Passione torbida

Maradona che fa il matto è l'immagine autentica di questa Argentina.

27 giugno, prima pagina del Corriere dello Sport, taglio alto. “Le dita de Dios”, c’è scritto, quelle che Maradona fa ondeggiare birichinamente a fine partita – è il dito medio, facile intuirlo – mentre si dimena, gonfio e sudaticcio, in preda all’ubriacatura da vittoria (e basta?), condita da qualche «putos» rivolto agli avversari. L’Argentina ha appena battuto la Nigeria per 2-1, e si è così riservata un posto negli ottavi di finale del Mondiale. Però il titolo, anziché Messi, anziché l’improbabile match-winner Rojo, se lo prende lui, El Diego, che rimane cuore e sangue di una sbilenca ma sopravvissuta Argentina.

Forse è proprio per questo: l’immagine di una Nazionale sbrindellata, in bilico tra la vita e la morte, tra il successo e il fallimento, e tutto questo passa per un gol a quattro minuti dalla fine confezionato da splendidi antieroi come Mercado e Rojo, sì, quest’immagine aderisce perfettamente a Diego Armando Maradona, a questo Maradona, sballottato dagli eventi di una partita, prima ancora che della vita, che ansima tra le montagne russe – anzi, quelle di San Pietroburgo – di una serata infinita, che gesticola furibondo, che guaisce mani al petto con la faccia in su, che sgrana gli occhi spiritati e che alla fine, svuotato di energie, quasi inerme, viene portato a braccia fuori lo stadio.

Ma non è questa l’Argentina, e non è questo Maradona. O meglio, non dovrebbe. Se tutti i flash puntano a lui, non è per quello spettacolino di quart’ordine, degna incarnazione di un attoruncolo di provincia in crisi esistenziale e oltre, sul quale le ombre dell’oblio si sono da lungo tempo addensate. È perché lui, quella coppa, l’ha vinta, e l’ha vinta nell’unico modo possibile: con classe, con talento, anche con furbizia, comunque in un modo che è rimasto impresso nella mente di tutti a distanza di trent’anni e più, e continuerà, come un ologramma senza sosta, a popolare sogni e incubi degli appassionati di calcio per altri trent’anni e più.

Non c’è un grammo, o quasi, se togliamo la stupenda giocata di Messi che ha portato all’1-0, di quella straordinaria miscela nell’Argentina odierna. Delle incomprensioni tattiche, dell’idiosincrasia di certi giocatori per Sampaoli si è già detto e scritto abbastanza: ma, prima di tutto, questa squadra vive pericolosamente sull’abisso delle proprie paure e dei propri limiti. Ogni singolo attimo è carico di un’isteria controproducente: da Messi quasi in trance durante l’inno nella seconda partita a Mascherano sanguinante in campo contro la Nigeria, in omaggio a una retorica vacua e senza sbocchi – e infatti, l’ex Barcellona è stato uno dei peggiori in campo, causando pure il rigore per gli avversari. È quanto riassume Sampaoli, consapevole dell’ennesima notte di passione torbida, nell’espressione «ribelli veri» riferita ai suoi giocatori, quando, in realtà, non c’è nulla contro cui ribellarsi quando si vuole vincere una Coppa del mondo – tranne contro il proprio allenatore che viene, scelte in campo alla mano, delegittimato.

L’ottavo di finale contro la Francia sarà la contrapposizione tra due poli esattamente all’opposto. La squadra di Deschamps non gioca bene, tutt’altro: ma è solida, ha fiuto per le partite, sa come orientarle a proprio favore. Con il minimo sforzo ha messo insieme sette punti e ottenuto una qualificazione anticipata, senza foga e starnazzamenti di alcun tipo. La Francia è un rock sincopato di successo; l’Argentina è un languido tango di rimpianti e incertezze, una danza che procede a tentoni nel buio. Un’atmosfera che somiglia terribilmente a quella del Brasile di quattro anni fa, condannato a una vittoria il cui peso era insopportabile – e sappiamo tutti com’è andata a finire.

Leo Messi rimane il leader indiscusso di questa squadra proprio perché riesce a tenere a galla i vitali rimasugli di lucidità, con i colpi in campo e con le parole fuori: «Durante l’intervallo Messi è venuto da noi e ci ha detto di rimanere calmi. Eravamo nervosi e quello che ci ha detto ci ha dato molta fiducia», ha detto Rojo a fine partita. Un messaggio così distante dal repertorio comunicativo di Sampaoli, che del suo capitano dice che «sente e piange come un argentino, e questo lo rende più grande di quello che è». Ma non è questo il caso di Messi. O meglio, non è questo il modo in cui il numero 10 può decidere le sorti del suo Mondiale.