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Per la Spagna è arrivato il momento di un reset, di uomini e di gioco?

Quando una Nazionale, anzi una grande Nazionale, lascia il Mondiale tristemente, senza aver lasciato un degno ricordo di sé, spesso non è immediato individuare le cause che hanno determinato il flop. Nel caso della Spagna, invece, eliminata agli ottavi di finale dopo una prova incolore contro i padroni di casa della Russia, si può dire il contrario: le spie del malfunzionamento si erano accese già prima della competizione, con il pasticciaccio Lopetegui, e si erano fatte via via più intense con le risposte (o domande senza risposta?) che arrivavano dal campo. Nella prima pagina all’indomani della sconfitta, in poche parole Marca ha fotografato la Spagna e le ragioni di un conclamato fallimento: «Senza velocità, senza profondità, senza anima né gioia».

Fuori tempo massimo

La partita contro la Russia è stata, probabilmente, la peggiore delle quattro disputate dalla Spagna al Mondiale: bene contro il Portogallo, nonostante i capricci difensivi (ci torneremo), maluccio contro Iran e Marocco, laddove però i risultati positivi hanno in qualche modo legittimato la prestazione. Negli ottavi, in una gara da dentro o fuori, era obbligatorio che il livello della squadra, e del gioco, salisse. Così non è stato, e la partita ha seguito un copione prevedibile, scontato. La Spagna ha dominato nel campo dei passaggi, non delle occasioni: la squadra di Hierro ha tenuto palla per il 75 per cento del tempo, in modo letargico, passandosi il pallone 1.137 volte (mentre gli avversari non si sono spinti oltre quota 300). Ma, in quanto a pericoli reali, la porta di Akinfeev non ha mai corso rischi. Come ha scritto Sam Wallace sul Telegraph, «i giorni crepuscolari del tiki-taka hanno prodotto una prestazione in cui il primo tiro in porta di un giocatore spagnolo è arrivato dopo 45 minuti». Il piano di Cherchesov ha funzionato perfettamente: sapeva che ai ritmi della Spagna, rinunciando ad attaccare, poteva sperare di giocarsela. Strategia confermata da Golovin: «Sapevamo che la Spagna avrebbe tenuto il pallone, e noi glielo abbiamo lasciato. Eravamo preparati, credevamo di poterli tenere lontani dalla nostra area di rigore».

La Spagna avrebbe dovuto accelerare, provando a verticalizzare di più, a cercare con più insistenza Diego Costa – che, per inciso, non solo è stato frustrato dalla prestazione collettiva, ma addirittura è stato sostituito, unico barlume di pericolosità, prima della fine dei tempi regolamentari. La Russia ha sfruttato al massimo le (poche) armi a disposizione – difesa serrata, linee molto strette, l’altezza di Dzyuba a fare da riferimento in avanti –, la Spagna ha insistito su un solo tipo di canovaccio, rinunciando a esplorare ulteriori possibilità. Hierro si è trincerato dietro una ovvia, ma opinabile, equazione: è questo il modo in cui la Spagna deve giocare, perché è questo il modo che ha fatto grande la Spagna. «Abbiamo la nostra identità, che si regge sul tipo di giocatori che abbiamo». Se non che molti giocatori di quella Nazionale vincente – come Busquets, come Silva, come lo stesso Iniesta che ha trascorso la parte iniziale del match in panchina – non sono più nel pieno della loro condizione fisica, e i loro papabili eredi non sono stati all’altezza della situazione. Probabilmente andava premiato maggiormente l’istinto predatorio di Isco, il più positivo della spedizione spagnola, che più che al tiki-taka deve il suo successo al gioco fluido del Real Madrid.

