Il rituale del Mugello

Dentro il Gran Premio d'Italia di motociclismo: il tifo, i piloti, il paddock e la copertura televisiva di Sky.

Di fronte a due tir blu una massa di persone è in trepidante attesa. È l’unico punto all’interno del paddock del Mugello dove si è aggregata una folla: il resto è un girovagare incessante, di giornalisti, piloti, manager, meccanici e privilegiati ospiti muniti di pass. Il paddock è un mini-quartiere frenetico, i cui “edifici” sono i camion, i container o i truck delle varie comitive. Dei team, delle televisioni (le gare del Motomondiale sono tutte in diretta esclusiva su Sky Sport MotoGp), degli sponsor. Sono disposti su tre file sopra il grande spiazzo di asfalto bollente e mitigato dall’aria che vibra tra le colline di Scarperia, e separati in senso longitudinale da due “strade”. Ogni tanto, una postazione lasciata libera apre una via perpendicolare, formando quello che dall’alto dovrebbe risultare un reticolo. Il primo pensiero, osservando quel grumo di persone,  è che lo spazio lasciato libero davanti ai due tir blu griffati Yamaha non sia casuale: da lì, ogni tanto, Valentino Rossi esce in sella ad uno scooter per recarsi altrove. E la folla, quindi, lì si accatasta, in attesa dell’“apparizione” del Divino, e c’è bisogno di spazio per contenerla e per non ostacolare il flusso delle altre persone nel paddock. Valentino è l’unico pilota davvero atteso dalla gente come fosse una rockstar. Quel mucchio è un manifesto della sua importanza per il motociclismo e il motomondiale, ormai di gran lunga superiore alle sue vittorie: il pubblico di giallo vestito è trasversale, parte dai più anziani e arriva ai bambini, retti in spalla dai padri, ed è racchiuso tutto lì, in quel gruppo che come le acque mosse da Mosè si apre, lasciando spazio a Valentino per la breve fuga, non prima di aver concesso a tutti un saluto o un sorriso.

Il gran premio del Mugello è il principale evento motociclistico della stagione in Italia, eppure sembra si svolga in un posto lontano, quasi estraneo al paese. In effetti, il circuito è un luogo fatato, tenuto lontano dalle città (siamo a Scarperia e San Piero, in provincia di Firenze, lontana 35 chilometri). La pista è infatti quasi segreta e non si percepisce mai nella sua interezza, è una specie di mausoleo nel nulla, e come ogni mausoleo che si rispetti non è a portata di mano, anzi, impone fatica per raggiungerlo: si svolta obbligatoriamente ad un minuscolo incrocio del paese di Scarperia, dove cinque addetti cercano di governare, per quanto possibile, il flusso di migliaia di persone e mezzi. Non esiste una via d’accesso studiata ad hoc, proporzionata alla quantità di presenze previste, probabilmente perché infrangerebbe la prima parte essenziale del rituale: ovvero, il cammino verso il tempio, l’ascesa mistica al luogo sacro.

Lungo la stretta strada che arrampicandosi sulle colline conduce alla pista, le genti di giallo vestite camminano sfidando il calore del sole, ricordando una sacra processione. Alcuni optano per la bicicletta, i più vengono fermati dagli addetti alla sicurezza molto lontano dalla pista: possono passare in pochi, perché non c’è posto per posteggiare i mezzi, lassù, nonostante non ci siano agglomerati cementizi attorno alla pista. Lungo la strada, rimbalzando sulle colline, risuona una “musica”, il suono delle moto che sfrecciano in pista. Così in lontananza pare l’insistente ronzio di una mosca, ma con il megafono. Durante il tragitto è chiaro come la maggior parte delle persone siano esperti, visto che sono in grado di riconoscere il genere musicale: se è stridente si tratta delle Moto3; se è pieno, grattato e crepitante allora è la classe regina; se è una via di mezzo, un suono tondo ma anche piuttosto scorbutico, allora è la Moto2.

Dopo la salita, e attraversato lo snodo di una piccola rotonda, si procede lungo la discesa che fiancheggia la pista, chiusa su un lato da pannelli simili a quelli che chiudono i lati delle tangenziali adiacenti alle abitazioni. Qui, in realtà, lo scopo non è insonorizzare (perché lo scoppiettio delle moto è una sinfonia, non un fastidio, e di abitazioni non ce ne sono) ma oscurare la vista sulla pista. Le senti, le moto, ma non le vedi ancora, non le puoi vedere. Le devi sognare, immaginare, mentre faticosamente ti arrampichi al tempio. Te le devi guadagnare. E solo alla fine le potrai vedere. Ma mai in pienezza, sempre di sfuggita, come fossero oggetti sacri su cui è vietato indugiare.

