Ritrovare lo Schalke

Domenico Tedesco ha riportato in alto un club che mancava da tempo nelle zone nobili della Bundesliga.

Per trovare l’ultima traccia dello Schalke 04 in Champions League bisogna tornare indietro agli ottavi di finale del 2015, persi contro il Real Madrid in un frenetico 3-4 al Bernabéu. Ora il club di Gelsenkirchen si prepara a tornare nella competizione più importante grazie a un secondo posto che mancava da otto anni, che poi – di fatto – sarebbe il primo posto nel campionato delle squadre che non sono fuori scala per la Bundesliga. Individuare le radici di quanto di buono si è visto in questa stagione dei Königsblauen non è un esercizio difficile, non bisogna andare tanto lontano dall’uomo in tuta e polo blu che siede in panchina.

Domenico Tedesco è stato uno degli allenatori più in vista in questa stagione e sul personaggio è già stato detto parecchio: è nato a Rossano in Calabria; ha preso il patentino di Fußball-Lehrer (insegnante di calcio) nel 2016 con il massimo dei voti; soprattutto, è uno degli esponenti più intriganti di quella generazione di allenatori che in Germania è stata ribattezzata Laptop Trainer: allenatori che non sono passati dal campo come calciatori. Ma se gli altri membri del “club” – Klopp, Schmidt, Tuchel e il giovanissimo Nagelsmann su tutti – condividono la tendenza a voler determinare a tutti i costi il contesto in cui si gioca, a imporre il terreno di scontro all’avversario come vorrebbe la scuola tedesca nel ventunesimo secolo, Domenico Tedesco ha costruito una squadra meno aggressiva, meno proattiva, per certi versi meno appetibile per lo spettatore neutrale.

Spiegare la tattica di Domenico Tedesco

Nella cura maniacale di ogni dettaglio, nei movimenti e nelle scelte della sua difesa, il tecnico di Rossano Calabro fa fede in tutto e per tutto allo stereotipo ormai consumato – e pure un po’ stantio – dell’allenatore italiano che parte dalla difesa per dare forma e sostanza alla sua squadra. Tedesco ha scelto di essere un tecnico flessibile, disposto ad adattarsi al materiale umano a disposizione piuttosto che piegarlo alle sue idee. E lo fa sempre con un occhio rivolto all’avversario di turno, studiandone punti di forza e di debolezza. Il risultato è una squadra reattiva, che preferisce aspettare nella propria metà campo senza applicare grande pressione iniziale, per imbottigliare l’attacco in pochi metri e lavorare sulle linee di passaggio con più comodità. L’idea-guida è quella di avere sempre la superiorità numerica nella fascia centrale, quindi una difesa a tre e cinque uomini – tra centrocampo e attacco – nel mezzo.

L’attenzione per la fase difensiva si legge anche nei numeri. Solo Bayern e Stoccarda hanno fatto meglio dello Schalke in quanto a protezione della porta in campionato: 37 gol subiti in 33 partite. È la prima squadra per intercetti grazie soprattutto al lavoro di Meyer e Stambouli (2,3 a testa, primi in Bundes insieme a Guilavogui del Wolfsburg), e la terza per contrasti vinti (ancora merito di Stambouli, con 3,4 di media è il secondo del campionato).

L’attacco ne esce, in qualche misura, demineralizzato, affidato prevalentemente alle capacità di read and react in fase di transizione offensiva da parte di un cavallo di razza come Goretzka e dei laterali Caligiuri e Oczipka. I numeri sono positivi (quinto miglior attacco del campionato), nonostante l’evidente mancanza di un disegno che vada oltre il semplice livello “elementare”. I limiti offensivi si leggono in controluce, e sono quelli che contribuiscono a dare della fase offensiva un’idea molto più legata all’estemporaneità e alla singolarità delle giocate (comunque propiziate più che trovate per caso): 26 gol su 52, la metà esatta, sono arrivati dagli sviluppi di un calcio piazzato, su calcio di rigore o da autogol.

Fare i conti con il passato

Se c’è un giocatore che sembra ritagliato su misura per il gioco dei Königsblauen, quello è Leon Goretzka. Il nuovo ruolo di mezzala a tutto campo con compiti di inserimento aderisce perfettamente a un giocatore che in passato ha dimostrato più di qualche difficoltà a giocare da trequartista puro. La sua capacità di muoversi negli spazi in campo aperto è l’ideale per guidare le transizioni. Perciò deve sembrare del tutto illogico che il giocatore-modello della squadra sia già pronto, valigie in mano, per andare via in estate, al Bayern. A parametro zero. E come lui, farà lo stesso anche Max Meyer (non si conosce ancora la sua nuova destinazione), reinventato da Tedesco come mediano davanti alla difesa per l’infortunio di Bentaleb.

