Le paure della Germania

Non è più la Mannschaft di una volta?

La narrazione della Germania favorita d’obbligo del Mondiale 2018 avrebbe potuto poggiarsi anche solo sulla storicità di una semifinale come risultato minimo raggiunto costantemente dal 2002 (considerando anche gli Europei, per sei volte nelle ultime sei i tedeschi si sono attestati tra le prime quattro nei maggiori tornei internazionali) e sui dati relativi al girone di qualificazione, non necessariamente l’ultimo in ordine temporale: dieci vittorie in altrettante partite (terza volta a punteggio pieno nelle qualificazioni: nessun’altra Nazionale europea è riuscita nell’impresa più di una volta), 43 gol fatti (e appena quattro subiti, per una differenza reti complessiva di +39: nuovo record assoluto), portando a 16 il numero di successi consecutivi nelle gare valevoli per l’accesso alla Coppa del Mondo (eguagliando quanto fatto tra il 1969 e il 1985 dalla Germania Ovest) e non perdendo praticamente mai fuori casa (l’ultima sconfitta, infatti, è interna e risalente al 2001: 5-1 dell’Inghilterra a Monaco di Baviera con tripletta di Michael Owen. In trasferta, inoltre, siamo ad una striscia aperta di 13 vittorie di fila). Ad oggi, il bilancio della Nationalmannschaft nelle 91 partite sulla strada della massima competizione della Fifa (cui ha sempre partecipato ad eccezione delle edizioni del 1930 – rinuncia – e del 1950 – squalifica per aver causato lo scoppio della Seconda guerra mondiale) dice 72 vittorie, 17 pareggi e appena due ko. Per dirla alla Joachim Löw (secondo commissario tecnico più longevo in attività dopo Óscar Tabárez), «abbiamo continuità e una grande forza offensiva. È per questo che negli ultimi anni siamo arrivati al top. Non importa con chi giochiamo, facciamo comunque risultato. Questo è quello che conta per noi oltre al fatto di mantenere alta la concentrazione».

Eppure la sconfitta nella gara d’esordio contro il Messico (non accadeva da Spagna ’82, interrompendo una striscia di sette vittorie consecutive nelle gare d’apertura, con ben 20 reti segnate solo nelle ultime quattro), oltre a ribaltare completamente aspettative e percezioni legate a continuità dei risultati e qualità delle prestazioni, ha mostrato una dimensione di “gigante dai piedi d’argilla” del tutto inusuale, ben al di là del risultato finale: ad impressionare, infatti, è stata l’incapacità di riprodurre la propria idea di calcio contro un avversario non certo trascendentale, tanto in valore assoluto quanto nell’interpretazione dei 90’. Non che i campanelli d’allarme fossero mancati: le amichevoli che, tra novembre 2017 e maggio 2018, hanno visto la Germania affrontare Inghilterra, Francia, Spagna, Brasile e Austria (cinque partite consecutive senza vittorie: non si verificava dal 1987/88), acquistano a questo punto un peso specifico rilevante e che forse lo stesso Löw ha sottovalutato, limitandosi ad inquadrarle come test che «mostrano di cosa c’è bisogno per guadagnarsi almeno l’accesso in finale».

Quella della Germania è la terza volta consecutiva in cui i campioni uscenti non riescono a vincere la gara di apertura del Mondiale successivo: era già capitato all’Italia nel 2010 (1-1 con il Paraguay) e alla Spagna nel 2014 (1-5 contro l’Olanda)

Nel pomeriggio del Lužniki, i campioni del mondo in carica hanno mostrato due facce della stessa medaglia, venendo prima sovrastati atleticamente nei 45’ iniziali e poi costretti a fare i conti con la densità creata dai messicani negli ultimi trenta metri, rischiando non poco sulla gestione delle transizioni degli avversari. In entrambe le circostanze molto è dipeso da una cerniera di centrocampo incapace di agire adeguatamente nella doppia fase: e se da una parte Kroos è stato fin troppo scolastico nella gestione e nel consolidamento del possesso (93% di pass accuracy su 85 tocchi effettuati, ma appena un passaggio chiave), dall’altra Khedira non è riuscito a garantire quella dimensione verticale che ci si sarebbe aspettata da lui (anzi molto spesso ha finito con il giocare sul corto piuttosto che sul lungo, favorendo le scalate in orizzontale in recupero dei centrocampisti messicani), oltre ad essere totalmente dominato da Hector Herrera.