L’ingresso principale, riservato al paddock, pare quello di un parco divertimenti: un’enorme tettoia ellittica griffata con il nome del circuito copre i cancelli, gestiti dagli addetti alla sicurezza, sorridenti e gentili, particolare per niente scontato vista la quantità di persone e mezzi da controllare. Dagli ingressi si accede alle varie tribune, ma i più stazionano sui prati in pendenza che circondano la pista: da un paio di giorni, sull’erba, attendono un evento sportivo che in ogni caso vedranno relativamente. Non è uno stadio di calcio o di tennis, o un palazzetto per la pallavolo o il basket, qui non è possibile avere una visuale su tutto il “campo”, il lusso massimo è guadagnare una prospettiva abbastanza ampia e elevata per osservare un paio di curve, ma poi il circuito si snoda in orizzontale su enormi distanze e le moto sfuggono per forza di cose fuori dalla visuale. È questo il paradosso del Gran Premio: quasi non si vede, ma si vive per mezza settimana, e per aggiornarsi sulle vicende sportive sono indispensabili gli smartphone, o tendere l’udito verso gli altoparlanti disseminati nel paddock, dai quali si propagano due voci. Sono gli speaker del circuito, ma ricordano quelle di due signori anziani esperti di motociclismo e di ritrovo al bar del paese per guardare il gran premio, che ammiccano ai giovani inserendo nel racconto termini tipo “sparaflash”, per sottolineare quando un pilota apre il gas. Un ragazzino, intento ad ascoltarli mentre passeggia nel paddock, sorride.

Il paddock è un cratere tra le colline, adiacente al rettilineo della partenza. È la cella del mausoleo, dove si custodiscono le reliquie più preziose. È riservato a “pochi” rispetto alla quantità di persone assiepata sui prati attorno, ma è il cuore pulsante della gara: qui si lavora per mettere in pista le moto nei migliori assetti, si confrontano i piloti e i team per rivedere le strategie, eppure non è un luogo blindato. Rispetto ad altri sport, dove è rigorosa la separazione tra gli attori dello spettacolo e chi quello spettacolo può viverlo da vicino o, per mestiere, lo racconta, qui è un tutt’uno, un’oasi in cui si lavora e allo stesso tempo si ozia e nella quale ognuno recita la sua parte nel rispetto di quella del prossimo, senza sovrapporsi.

I ruoli di scena sono infatti ben definiti, come se ci fosse un’abitudine di tutti a non varcare determinati confini: le cosiddette “ombrelline”, ad esempio, camminano con i tacchi sull’asfalto e si fermano per scambiare due parole o farsi fotografare a chiunque chieda loro la grazia, ma nessuno è maleducato, nemmeno il maschio più spavaldo. I piloti – o meglio, come anticipato, Valentino Rossi – sono attesi dai privilegiati del paddock ma non sono vittime di assalti e di conseguenza sono più disponibili al saluto e alle fotografie. I giornalisti a loro volta non sono costretti ad arrampicarsi sugli alberi di un centro sportivo per captare informazioni ma lavorano parallelamente ai team e ai piloti, sapendo che se hanno bisogno di una notizia possono chiederla direttamente a loro, e che nel caso loro risponderanno che è riservata. Tutto in assoluta trasparenza.

