Mia

Ha finito il liceo ed era già stagista alla Cnn, e per sentirsi davvero italiana ha voluto conoscere profondamente tutte le province della Penisola.

Mia arriva allo studio con una bottiglia di un succo rosso alla frutta e un sacchetto pieno di vestiti. Dice: «Mi sono portata dei cambi». Ho conosciuto Mia quando era a La7, girava l’Italia per In Onda e venne a trovarci nella redazione di Studio, a Milano. Si propose per scrivere un pezzo che ci sembrò subito interessante: raccontare una giornata con Giacomo Alatri, il responsabile del pubblico del programma La prova del cuoco. Pochi mesi dopo, mentre Mia conduce Agorà, Michele Masneri, suo amico e collega, scrive su IL il ritratto “Fortissimamente Mia”. Di quell’articolo lei dice: «È ancora il pezzo più onesto su di me». Michele scrive: «Vorrebbe avere 40 anni, ma ne ha solo 27». Quando le chiedo se adesso che sono passati quattro anni ne vuole avere ancora 40, lei ride e dice: «Ormai ci siamo quasi!». Conduce una trasmissione di culto della tv italiana iniziata più di 20 anni fa, quando lei ancora non viveva in Italia ma a Miami. È nata in Germania e parla non so quante lingue, come minimo tre. Non so sulle altre, ma sull’italiano ha un accento romano appena accennato. Dopo il liceo fa la Cnn a Roma, intanto si laurea a pieni voti, quando non ha ancora 25 anni ha già fatto Matrix, i telegiornali Mediaset. È una che studia tanto, sempre e da sempre.

Ⓤ Ti sei preparata molto anche per questa intervista?

Mi sono letta solo un po’ di vecchi numeri di Undici.

Ⓤ  Io invece ho letto una cosa che hai scritto per un numero di Sette di febbraio. Nella rubrica “Se fossi l’imperatore del mondo” dici che faresti fare per due ore al giorno a qualcuno un altro lavoro. «Due ore al giorno nei panni di un altro. Un giorno fai il panettiere, un giorno la maestra, un giorno il bambino».

Sì, è un po’ perché a me piacerebbe anche cambiare mestiere quattro o cinque volte nella vita, pur amando tantissimo quello che faccio. Non penso che in due ore uno possa immedesimarsi in una persona che ha una vita diversa dalla sua: dovresti andare in casa sua, infilarti le tue ciabatte, e preparare quello che lui prepara da mangiare la sera. Però ti dà una prospettiva diversa, e ti abitua in un certo senso al fatto che tutti dovremmo essere pronti al cambiamento.

Ⓤ E tu cosa faresti?

Ma l’idea funziona bene solo se non puoi scegliere.

Ⓤ Allora dimmi una cosa che non vorresti fare.

L’olimpionico. L’atleta nel giorno della gara più importante.

Ⓤ È perché ti spaventa lo stress?

No, perché poi anche il mio lavoro ha una parte strutturale di stress e competizione. Ma l’agonismo in cui testa e corpo devono funzionare insieme al massimo mi sembra un esercizio molto difficile. Io poi sono figlia di due sportivi, e sono stata sempre quella più deludente. Ho sempre avuto l’ansia di coordinare lo sforzo mentale con lo sforzo fisico.

Ⓤ C’è anche il fatto che è una gara, one shot.

Anche quello. Però sai, la diretta pure è così.

Ⓤ  Vuoi fare tu dei cenni biografici sulla tua famiglia?

È una famiglia un po’ nomade. Mio papà è tedesco, mia mamma di Sarajevo. Entrambi avevano questa passione condivisa per l’Italia, un’Italia forse più da vacanze, e mi hanno cresciuta nel mito di questo Paese nel quale la vita ha un ritmo diverso, nel quale ci si prende cura delle persone, nel quale c’è godimento della vita, godimento del bello. Sono cresciuta con questa idea, poi ci venivo in vacanza da piccola. Ma io ho fatto molti anni a Miami, e vivendo in America ho capito cosa a loro piaceva così tanto dell’Italia: la differenza nell’approccio, i tempi, questo senso di collettività, non intesa come una massa di persone che marcia unita verso un ideale, ma una dimensione comunitaria, condominiale, di quartiere. Miami, quando siamo arrivati noi, era un posto borderline, più quella di Scarface che quella di adesso, e quindi io vivevo in questo comprensorio dove non si poteva mai uscire senza la supervisione di un adulto. Poi arrivavo in Italia e andavamo all’Argentario, e mi ricordo questa sensazione incredibile di libertà quando a sette anni giocavi a pallone in piazzetta, e non c’erano adulti, semmai qualcuno che guardava dal balcone. Questo senso di libertà e allo stesso tempo di protezione di occhi che non vedi.

Ⓤ Il tuo nome è una parola che si dice molto spesso, e allo stesso tempo è un nome raro. Che rapporto hai col tuo nome, ci hai mai pensato?

Sì, profondissimo. Intanto era l’unico che metteva d’accordo tutte le nazionalità: esiste in Germania, esiste in quella che è la ex Jugoslavia, esiste in America, esiste in Italia. Credo che l’obiettivo dei miei genitori fosse una cosa che poteva stare in ogni posto del mondo. Ha funzionato in questo senso. Anche se poi non sei mai interamente una cosa, non sei mai interamente l’altra: quando ero in America ero l’italiana e quando ero in Italia ero l’americana. Però… it suits me.