Una circostanza che assume ulteriormente i contorni del paradosso, se si considera che Löw aveva dimostrato di tenerla ampiamente in conto: in occasione dell’ultima Confederations Cup, infatti, il ct aveva proposto il sistema con la difesa a tre sia per agevolare la costruzione della manovra dal basso che per ovviare alla staticità che ha poi finito con il condannarlo, sfruttando l’ampiezza del campo grazie a due esterni moderni e multidimensionali come Kimmich e Hector, con Rudy a fungere da equilibratore e Draxler e Goretzka ad agire in maniera dinamica negli half spaces del centro-sinistra della trequarti offensiva. Una soluzione che non è stata esplorata con i centro-americani per motivi apparentemente inspiegabili, soprattutto guardando alla grande difficoltà nel pressing e nel recupero alto del pallone, mentre dall’altra parte Carlos Vela ha fatto sostanzialmente quello che ha voluto nell’ora di gioco in cui è stato campo (35 tocchi, 82% di precisione nei 22 passaggi – di cui tre chiave – effettuati).

Altro problema è stato il rendimento dei due esterni difensivi, vera e propria cartina di tornasole dell’efficacia dell’intero sistema: in assenza di Hector (la cui interpretazione della doppia fase – evitando di farsi schiacciare nel momento in cui affronta avversari in grado di creare sistematicamente la superiorità numerica, garantendo contestualmente un appoggio costante sulla sinistra in situazione dinamica – è stata fin troppo sottovalutata), Plattenhardt è rimasto troppo basso, non riuscendo quasi mai a sfruttare le combinazioni della catena su quello che si è rivelato poi essere il lato debole del Messico e costringendo a un sovraccarico eccessivo e prevedibile sul lato opposto. Non a caso la rete messicana è arrivata sull’ennesima giocata effettuata dopo il recupero palla sul centro destra avversario, approfittando di un Kimmich in costante proiezione offensiva e senza adeguata copertura alle spalle.

Sia le heatmaps che i report relativi alla posizione media dei giocatori in campo mostrano le criticità che sono costate la sconfitta alla Germania (a sinistra) contro il Messico (a destra): ad un’occupazione della zona centrale del campo solo apparentemente più omogenea, ha fatto da contraltare l’aver concentrato la produzione di gioco quasi esclusivamente sul centro destra (51% del totale) ha consentito ai messicani di ostruire agevolmente le linee di passaggio e costruire le proprie transizioni alle spalle di un Kimmich troppo alto in considerazione delle difficoltà fisiche di Khedira, suo interno di riferimento

Offensivamente poi, al netto della prevedibile polemica sulla mancata convocazione di Sané (comunque perfettamente aderente alle idee di Löw e alla maggiore adattabilità di Brandt al 3-5-2, oltre che potenziali criticità nel dover agire in una zona molto più centrale rispetto a quella abitualmente occupata nel City, con tutti i suoi limiti individuali – mancanza di un buon pre-orientamento del corpo in fase di controllo, difficoltà nel creare la superiorità numerica partendo da fermo, capacità decisionali da affinare), il 4-2-3-1 pensato per sfruttare al meglio le caratteristiche degli esterni offensivi non ha funzionato tanto nell’iniziale approccio proattivo (con Draxler, Özil e Müller liberi di svariare alle spalle di un Timo Werner lasciato troppo solo fin dalle prime battute), quanto in quello teso alla creazione dello spazio alle spalle della linea difensiva avversaria, da attaccare attraverso le abilità nell’ uno contro uno di Draxler prima e Reus poi o l’associatività di Mario Gomez (probabilmente inserito troppo tardi) in fase di risalita del campo. Tutte circostanze che si sono tradotte in una sterilità offensiva a un certo punto persino prevedibile.

Contro il Messico la Germania (da destra verso sinistra nel riquadro) ha concluso 26 volte – il doppio rispetto agli avversari – verso la porta di Ochoa: appena il 4% di queste è avvenuto all’interno dell’area piccola e oltre la metà tra i 16 e i 25 metri, spesso forzando la soluzione a difesa schierata. Il tutto si è tradotto in un valore di xG di 1.23, comunque superiore all’1.17 dei messicani che si sono però giovati di un conversion rate migliore

