano altri schemi. Questo lo ha penalizzato.

Tratto dal numero 20 di Undici. Foto di Riccardo Meroni