La fine?

I motivi del clamoroso flop dell'Argentina, a un passo dall'eliminazione.

L’esasperazione da fallimento imminente, consumata assieme alle suole delle scarpe nei continui andirivieni a bordo campo. Jorge Sampaoli. Lo sconforto da passato che torna a essere presente, che minaccia ripercussioni amare – ancora una volta – sul curriculum più brillante. Lionel Messi. E poi la carenza di idee e di identità, l’inadeguatezza di alcuni e il senso di non-responsabilità di altri. L’Argentina caduta contro la Croazia racchiude in sé una quantità spietata di errori su tutti i livelli. Di quelli primari aveva parlato con lungimiranza Alfonso Fasano. Il 3-0 rimediato al Nižnij Novgorod, seconda peggior sconfitta a un Mondiale per la Selección, ci porta invece a stringere la lente sull’attualità. L’Albiceleste rischia seriamente di non superare il primo turno sedici anni dopo l’ultima volta, esito che date le premesse sarebbe sì catastrofico, ma tutt’altro che inspiegabile.

La confusione di Sampaoli

A onor del vero, per quanto iperattivo sia stato ieri sera Sampaoli, va detto che i chilometri lungo la fascia sono da sempre un suo classico marchio di fabbrica. In un’intervista pubblicata sul numero 14 di Undici, disse alcune cose che è interessante recuperare oggi. Ad esempio: «Prima della tattica c’è la psicologia: si deve convincere il gruppo di un’idea comune […] e in seguito tradurla tatticamente». Un principio condivisibile, sano, ma che Sampaoli non è riuscito ad infondere nella sua squadra come aveva fatto con il Cile prima e a Siviglia poi. La sconfitta subita per mano della Croazia, oltre a pesare in immagine e classifica, ha messo in luce le ombre di un ct che ha fallito nel raccogliere i consensi dei giocatori nei confronti della sua idea. «Ho sempre cercato di sviluppare un gioco di personalità», disse nella stessa intervista di cui sopra. Ci ha provato anche questa volta, ma da profeta nel deserto. Un dato lo evidenzia: contro la Croazia l’Argentina ha registrato zero combinazioni passaggio-tiro, record che prima di ieri sera apparteneva al solo Iran nella gara contro la Spagna.

Il clamoroso errore di Caballero che ha portato al vantaggio di Rebic

Le crepe, in ogni caso, erano evidenti già a margine dell’1-1 all’esordio contro l’Islanda, tanto che da fuori Maradona aveva suonato il campanello d’allarme: «Giocando così rischiamo di perdere le prossime due gare, siamo in guai seri», commentò nel post. Inevitabile trarre dalle parole del Pibe una critica velata all’operato del ct, che aveva mandato in campo una formazione con poche idee e tanta confusione. Ma la sensazione diffusa è che al di là delle scelte discutibili (come gli zero minuti a Dybala e Lo Celso alla prima), la responsabilità maggiore da attribuire a Sampaoli sia quella di non aver non solo mantenuto, ma neppure afferrato l’attenzione della sua Argentina. In questo senso ha delegato a Messi («Questa squadra è più sua che mia») anche l’esercizio della propria dose di leadership, sovraccaricandolo ulteriormente di pressione. O ancora: nessuna delle sue sostituzioni – forse soltanto l’ingresso di Pavón contro l’Islanda (?) – si è rivelata utile a mutare il corso della partita. L’Argentina ha mantenuto un valore medio di possesso palla pari al 67 per cento, ha tirato verso la porta 37 volte, è stata più precisa degli avversari; eppure non ha mai lasciato percepire la propria superiorità. Anzi: è apparsa più spesso in balia di se stessa, aggrappata allo strappo del singolo, che poi è sempre (quasi) stato Messi. Per due volte Sampaoli non ha avuto lucidità a sufficienza per mettere insieme un undici funzionale: non ha saputo scegliere e ha finito per confondere le idee un po’ a tutti, senza accontentare nessuno. Forse farne il capro espiatorio sarebbe eccessivo, ma che abbia recitato una parte centralissima nel tracollo dell’Albiceleste è innegabile.

Le difficoltà del collettivo

Analizzare le problematiche di natura tattica emerse contro Islanda e Croazia significa, in un certo senso, accrescere la pila delle colpe di Sampaoli. Da una prospettiva meno spietata serve invece a chiarire in che senso la sua Argentina non è mai sembrata un collettivo degno di questo nome. Per la gara d’esordio lo schieramento sulla carta era piuttosto chiaro: Salvio e Tagliafico, in partenza terzini, avrebbero avuto spazio per salire e così è stato; di conseguenza Di María e Meza sono scalati in avanti all’altezza di Messi e Agüero, dando luogo ad un 2-4-4 de facto. Quindi il problema: l’Islanda, che notoriamente difende con un baricentro molto basso per far leva sulle proprie qualità fisiche, ha concesso libertà minime agli argentini. Che dal canto loro non hanno certo brillato quando si trattava di insinuarsi tra le maglie avversarie, anzi. Dei 27 tiri scoccati verso la porta difesa da Halldorsson 10 sono stati respinti, altri 10 non hanno raggiunto lo specchio, e solo in due occasioni l’Argentina è stata realmente pericolosa. Gli islandesi non si sono fatti problemi a concedere a Mascherano e alla staffetta Biglia-Banega il controllo del pallone (assurdo il 130 alla voce passaggi effettuati dal Jefecito), accontentandosi di intasare gli spazi. Da qui il messicentrismo, ossia la dipendenza dall’idea dell’unico giocatore cerebrale in campo: i 27 uno-contro-uno e gli 11 tiri tentati restituiscono a riguardo un immagine molto nitida.