Detto di una gara da circostanziare anche in relazione all’eccellente stato di forma dimostrato dagli uomini di Osorio, come ha scritto James Dudko su Bleacher Report «la prima sconfitta in una gara d’apertura dopo 36 anni non può e non deve essere motivo di panico per i campioni in carica. La Germania sa perfettamente che tra i propri ranghi può annoverare giocatori di livello assoluto, come si è potuto notare scorrendo l’elenco di chi non è partito titolare a Mosca: Marco Reus e Julian Brandt sono entrati a gara in corso, mentre Gündogan e Leon Goretzka non sono stati utilizzati, così come un altro centrocampista di grande valore come Sebastian Rudy. Löw ha troppo talento per non riuscire a qualificarsi: e se gli schiaffi a volte sono necessari per svegliarsi, una sconfitta non può costringere a rivedere tutto ciò che di buono ha fatto questa squadra». L’insistenza sulla profondità della rosa non è casuale: la gestione delle competizione intermedie post 2014 ha dimostrato la predilezione del commissario tecnico metodologie di lavoro a lungo termine, in una progettualità quadriennale impostata sul mantenimento di un sistema che funziona a prescindere dagli interpreti e del proprio status quo sullo scacchiere internazionale.

Dalla vittoriosa spedizione in Brasile alla lista dei 27 preconvocati che si sono giocati i posti sull’aereo per la Russia, quasi due terzi della rosa sono stati completamente rivoluzionati, tanto per ragioni anagrafiche (Lahm, Podolski, Mertesacker, Klose, Schweinsteiger) quanto per questioni meramente fisiche (Höwedes e Can) e tecniche (Götze – rispetto al quale Löw ha dichiarato di aver sbagliato approccio in occasione del cambio decisivo della finale del Maracanà – e Sané), senza però perdere nulla in termini di competitività.  Inoltre potendo lavorare, dopo Euro 2016, su un nucleo di 35 giocatori dall’età media di poco inferiore ai 26 anni, Löw è riuscito ad iniettare nuova linfa in un gruppo sapientemente (ri)costruito sui nove superstiti di Rio (Neuer, Hummels, Ginter, Khedira, Özil, Müller, Draxler, Kroos e Boateng) e subito abituato alle sfide di alto livello, dando ragione a Conor Dowley quando, in occasione della Confederations Cup, scrisse su su SBNation.com che «la Germania ha lasciato a casa i principali giocatori della squadra presentando quella che potrebbe essere definita una “selezione B” e con alcuni addetti ai lavori che non sanno come interpretare questa cosa. Si tratta, però, di una mossa geniale: in sostanza i tedeschi stanno dicendo che non si preoccupano dei risultati di un torneo dall’importanza relativa perché preferiscono osservare come si comportano i propri giovani al cospetto di alcuni tra i migliori talenti del mondo». Il risultato è che ben 14 elementi inseriti nella lista definitiva dei 23 arrivano dalla rosa che ha disputato il torneo del 2017.

Kimmich, Goretzka, Werner, Sule: la punta dell’iceberg delle Neue Welle del calcio tedesco

Non è tuttavia solo una questione di ampie possibilità di scelta o di una nuova rappresentazione del calcio tedesco, basata su quel concetto di Raumdauter che secondo Alfonso Fasano «ha dato inizio a una storia, ha rappresentato il prototipo di una professionalità tecnico-tattica che oggi appartiene a elementi di grande raffinatezza, in grado di ripulire il pallone, di aumentare la qualità della manovra come di essere creativi – se non determinanti – nelle porzioni di campo in cui si costruisce il gioco offensivo»: si tratta di aver dato forma e concretezza alla sintesi tra tradizione e innovazione, costruendo un modello replicabile ma a suo modo unico e che, talvolta, può e deve prescindere dall’incidentalità del risultato finale di una partita, di un girone, di una manifestazione. Di qui quella rinnovata sensazione di “tutto cambia perché niente cambi”, di quel “la Germania è sempre la Germania” che si traduce nell’immutabilità della percezione di una forza superiore rispetto alla concorrenza nonostante tutto, quel rispetto dei valori fondanti la storia della Mannschaft rivisti attraverso i canoni di un calcio moderno, certamente diverso, ugualmente efficace, ma non certo immune da battute d’arresto. Magari non è il momento in cui chiedere a questo gruppo, quasi del tutto nuovo, di vincere subito. O magari avrà di nuovo ragione Gary Lineker: «Il calcio è un gioco semplcie: 22 uomini rincorrono il pallone per 90 minuti e alla fine vince sempre la Germania». Pur perdendo la partita inaugurale di un Mondiale dopo 36 anni.