Perché in Europa vincono sempre le squadre spagnole

Diciotto trofei su diciannove disponibili negli ultimi cinque anni, un dominio incontenibile.

Negli ultimi cinque anni nove delle ultime dieci coppe europee sono state vinte da club spagnoli; allargando l’orizzonte anche alla Supercoppa Europea e al Mondiale per club, il conto rimane identico su una scala raddoppiata. Visto che nella prossima Supercoppa si affronteranno Atlético e Real Madrid, diciotto su diciannove trofei internazionali a cui partecipano club europei sono finiti in Spagna. L’unica eccezione è rappresentata dal Manchester United vittorioso nell’Europa League 2016/17. Oltre ai titoli, conquistati dai quattro club di punta (quattro Champions il Real Madrid, 3 Europa League il Siviglia, una Champions il Barcellona e una Europa League l’Atlético), la profondità di questa “tradizione” è data dalla presenza delle squadre spagnole nella fase finale delle competizioni europee: nove delle ultime venti semifinaliste della Champions sono state spagnole, più del doppio delle presenze tedesche (4 del solo Bayern), il triplo rispetto alle rappresentanti della serie A e della Premier (la Ligue 1 si ferma al Monaco). Lo stesso trend è riscontrabile in Europa League, dove sette delle ultime venti semifinaliste sono spagnole (al Siviglia e all’Atlético si aggiungono il Celta Vigo, il Villarreal e il Valencia), più del doppio rispetto alle tre rappresentanti inglesi e italiane, con il resto delle leghe che raggiunge al massimo quota uno.

La prima causa è riconducibile al gioco praticato nella Liga, o meglio, alla molteplicità dei tipi di gioco, legate da un unico filo conduttore: la tecnica. Secondo Manuel Pellegrini, ex allenatore del Real Madrid e ora tecnico del West Ham, il calcio spagnolo è «molto tecnico» e per questo è «il migliore». Per le squadre spagnole più che per chiunque altro, la tecnica è la base della piramide del gioco, la qualità primaria da allenare meglio, e il prima possibile, nelle cantere. Le quali non a caso sfornano costantemente calciatori di livello assoluto, talmente abili tecnicamente da essere adatti o più facilmente adattabili a qualsiasi contesto. In una parola, “universali”.

Così in Spagna le innovazioni tattiche, pur storiche, sono paradossalmente rimaste in secondo piano rispetto alla tecnica. Ad esempio, il calcio di Guardiola nel Barcellona, tatticamente rivoluzionario, dipendeva da un’elevata qualità nelle giocate, perché ognuna era parte integrante del flusso di gioco che, per essere efficace, aveva bisogno di continuità, e quindi di diminuire il più possibile gli errori. L’altro lato della stessa medaglia è stato il Real Madrid di Zidane tricampione d’Europa, che ha estremizzato il rapporto opposto: non prevedeva l’esaltazione della tattica attraverso la tecnica ma il contrario, l’assenza di strutture tattiche vincolanti era un sottofondo basilare su cui i giocatori avevano la possibilità – anzi, il dovere – di esprimere ed esaltare le loro qualità tecniche e balistiche.

La Spagna, essendo stata la culla dell’ultima rivoluzione filosofica del gioco, appunto quella del primo Barcellona di Guardiola, è quindi anche il luogo in cui sono nate le reazioni con più spontaneità e radici più profonde, perché i club, quel Barça, erano costretti ad affrontarlo in campionato. Così, l’Atlético Madrid ha colto la palla al balzo e ha fatto suo il principio fondante del modello-Barcellona, piegandolo verso un’opposta declinazione. Ha cercato in Diego Simeone (arrivato a dicembre 2011) una figura di riferimento in panchina che avesse un’idea di gioco abbastanza profonda e netta da diventare una filosofia (il Cholismo). Ecco la reazione dell’Atlético: elaborare un calcio antitetico a quello del Barcellona di Pep, fondando su di esso l’estetica e al tempo stesso la filosofia del club, uniche nel suo genere. Non un calcio nobile, ma di sopravvivenza, dove l’arte non è l’attacco ma la difesa, dove non si controlla ciò che appartiene ad un solo giocatore in campo (il pallone) ma ciò che invece è proprietà di tutti (lo spazio), per il quale è indispensabile l’aiuto del pubblico.

L’altra migliore risposta è stata quella del Siviglia, che ha incentrato il modello sulla promessa di crescita ai giocatori durante l’anno, grazie il sistema di gioco di Emery, una semina veloce, quindi adatto alle competizioni corte come quelle europee. E ancora: il Valencia e il Villarreal stanno sviluppando un modello basato su un calcio iperorganizzato (in entrambi i casi, frutto del lavoro di Marcelino, ora al Valencia e prima al Villarreal); Betis e Celta Vigo sulla promozione del talento sul modello-Siviglia; Real Sociedad, Athletic o Eibar sul concetto di identità.

In sostanza, come ha scritto Alfonso Fasano su Undici, la Liga è diventata «un luogo perfetto per sviluppare un’idea di gestione sportiva, per cercare, creare e crearsi un modello, per crescere secondo concetti di base differenti. Tanti modi per provare a diventare grandi, confrontandosi con i grandi». Un cocktail di stili diversi, ma tutti approfonditi e sedimentati, in ogni zona della classifica. È un’eterogeneità che non esiste negli altri principali campionati, o almeno, non è così estesa: in Bundesliga, nel solco delle idee dei “laptop trainer”, la maggior parte delle squadre persegue un modello di gioco basato sulla velocità e i ritmi alti; in Premier non esiste un modello, ma il filo conduttore rimane l’intensità del gioco e la fisicità che rendono vago ogni sistema; in Serie A la tattica rimane al primo piano, e spesso va a discapito delle altre sfere del gioco. L’eterogeneità in una competizione migliora chiunque vi partecipi, perché all’aumentare delle variabili, cresce anche l’abitudine nell’affrontarle, il che rende le squadre spagnole le più complete, le più preparate ad affrontare qualsiasi tipo di avversario in Europa.

