Tornare indietro

Tra scelte di cuore e pentimenti improvvisi, il calcio è pieno di ritorni.

Tra i vari topoi che contribuiscono a creare l’odierna letteratura del calciomercato, quello del “ritorno” ha una narrazione peculiare: a un certo punto più che sul “perché” si finisce per concentrarsi sul “come” del ritorno stesso. Non deve quindi stupire che, nel riportare la voce di un possibile rientro di Bonucci alla Juventus, i media di settore abbiano preferito raccontare le reazioni della piazza e le eventuali implicazioni umane e relazionali piuttosto che gli aspetti tecnici ed economici legati all’eventuale scambio con Mattia Caldara o Gonzalo Higuaín. Complice, probabilmente, il fascino del precedente illustre datato maggio 2009 quando, sull’onda lunga del credito conquistato durante il Mondiale in Germania e al netto di tre stagioni non propriamente esaltanti con la maglia del Real Madrid, Fabio Cannavaro fa il suo ritorno in bianconero (dopo la parentesi 2004-2006) alle soglie dei 37 anni. Alle inevitabili difficoltà sul campo, complici il naufragio pressoché immediato del ciclo del primo Ciro Ferrara allenatore e lo scadimento progressivo ed evidente del proprio rendimento, si accompagnano quelle relative ad un rapporto con la tifoseria logorato ancor prima di (ri)cominciare dagli strascichi di Calciopoli e dal precedente addio mai digerito, soprattutto se rapportato alle scelte dei vari Del Piero, Buffon e Camoranesi, scesi in Serie B da campioni del mondo.

Qualche anno dopo sarebbe toccato a Claudio Ranieri, che aveva inaugurato il nuovo corso juventino in Serie A prima di essere esonerato a due giornate dal termine della stagione 2008/2009, raccontare una delle tante verità di quel periodo: «Mi fu detto che i giocatori li decidevamo e prendevamo in tre: io, il ds Secco e l’amministratore delegato Blanc. Arrivò una scelta su cui non concordavo, mi dissero che loro due invece erano d’accordo. E io risposi: “Benissimo, allora vado via io”. Poi che mi esonerarono a due giornate dalla fine conta poco. Il giocatore in questione era Cannavaro. Era un grande giocatore, ma io facevo un discorso di linearità, non mi sembrava giusto: erano scesi in B in sei riportando la squadra in A. Perché riprendere uno che intanto era andato al Real e aveva vinto uno scudetto?». Le 33 presenze stagionali e l’eccesso di gratitudine di Lippi, a sua volta tornato alla guida della Nazionale, gli valgono la convocazione al Mondiale in Sudafrica, il suo quarto ed ultimo, che certifica l’avvenuto imbocco del viale del tramonto. Si ritirerà la stagione successiva al termine di una dimenticabile esperienza all’Al-Ahli. 

Anche il Milan, che si trova dalla parte opposta della suggestione Bonucci, è tra gli scottati di lusso delle “operazioni nostalgia” fuori tempo. Nell’agosto 2008, nel declinare di una campagna acquisti dominata dallo sbarco in rossonero di Ronaldinho, Andriy Shevchenko veste i panni del figliol prodigo e compie a ritroso il percorso che lo aveva portato dall’essere il secondo miglior marcatore rossonero di tutti i tempi (173 gol in 316 presenze, dietro al solo Gunnar Nordhal) a diventare, secondo il Sun, il “peggior affare di mercato della Premier League dal 1998”, dopo 22 reti (appena nove in campionato) in 77 partite con il Chelsea. «Andriy ha sbagliato ad andar via e credo che da due anni a questa parte abbia capito che questa è la sua casa. Adesso ha fatto i suoi sacrifici economici, ma a questo punto l’unica cosa che conta è che lui torna con noi» esulta Adriano Galliani. «Per me è come aver vinto una Champions League. Ci sono state delle complicazioni, ma ora che tutto si è risolto sono proprio felice», replica l’ucraino.

Ma in campo combina poco: 18 presenze in Serie A, per lo più spezzoni, 26 complessive in stagione, e resta solo il simulacro del grande centravanti che fu, in un triste tentativo di rincorsa ad un passato che non sarebbe mai più tornato, perfettamente sintetizzato da Davide Coppo su Undici: «La maglia numero 76, come il suo anno di nascita, come i calciatori arrivati troppo tardi e troppo poco importanti. L’incitamento esagerato del pubblico, a ogni ingresso in campo – raramente Sheva partì tra i titolari, quell’anno – o passaggio riuscito era un graffio sulla fotografia del suo passato prossimo. L’inarrestabile attaccante era ora rassicurato della sua improvvisa incapacità, come un vecchio moribondo, con più pietismo che speranza». Sensazioni avvertite già alla prima surreale giornata a San Siro vissuta tra debutti attesi e ritorni insperati, con il Bologna nel ruolo di inedito guastafeste (vittoria per 2-1: il Milan non perdeva all’esordio in campionato dal 1986/87) e Shevchenko a ricordare che il tempo passa per tutti. Le reti saranno appena due – la prima in ottobre in un anonimo primo turno di Coppa Uefa contro lo Zurigo; la seconda in dicembre in occasione degli ottavi di Coppa Italia persi con la Lazio – vane quasi come il tentativo di convincere Kakà (che, a sua volta, si renderà protagonista di una rentrée migliore per qualità e quantità delle prestazioni nel 2013/2014) a non accettare la corte serrata del Real Madrid, prima della scelta di chiudere alla Dinamo Kiev, là dove tutto era cominciato.