Contro la Croazia i deficit della struttura di Sampaoli sono emersi con esiti ancor più rovinosi. Dall’undici reduce dal flop con l’Islanda sono usciti Rojo, Biglia e Di María; al loro posto Mercado, Enzo Pérez e Acuña, con uno schieramento rivoluzionato: difesa a tre a trazione anteriore (Otamendi al centro con a fianco Tagliafico e appunto Mercado), centrocampo al risparmio sul tasso qualitativo (fuori anche Di María, oltre a Lo Celso e Banega) e tridente tale e quale a quello che aveva sbattuto contro gli islandesi (Meza sì, Dybala-Higuaín no). In una gara fisica e a tratti anche scorretta è emersa la compattezza dei croati, che hanno tenuto meno il pallone ma hanno controllato meglio gli spazi e si sono mostrati più concreti quando si sono trovati a gestirlo. L’Argentina faticava a trovare gli attaccanti tra le linee, tanto che Messi – deluso, svogliato, sconfitto dentro – si è esibito a più riprese in un’attività che detesta, ma che funge (o meglio: dovrebbe) da segnale: scendere anche al di sotto della metà campo per prendere il pallone e condurre la transizione che né Mascherano né Pérez erano in grado di impostare. Dopo aver preso lo 0-1 Sampaoli ha impiegato due minuti per fare altrettante sostituzioni, ma né Pavón né Higuaín, fuori contesto perché un vero contesto non c’è, sono riusciti a rendersi produttivi. Gli argentini non si parlano, e quando lo fanno non si capiscono. Da questa incomprensione, su cui Sampaoli non è stato in grado di intervenire, è nato un senso di non-responsabilità che ha reso l’Albiceleste questo macchinoso, traballante insieme di individualità.

Messi non può vincere da solo

Se, come ormai sembra, la sua Argentina dovesse fermarsi al primo turno, per Messi si scriverebbe senza alcun dubbio la pagina più nera della carriera. È banale ricalcare il fatto che a non troppi chilometri di distanza Cristiano stia facendo quello che lui stavolta non è riuscito a fare, però va detto. E in fondo è anche per via del confronto, della rivalità, che questo fallimento pesa così tanto sulle sue spalle. Contro l’Islanda, prima del rigore, si è visto un giocatore in difficoltà da un punto di vista strettamente tattico: circondato da compagni che non capisce e che non lo capiscono, che si muovono con modalità e tempi a lui estranei. Dopo il rigore ha avuto un altro sussulto, poi è psicologicamente crollato. Ma il vero dramma sportivo si è consumato alla resa dei conti contro la Croazia, dove pochi minuti sono stati sufficienti per capire che Messi quel rigore non lo aveva smaltito neanche un po’. «Era come se Leo non fosse in grado di uscire dal momento dell’errore, cosa che lo faceva sentire responsabile», ha scritto Enrique Gastañaga sul Clarín.

Nei fatti il suo stato d’animo si è tradotto in una partita ordinaria. Non ha quasi mai accelerato, né tentato giocate azzardate. Ha tirato una sola volta, respinto, e si è “limitato” a 17 uno-contro-uno tentati. Ha completato 18 passaggi, 30 in meno rispetto alla gara contro l’Islanda. È stato in sintesi più defilato, dando solo a rari sprazzi l’impressione di poter risultare decisivo. Come ha scritto Jonathan Wilson sul Guardian, estremizzando: «Quando l’Argentina cercava Messi, lui semplicemente non c’era». Nel primo tempo è stato addirittura il secondo argentino meno coinvolto nella manovra, dietro al solo Agüero.

L’unica conclusione messa a referto da Messi contro la Croazia

Messi non è riuscito ad essere con l’Argentina ciò che Cristiano sta riuscendo ad essere con il Portogallo. Ha scoperto ancora una volta il proprio lato debole, dopo i precedenti in Copa América che già gli avevano provocato grande sofferenza. Ma il fallimento di questa squadra ha dimostrato anche che per vincere con Messi non serve una squadra che dipenda così esplicitamente da Messi, perché Leo non riesce a vincere da solo, non sempre almeno. È l’unico peccato, se così lo vogliamo chiamare, che rimane da attribuirgli; l’unico chiodo ancora fissato. Non è e non deve essere eresia riconoscere che pure Messi abbia contribuito al default generale; in fondo il rigore lo ha sbagliato lui e contro i croati, quantomeno per i suoi standard, ha fatto assenteismo. Però chi doveva supportarlo non lo ha fatto, e chi poteva e doveva trovare una chiave ha finito per portargli un’altra serratura. Sampaoli disse: «Messi è di un altro pianeta. Non possiamo classificarlo, è impossibile. Se hai lui in squadra, sei quasi sicuro di vincere». Appunto: quasi.