Un’altra causa dell’egemonia spagnola in Europa è la rivalità tra Real Madrid e Barcellona, che alza la competitività sia a corto raggio, tra i due club, che a lungo raggio, nelle altre società spagnole. Nel primo caso, il contatto è diretto e basato sull’orgoglio dei due club: le vicende dell’una condizionano le scelte dell’altra, in una costante proiezione verso i trofei, che non ha simili per intensità negli altri campionati e non coinvolge così profondamente i giocatori. Lo scorso agosto, ad esempio, dopo aver perso la Supercoppa spagnola con il Real Madrid, Piqué avvisò il club blaugrana di «sentirsi per la prima volta in nove anni inferiore» e lo invitò a «fare dei cambiamenti, per rimediare», di fatto avviando la reazione della dirigenza alla cessione forzata di Neymar e quella della squadra alla vittoria della Liga, che a sua volta ha spinto il Real a scommettere tutto sulla Champions.

Il livello obbligatoriamente massimo dei due club – alimentato dall’interno dalla rivalità Ronaldo-Messi, che bramano Palloni d’oro ma per vincerli hanno bisogno dei trionfi di squadra – regala poi ad entrambi la possibilità di affrontare almeno due partite l’anno di massimo livello: i due Clásicos. E non solo a loro: ogni club della Liga è obbligato a quattro partite di massimo livello, contro le migliori squadre al mondo, e dunque difficilmente è contratto quando deve affrontare grandi sfide in Europa. E arrivando in fondo alle competizioni continentali con più costanza si accresce il bagaglio di esperienza che permetterà di affrontarne altre, e la capacità di gestire la doppia competizione. Non è scontato: si pensi ad esempio al Bayern, che non ha avversari all’altezza in campionato (lo Schalke, secondo, ha concluso distante 21 punti) e dunque non può concedersi il lusso di una prova generale per le battute finali della Champions, dove non a caso è sempre presente, ma puntualmente viene sconfitta (quattro semifinali negli ultimi cinque anni, ma nemmeno una finale), o al Psg, in Francia. Meno prove generali si fanno, più si arriva incerti allo spettacolo, che nel caso delle fasi finali delle coppe europee difficilmente concede seconde opportunità.

Un’altra causa del monopolio spagnolo in Europa è, paradossalmente, la disparità economica tra il mostro a due teste Real-Barça e le altre società. Due dei tre club più ricchi al mondo giocano nella Liga: Real Madrid e Barcellona condividono il podio dei fatturati con il Manchester United, e rimangono irraggiungibili per qualsiasi altro club spagnolo: basti pensare che l’Atlético Madrid, terzo per fatturato nella Liga, occupa il tredicesimo posto dell’ultima classifica stilata da Deloitte Football Money League. Osservando il resto della classifica, verrebbe automatico pensare che la lega più competitiva in Europa sia la Premier, visto che la top 10 è occupata, per metà, da squadre inglesi (United, City, Arsenal, Chelsea, Liverpool), così come nella top 20 dieci club sono d’Oltremanica. Eppure, in Europa vincono le spagnole. Per paradosso è la potenza economica della Premier ad andare a discapito delle squadre inglesi: come scrive Sid Lowe su Espn, «il denaro impigrisce i club, li invita a pensare “perché dobbiamo lavorare o produrre, quando possiamo comprare?”, mentre quando non hai soldi sei costretto a cercare nuove soluzioni, più fantasiose e sostenibili, che sommate costituiscono la filosofia del club».

Perciò squadre come Atlético e Siviglia hanno dato slancio alla loro crescita aggirandolo tramite strade alternative, ovvero le competizioni europee, e in particolare l’Europa League, nel frattempo snobbata dai club di parigrado degli altri campionati. Hanno così trovato terreno fertile, per seminare e raccogliere immediatamente i frutti. L’Atlético avviò il ciclo-Simeone trionfando nella competizione nella stagione 2011/12, sei mesi dopo l’arrivo del Cholo sulla panchina: fu un trampolino esterno al campionato spagnolo, che i colchoneros hanno sfruttato per il salto di qualità in Europa (da quel momento: due finali di Champions, una semifinale e la nuova vittoria in Europa League) ma per tuffarsi ai massimi livelli anche in Spagna, raggiungendo l’apice con la vittoria della Liga 2013/14 (l’unico successo extra-Real-Barca degli ultimi 14 anni). La stessa strada è stata percorsa dal Siviglia: il trittico di vittorie dell’Europa League tra il 2014 e il 2016, con Emery in panchina, non ha solo fortificato l’immagine del club in Europa ma anche certificato la bontà del sistema di gestione del club da parte del direttore sportivo Monchi, basato sulla compra-vendita sul mercato.

Non è un caso che, considerando le entrate e le uscite sul mercato delle ultime cinque stagioni, quelle in cui nove titoli europei su dieci sono finiti in Spagna, la Liga abbia un impatto economico solo lievemente negativo (-24 milioni di euro), mentre tutte le altre principali leghe continentali abbiano un passivo più corposo, dai -97 milioni della Ligue 1 all’impressionante -3,4 miliardi della Premier. Ciò smentisce l’idea che le spagnole vincano esclusivamente grazie ai soldi, sottolinea come la loro colonizzazione sia economicamente virtuosa e spiega la sua genesi: gli investimenti su ciò che non si può comprare sul mercato, ovvero l’ingegno e la competenza delle persone e, di conseguenza, la loro capacità di pensare e produrre calcio. Un calcio vincente.