Il paradosso è che dal paddock la vista sulla pista è la peggiore. Non c’è modo di scorgere l’asfalto se non accedendo ai piani alti dell’edificio a ballatoio che al piano terra ospita i box riservati alla stampa e all’organizzazione. Nemmeno le televisioni possono vedere la pista, non hanno una postazione “privilegiata”, ma quello che può sembrare un handicap invece non lo è. «Il fatto che sia meglio avere la cabina di commento con vista sulla pista è un falso mito: anzi, vederla è una distrazione perché per chi, come noi, deve raccontare la gara conta ciò che vede lo spettatore in televisione», ci spiega Guido Meda, Vice Direttore di Sky Sport e Responsabile della Redazione Motori, dopo averci accolto nello studio truck di Sky Sport come fossimo amici da vent’anni. Ed è un particolare su cui vale la pena soffermarsi: la sua apertura spontanea verso l’ospite, nonostante la gara della MotoGp che lo vede in cronaca inizi tra appena un’ora, e in molti al suo posto sarebbero stati così presi dalla preparazione da non aver tempo tempo per nessuno, è il riflesso del clima trasparente e disteso promosso dal Motomondiale. Ci accoglie, poi, nonostante lo studio mobile abbia spazi ridotti, calibrati al millimetro: è come un camper, dove lo studio degli incastri è un sopraffino esercizio di spazio minimo, di quelli che si assegnano agli studenti del primo anno nelle facoltà di architettura. Dal minuscolo accesso si apre un “ufficio”, in cui è infilato un tavolo di fronte agli schermi su cui scorrono le riprese della pista, sul fondo due vetri trasparenti chiudono la cabina di commento, arredata con una scrivania, tre sedie e una manciata di monitor.

Guido Meda ci spinge in cabina, nonostante i colleghi Zoran Filicic e Mauro Sanchini siano nel bel mezzo della cronaca della gara della Moto3: non li disturbiamo, ci rassicura, anzi, fa piacere la visita. Entrando, ci sorridono mentre continuano nella cronaca della gara. E che cronaca: la loro passione dietro le quinte pare ancora più travolgente rispetto a quanto si percepisce di fronte alla tv. E smentisce lo stereotipo del telecronista annoiato che, comodamente seduto in poltrona, con l’inerzia dell’abitudine narra le vicende che compaiono sullo schermo davanti a lui. Macché. La telecronaca è dinamica, è una voce che si snoda in un vortice di adrenalina pura, e altrimenti non potrebbe essere, perché mentre raccontano la gara i telecronisti chiamano precise immagini alla regia dislocata nel tv compound e collegata allo studio via fibra per riproporre un determinato episodio – ad esempio, la lepre che ha appena attraversato la pista; o ricercano tempi e dati per supportare il racconto; o ancora elaborano lo “Sky Sport Tech” tracciando, mentre parlano di altro, le linee grafiche su uno dei monitor per spiegare una particolare manovra di un pilota. È la traslazione nel genere umano del concetto tecnologico di “multitasking”.

L’adrenalina sorregge uno studio televisivo sul posto come quello di Sky Sport. È come se fosse una barca da domare in mezzo al mare grosso: non è concessa distrazione, qui, in questi giorni, c’è il Gran Premio d’Italia da raccontare. Sono circa 15 le persone che producono tutto ciò che lo spettatore vede seduto sul divano: la scaletta per lo studio condotto da Vera Spadini, predisposto al piano superiore del truck; i servizi sviluppati sul posto (come il giro di pista che restituisce una lettura tecnica della stessa eseguito da Meda e Sanchini) ed elaborati sempre nella sala editing, ovvero una cabina un metro per due, in cui vengono confezionati dal tecnico, sotto la supervisione del direttore, a ritmi siderali i contenuti; e qualsiasi informazione utile alle trasmissioni. Nulla è lasciato al caso, la squadra lavora senza tregua, ma con il sorriso stampato in volto. Il clima nella squadra di Sky Sport, di nuovo, è il riflesso di quello che avvolge l’evento e il paddock: c’è gioia, c’è passione, c’è il piacere di raccontare lo sport, e sono sentimenti che insieme annullano la stanchezza della truppa.

Non c’è pausa nemmeno al calare del sole, quando il circuito si anima per celebrare il rito dell’aperitivo: nel paddock aprono i battenti i truck delle hospitality mentre dalle tende piazzate sulle colline circostanti si alza il profumo di salamelle alla griglia. Che la gara sia tra tre giorni, l’indomani o terminata, non importa: il rituale del Mugello è comunque in pieno svolgimento. Ruota attorno a quest’unico evento annuale, in un luogo altrimenti abbandonato, ma in qualche modo prescinde da esso, e in fondo è proprio questo il punto: oltre centomila persone ogni anno si recano qui, nonostante la fatica per arrivarci, nonostante lo spettacolo costi parecchi soldi ma sia impossibile da vedere nella sua pienezza, nonostante l’idolo di casa Valentino Rossi non vinca da dieci anni, perché il Gran Premio al Mugello è un rituale, e come tale va onorato, a prescindere.