Come ricorderemo il Real Madrid di Zidane

Nonostante tre Champions League vinte in tre anni, c'è un ampio dibattito intorno all'effettiva grandezza di questa squadra.

Finisce la partita, Michael Cox twitta prima di ogni cosa: «Già penso a tutto il tempo che sprecherò nei prossimi vent’anni con roba del tipo: so che hanno vinto tre Champions di fila, ma non non erano COSÌ straordinari». Boom, il dado è tratto. Proliferano i commenti tra il «non hanno alcun tipo di identità, solo un mucchio di giocatori decisivi» e il «è folle che Zidane abbia vinto più Champions di Ferguson». Il dibattito è intenso, perché evoca un pensiero che più volte abbiamo letto, ascoltato, cioè che questo Real Madrid ha vinto, e festeggiato, oltre i suoi meriti. Facendoci chiedere: ma allora, tra vent’anni, come la ricorderemo? Come una tra le squadre più forti di sempre oppure ce la dimenticheremo in fretta?

Con il successo nella finale di Kiev, il Real Madrid è la quarta squadra ad aver vinto per tre volte di fila la Coppa Campioni, dopo i loro omologhi del 1956-1960, l’Ajax 1970-1972 e il Bayern 1974-76. È la prima a riuscirci nell’era Champions League – anzi, nessuno ce l’aveva fatta nemmeno per due volte consecutive – e Zidane è il primo allenatore ad alzare la coppa per tre anni di fila – raggiungendo i tecnici più medagliati, Ancelotti e Paisley, in testa alla classifica. Sono numeri che ci dicono come questo Real Madrid abbia stravolto leggi non scritte e percezioni del torneo continentale, buttando giù record che parevano monoliti. Ma tutto ciò non placa il dibattito di cui sopra, semmai lo aizza, lo alimenta.

Ci sono essenzialmente due ragionamenti a tenere banco. Il primo riguarda la gestione tecnica di Zinédine Zidane. Ha vinto più Champions di tecnici star come Guardiola, Mourinho e – come avevamo letto prima – Ferguson, riuscendoci in un lasso di tempo incredibilmente inferiore – si può dire che la sua carriera sia cominciata nel gennaio 2016, due anni e mezzo fa. In qualsiasi caso si sarebbe parlato di predestinato, di mago della panchina: con Zidane no, o almeno non abbastanza. Rory Smith, sul New York Times, lo spiegava nel modo più centrato possibile, in un pezzo dal titolo eloquente («Dove sono gli elogi?»): «Oggi gli allenatori sono visti come visionari, come filosofi: non basta più affinare le abilità e preservare le energie fisiche dei loro calciatori, ma guidarli in direzione di una grande idea. Zidane non asseconda i criteri che ci aspettiamo da un grande allenatore del Ventunesimo secolo».

Da qui si arriva a una convinzione, su cui si basa il secondo dei due ragionamenti: il Real Madrid non ha un credo tattico sviluppato, una sua identità, e perciò gioca male. Ed è in qualche modo fortunato, perché riesce ad approfittare delle falle che si aprono nel corso degli eventi: l’infortunio di Salah o gli errori di Karius nella finale di Kiev, per esempio, in una partita in cui il Madrid non ha sicuramente incantato – la serata sonnacchiosa di Ronaldo o il vagare senza costrutto di Isco sono due cartoline che immancabilmente restituiscono questa prospettiva. Ma era stato così anche nelle tre gare precedenti, che l’avevano promossa in finale: la doppia sfida contro il Bayern – «Potevamo vincere 7-2», disse Kimmich dopo la partita persa all’andata – e il match contro la Juventus al Bernabéu, dove solo il rigore di Ronaldo all’ultimo minuto ha salvato i merengues da una colossale figuraccia.

Per questo Real Madrid, presumibilmente, non ci sarà spazio per un posto tra le squadre che hanno cambiato il flusso del gioco, riscrivendone leggi e canoni – come l’Ajax di Michels, il Milan di Sacchi o il Barcellona di Guardiola. Ma, attenendoci a questa lettura, stiamo – volontariamente oppure no – scegliendo una determinata prospettiva, che non può che condizionare il nostro giudizio. Ma se scegliessimo un’altra angolazione?

In un calcio in cui la concentrazione di campioni ha di fatto allargato il gap tra big e squadre di medio-livello, con l’emergere di vere e proprie superpotenze, confermarsi anno dopo anno è qualcosa di estremamente difficile, se non impossibile. Il Real Madrid avrà pure giocatori di primissima fascia come Ronaldo, Modric o Bale, ma cosa dire del Barcellona, del Psg o del Manchester City? Perché a loro non è riuscito di ripetere quanto ottenuto dal Madrid, sebbene i presupposti ci fossero tutti? Carles Puyol, su Twitter, ha fatto i complimenti agli storici rivali, aggiungendo: «Quattro Champions in cinque anni, con uno dei migliori Barça della storia». Puyol, in qualche modo, sottintende il punto: non si tratta di essere più forti, o di giocare meglio. Si tratta semplicemente di vincere.

E in questo il Real Madrid ha indubbiamente spostato più in là i limiti. Particolarmente efficace è quanto ha scritto Quique Setién, allenatore del Betis. La sua squadra ha vinto all’andata, al Bernabéu, e ha perso 5-3 al ritorno, in una partita in cui si è vista l’essenza madridista: sotto di un gol, in un quarto d’ora il Real ha segnato tre volte chiudendo la pratica. «Questo è il problema», dice Setién, «il Madrid ha a disposizione 15 minuti e diventa la tempesta perfetta. Ci saranno sempre momenti, durante la partita, in cui perderai palla, è inevitabile. Contro alcune squadre le ripercussioni non sono così serie. Ma se la recupera Modric, e serve un passaggio delizioso, e poi Bale si butta dentro, con la velocità che ha, raggiungendo poi con un cross Ronaldo… sai che possono farti male, e questo è esattamente quello che è successo. Noi avevamo la partita sotto controllo, ma hai bisogno di molte occasioni per segnare: a loro ne bastano molte meno».

È questa la forza, sicuramente impareggiabile al momento, forse persino inedita, del Real Madrid: la capacità di riuscire a volgere a proprio favore qualsiasi partita, situazione, risultato. Qualche settimana fa, Toni Kroos diceva che «la Champions League ci dà poteri speciali. Riusciamo a rimanere calmi in circostanze complicate, perché sappiamo che possiamo battere chiunque. Anche se non stiamo vincendo, riusciamo a cambiare le partite. Siamo passati per le situazioni più disparate, perciò non ci facciamo prendere dall’ansia». È quanto non manca di sottolineare Jonathan Wilson, quando scrive che «la loro qualità migliore è che, semplicemente, vincono. A volte, anche inspiegabilmente».

Non è un caso che negli ultimi cinque anni ha vinto quattro Champions ma una sola Liga: quello del Real Madrid non è un dominio del gioco, ma dei momenti. Su trentotto partite, la gestione delle criticità si fa più difficoltosa, e perciò sfugge maggiormente al controllo; l’importante è non sbagliare sette partite, quelle che di fatto decidono le fortune in Champions. C’è un motivo se Buffon, dopo la sconfitta allo Stadium, aveva fatto intendere che, quando si incontra «il meglio», si finisce per giocare peggio, si sbagliano cose che di solito non si sbaglierebbero mai, si rischia di perdere più facilmente serenità e compattezza. E il fatto che tutto questo al Real non capiti mai, beh, fa capire la grandezza di questa squadra.