Hierro è andato avanti per la sua strada, forse bloccato dal timore di una rivoluzione che non gli sarebbe dovuta appartenere – insomma, la sua è una figura più da traghettatore che da ct a pieni poteri. Cambiare il corso di una Nazionale sarebbe stata una missione più grande del suo ruolo, eppure l’ex capitano del Real Madrid ha fatto un’osservazione non da poco: «Nel 2008, nel 2010 e nel 2012, con i calciatori che avevamo, giocavamo in uno stile che mai nessuno aveva adottato prima. Ora, nel 2018, molte cose sono cambiate. Le squadre giocano con cinque difensori, qualcosa che credevamo ormai sorpassato. Si preferiscono verticalizzazioni e transizioni veloci». In qualche modo, Hierro sta aprendo un interrogativo sulla stessa attualità del gioco della Spagna, dieci anni fa una ventata d’aria fresca, oggi stantio e superato. Soprattutto se il tiki-taka si trasforma in un “gilitaca”, come ha scritto Luis Nieto su As, un gioco di parole che in italiano potrebbe tradursi con “cretinaca”: «Un dominio asfissiante, che però si è scordato della porta avversaria. Hierro ha tolto Iniesta, uno degli artefici di questo calcio, e la Spagna ha giocato come se fosse in campo. E come se ci fossero anche Xavi e Xabi Alonso, che però andavano a un’altra velocità». E anche Barney Ronay sul Guardian individua l’assenza di Xavi – «il genio che rendeva questo sistema di gioco irresistibile» – come fattore determinante. La lentezza della manovra, il venir meno di giocatori chiave, la mancanza di alternative di gioco e la scarsa ricerca della punta in avanti hanno sancito l’eliminazione a fuoco lento delle Furie Rosse.

Il rigore fallito da Aspas che manda la Russia ai quarti

E la difesa?

Ma le spine per la Nazionale spagnola non finiscono qui. Il reparto difensivo, pur retto da Ramos e Piqué, due abituati a giocare ad altissimi livelli, è bocciato. Sei gol subiti in quattro partite sono un’enormità: non si vince un Mondiale se prendi così tanti gol. Se contro il Portogallo si poteva parlare di prova di onnipotenza di Ronaldo – comunque con la complicità della retroguardia spagnola – nelle successive gare il festival degli orrori è stato tutto di matrice iberica. Il gol del marocchino Boutaib è stato frutto di una comica incomprensione tra Ramos – colpevole anche sul secondo gol dei nordafricani – e Iniesta; il rigore di Dzyuba è stato causato da una follia incomprensibile di Piqué, che ha riportato la Russia in corsa – nell’unico modo possibile, potremmo dire.

E poi è emerso un problema De Gea, che con il 14,3 per cento di parate riuscite ha fatto registrare la peggior percentuale per un portiere al Mondiale. Il suo è stato un torneo cominciato malissimo, con la papera sul secondo gol di Ronaldo, ed è poi proseguito senza acuti, senza rivalse. Nella serie di rigori contro la Russia, non è stato capace di intercettare nemmeno un penalty – mentre il suo collega Akinfeev ci è riuscito due volte. E non c’è dubbio che anche l’insicurezza di De Gea abbia in qualche modo influenzato il rendimento dei difensori.

Il goffo errore di De Gea contro il Portogallo

Fallimento annunciato

Un sondaggio su As indica come per la grande maggioranza degli spagnoli la colpa dell’eliminazione è da imputare al presidente della Federcalcio Rubiales, e in seconda battuta a Florentino Pérez. In pochi prendono di mira Hierro e i giocatori. Ovvio che un ribaltone così clamoroso alla vigilia dei Mondiali – ricordiamolo: Lopetegui cacciato a poche ore dall’esordio contro il Portogallo per essersi messo d’accordo in gran segreto con il Real Madrid per la prossima stagione – non poteva non lasciare i segni sulla squadra. Rubiales, dal canto suo, ha tirato dritto: «Non mi pento di nessuna scelta: sono state decisioni prese responsabilmente».

Come detto prima, però, Hierro, oltre ad aver preso in carico una squadra che era stata plasmata in toto da Lopetegui, non aveva dalla sua sufficiente legittimazione, tanto che già a poche ore dall’eliminazione si fanno nuovi nomi per la panchina della Selección – con Quique Sánchez Flores principale candidato, in vantaggio su Luis Enrique e Míchel. Quel che è certo è che la Spagna ha buttato via un Mondiale che si era messo piuttosto bene – da quella parte del tabellone non ci sono favorite alla vittoria – e ha fallito nel proprio progetto tecnico, quello di creare le condizioni migliori per un ricambio generazionale dalla vecchia guardia – Iniesta, Busquets, Silva – ai più giovani – Asensio, Saúl, Odriozola, questi ultimi due mai scesi in campo –, con il contributo di giocatori dall’appeal minore come Aspas e Rodrigo. Niente di tutto questo ha funzionato, e ora la Spagna si trova di fronte a una possibile rivoluzione, non solo di uomini, ma anche di gioco.