Perdere due pedine fondamentali proprio nell’anno del ritorno in Champions è un colpo difficile da assorbire per una formazione che, al contrario, avrebbe bisogno di rinforzi per affrontare una stagione più lunga e impegnativa. Ma più di tutto, sembra uno scenario già visto, il ripetersi di un errore che negli ultimi anni la dirigenza del club di Gelsenkirchen ha commesso più e più volte. Come tutte le società di fascia medio-alta, lo Schalke può galleggiare su certi standard – in termini di risultati, sul campo e fuori – solo attraverso una politica di player trading ben orchestrata: acquistare un giocatore per una certa cifra; valorizzarlo settimana dopo settimana; rivenderlo a prezzo più alto per trovare i fondi per nuovi investimenti; ricominciare il ciclo.

Lo fanno Lione, Siviglia, Monaco, Shakhtar, Porto, perfino i cugini del Borussia Dortmund, e il Liverpool e il Tottenham che hanno ben altre disponibilità economiche alla base. Lo Schalke, invece, ha sempre fatto cortocircuito in almeno un passaggio, fallendo nell’obiettivo di rimanere nelle zone più alte della classifica. In un articolo pubblicato un anno fa su These Football Times da Josh Sippie si possono distinguere due categorie di errori commessi dalla dirigenza. La prima riguarda le «cessioni premature del club», reo di cedere i propri talenti prima ancora di goderne appieno i frutti, come nel caso di Özil, Sané o Rakitic, esplosi definitivamente dopo la cessione. La seconda, ancora più grave perché più sanguinosa per un club come lo Schalke, è «la costante di perdere i propri giocatori a zero», e qui gli esempi si sprecano: Kolasinac e Huntelaar, Joel Matip e Choupo-Moting, ora Goreztka e Meyer. «C’è qualcosa di epidemico nel lasciar andare i propri giocatori a zero in questo modo e in queste quantità. Qualcosa che non capita agli altri club di un certo livello. Il gioco si è rotto definitivamente nel 2015 quando non sono stati rinnovati i contratti dei giovani più promettenti nonostante le entrate dovute alle cessioni di Draxler e Sané. È stato allora che il club ha iniziato a raccogliere meno di quanto seminato, rompendo quella formula che funziona tanto bene per le società con progetti simili».

L’addio di Goretzka e Meyer spinge a pensare che nulla sia cambiato alla Veltins-Arena, che sia semplicemente un altro capitolo di quel romanzo che vede il club costretto a valorizzare giocatori senza trarne un guadagno vero e proprio. Sembra che il secondo posto di quest’anno sia destinato a rimanere un traguardo tanto bello quanto effimero: un risultato che non permetterà di iniziare un ciclo di successo – anche se per successo si dovrebbe intendere stare quanto più è possibile nella scia del Bayern, o poco più. Questo, nonostante una rosa che invece avrebbe, probabilmente, potenzialità ancora inesplorate.

Possibilità di redenzione

Tuttavia, alcuni segnali di questa stagione possono far sperare che in realtà il prossimo capitolo sia diverso da quelli precedenti. I giovani che rimangono – McKennie, Kehrer, Embolo, Harit, Bentaleb – sono comunque parte dell’ossatura della squadra, e hanno contratti lunghi (tranne Kehrer che dovrebbe rinnovare), quindi tempo per crescere a Gelsenkirchen. Ecco ciò che di buono rimane alla squadra dopo anni di errori in serie in sede di pianificazione: i giovani, insieme, ovviamente, all’allenatore. Un tecnico di 32 anni, promettente e con idee che hanno funzionato per tutta la stagione, con un modello di gioco che non sarà accattivante, attraente, ma efficace e replicabile. E quella particolare capacità di lavorare con i giovani per valorizzarli. Ma anche di tirare fuori il meglio da tutto il gruppo, come nel caso di Naldo – che a 35 anni ha giocato una delle sue migliori stagioni, diventando il secondo miglior marcatore della squadra con 7 reti; di Daniel Caligiuri (9 assist in Bundesliga), la cui carriera sembrava finita su un binario morto dopo un paio di buone stagioni al Wolfsburg; e di Guido Burgstaller, attaccante 28enne pescato dalla Zweite Bundesliga (seconda divisione) per sostituire Huntelaar, e arrivato in doppia cifra con i gol.

Non a caso il portiere Ralf Fahrmann ha intravisto in Domenico Tedesco qualcosa che assomiglia «a un dono divino, una assurda capacità di convincerti a fare qualcosa nel momento stesso in cui te la spiega. Una cosa che non si impara, ma che si può soltanto avere». Un po’ di questo talento di cui parla Fahrmann, qualunque cosa sia, sarà sicuramente nel dna di Tedesco, nel suo carattere. Ma la fiducia del suo gruppo il tecnico di Rossano Calabro se l’è conquistata soprattutto con il lavoro sul campo, e con i risultati: oltre al secondo posto, ci sono anche due Revierderby senza sconfitte contro il Borussia Dortmund, con una vittoria – al ritorno, fondamentale nella corsa Champions –  e un pareggio storico – all’andata – partendo da uno svantaggio di quattro gol, costruito interamente nell’ultima mezz’ora.

Il derby di andata, i quattro gol rimontati