Nell’estate del 2017 Wayne Rooney non fa nulla di diverso. Dopo tredici stagioni con il Manchester United, la voglia di regalare all’Everton gli ultimi scampoli di una carriera vissuta nello stile tipico del ragazzo di Croxteth è più forte dei milioni della Chinese Super League. All’inizio semina intorno perplessità: «I successi dell’Everton della scorsa stagione sono stati costruiti sulla supremazia fisica di Romelu Lukaku. Con il belga passato allo United, non esiste alcuna possibilità che Rooney possa avere lo stesso tipo di impatto», come scrive Jack Pitt-Brooke sull’Independent. Ma la prima parte di stagione che somiglia ad una favola: esordio in Premier con rete da tre punti contro lo Stoke, bis la settimana successiva contro il City per raggiungere quota 200 in Premier League, prima tripletta in maglia Toffee il 29 novembre contro il West Ham, con l’ultimo gol che arriva con un conclusione da metà campo. Non c’è, però, lieto fine. Alla difficile collocazione nello scacchiere di Allardyce si aggiungono i consueti problemi fuori dal campo e le inevitabili frizioni con la dirigenza. Circostanze che lo convincono a non rimandare ulteriormente il passaggio al D.C. United in Mls: «Rooney non era più utile al Manchester United e all’Inghilterra – commenta Luke O’Farrell di ESPN – ma l’Everton era a caccia di quel finale da favola che lo stesso Rooney aveva sempre cercato. Il suo ritorno deve servire da esempio di quel che succede quando il cuore e i sentimenti prevalgono sulla ragione e sulla logica. Non c’è spazio per il romanticismo a questo livello».

Anche nel calciomercato “ritorno” vuol dire attesa, vuol dire predestinazione, vuol dire ritrovamento di qualcosa dopo aver viaggiato alla ricerca della stessa, con il rischio di non ottenere comunque ciò che si era desiderato. Cesc Fàbregas ha lasciato la Masia del Barcellona a 16 anni, per trovare all’Arsenal quello spazio che credeva essere suo di diritto: da quel momento, partita dopo partita, stagione dopo stagione, tutto era stato consacrato alla realizzazione della profezia («Un giorno tu sarai il numero 4 del Barcellona») che Pep Guardiola gli aveva scritto su una maglia custodita come e meglio di una reliquia. E quando finalmente accade, nell’estate del 2011, è come se tutto acquisisse meno senso, come se a contare anche in questo caso fosse non la meta ma il viaggio, come se il Barca avesse bisogno del Cesc in quanto catalano piuttosto che del Fàbregas in quanto centrocampista di primo livello: «Il dna del Barca è diventato un cliché – scrive Sid Lowe sul Guardian –. Il bisogno emotivo, quasi politico, di assicurarsi uno di casa, sulla scia di quanto accaduto con Guardiola, De la Peña, Xavi, Iniesta e Thiago, aiuta a spiegare lo zelo di questo inseguimento concluso oggi». Forse è per questo che, nonostante tre gol nelle prime quattro partite ufficiali (che valgono la Supercoppa Europea e quella Spagnola), il suo apporto non è così fondamentale come avrebbe potuto, dovuto e voluto. Samuel Mardsen sintetizzerà poi efficacemente: «Il ritorno al Camp Nou di Fàbregas non è stato un successo come avrebbe dovuto. Se ne è andato uscendo dal retro, in netto contrasto con quello che accade con altri prodotti della Masia». 

Una strada cui sembrava avviato anche Paul Pogba, che ha passato le ultime due stagioni a dover fare i conti con gli effetti collaterali del #PogBack: una narrazione stereotipata e pregiudizievole nell’analisi dell’ effettivo impatto delle sue prestazioni, un allenatore non sempre in grado di metterlo a proprio agio nel suo sistema, il doversi dimostrare sempre e comunque all’altezza del prezzo del suo cartellino, lo sforzo di parare gli eccessi di critica, tifosi, ambiente. Il tutto convivendo con il paradosso di dover rimodulare il suo modo di giocare in funzione dell’efficacia che gli è sempre stata richiesta e che ha finito comunque con il penalizzarlo nel momento in cui si è cominciato a far notare che non fosse più il giocatore tonitruante della Juventus: «Perché questo Pogba è semplicemente un’altra faccia dello stesso poliedro – scriveva Gian Marco Porcellini su Undici –. Un Pogba più ordinario (per quanto lo si possa considerare tale un simile talento) e meno extra-ordinario, più continuo ed essenziale ma meno appariscente. Più regista e meno cursore». Un qualcosa che è sempre sfuggito ai più e che si è manifestata in tutta la sua squassante evidenza al termine di un Mondiale che ha legittimato una carriera, non solo una stagione. E che ha dato la reale misura dell’importanza del suo ritorno al Manchester United. Perché non è sempre questione di chi torna, ma anche di quando e come lo fa. E Pogba lo ha fatto in modo migliore: quello in cui tutto è ancora da scrivere, nonostante molto sia già stato scritto. Con tecnica e tattica a prevalere su retorica e sentimento.