Ⓤ E com’è andata la costruzione della tua identità?

La parte consapevole o quella inconsapevole?

Ⓤ È stato difficile mettere insieme tutti questi pezzi di mondo?

È stato quasi un lavoro al contrario. L’infanzia la ricordo come l’enorme sforzo di essere una sola cosa, cioè di essere come tutti. Quando senti i tuoi genitori parlare un’altra lingua davanti ai tuoi amici non lo vorresti. Non dico che te ne vergogni, ma fai fatica ad accettarlo.

«Vivendo in America ho capito cosa ai miei genitori piaceva così tanto dell’Italia: la differenza nell’approccio, questo senso di collettività, non intesa come una massa di persone che marcia unita verso un ideale, ma una dimensione comunitaria, di quartiere»Ⓤ Quindi a un certo punto hai accettato di essere fatta così.

Quando facevo l’inviata, soprattutto negli anni a La7, facevo una media di 50 trasferte l’anno, tutte in Italia, principalmente. Era il periodo delle fabbriche che chiudevano, i suicidi in Veneto, la disoccupazione al Sud, e io avevo questa cartina nella cucina della mia vecchia casa in cui segnavo con un pallino tutti i luoghi in cui ero stata, e me la sono fatta veramente tutta, da nord a sud. In quel periodo avevo guadagnato una conoscenza abbastanza profonda per dirmi italiana. Anche perché in America percorri delle distanze incredibili, noi stavamo a Miami ma la maggior parte della famiglia era a Seattle, e mi ricordo queste distanze incredibili e in America puoi viaggiare in macchina per decine di ore e ci saranno sempre gli stessi punti di riferimento: le stesse catene di fast food, le pompe di benzina, cambia un po’ il paesaggio ma più o meno esiste una cosa che si somiglia e continua. In Italia questa cosa non esiste nel raggio di 20 chilometri.

Ⓤ Ma da adolescente almeno hai fatto l’adolescente?

Poco. Perché è stato il periodo più ricco e anche più bello della mia formazione, quella di basi culturali, di abbiccì. Ma secondo me non avrei fatto l’adolescente per niente se fossi stata in America. A Roma invece, il motorino, gli amici di quartiere, la vita di quartiere mi hanno aiutato a uscire da una situazione in cui c’è stato un momento di scoperta di alcune cose che mi piacevano… la maggior parte dei libri che mi piacciono li ho letti tra i 15 e i 20. Tutti gli interessi, è tutto nato lì. Però è nato in una stanza, nella cameretta. Ed erano ovviamente delle cose non comuni tra gli altri adolescenti, quindi c’era una parte di vita normale, e poi uno spazio che era mio, di studio e di esplorazione.

Ⓤ E a diciannove anni eri già alla Cnn. Come hai iniziato la Cnn?

Mentendo, questa è la verità.

Ⓤ Ma come potevi avere le idee così chiare a 19 anni? O forse non le avevi per niente chiare.

Idee chiare sul fatto che avrei trovato una mia collocazione nel mondo a livello professionale e ci avrei messo l’impegno e tutta quella parte preparatoria e quella parte che era in incubatrice da anni, in parte per formazione famigliare in parte per mia ambizione. Ma fu assolutamente casuale. Tra l’altro mia madre ha fatto la giornalista per tanti anni, per diversi network, quindi un po’ l’idea del modello come confronto non è che proprio mi attirasse. È che avevo molta voglia di iniziare a lavorare, di uscire da quella stanzetta, mi sentivo corazzata. Avevo voglia di vedere se nel mondo quella cosa lì serviva a qualcosa, se di quelle cose che avevo accumulato nel mio cestino c’era qualcosa di spendibile.

Ⓤ Tu sei consapevole di essere brava?

È un trabocchetto.

Ⓤ Beh, hai sempre studiato tanto.

Penso di fare un mestiere che ha talmente tante sfumature e talmente tante aree di competenza, pur non sembrando, che se mi sento brava un giorno su una cosa, la mente va immediatamente su un’altra che devo migliorare.

Ⓤ Questo vuol dire sì?

Su alcune cose sì.

Ⓤ Niente sindrome dell’impostore.

No. Penso sia una bellissima posa.

Ⓤ Guardando il tuo Twitter, che hai praticamente smesso di usare, quello che si evince è che la tua formazione culturale è molto più sfaccettata di quella della media televisiva.

Non è intenzionale, anche perché io faccio la “generalista”, e arrivare al maggior numero di persone per me è importante. La partita della generalista, che tu la prenda facendo una trasmissione d’inchiesta o il varietà, è sempre una partita che dovrebbe avere l’ambizione di arrivare a più persone possibili.

 

Ⓤ A proposito di generalista. Com’è andata la tua auto-educazione alla cultura pop, che in Italia è un tema complessissimo, tra la celebrazione e lo svilimento, il disprezzo e l’intellettualismo?

È stata molto casuale. Non sono stati strumenti dati in famiglia, alcune cose non si guardavano, non si demonizzavano nemmeno ma semplicemente non c’erano. È come entrare nella piazza dalla via più stretta: il colpo d’occhio è importante, e sei quasi più consapevole della potenza evocativa di alcune immagini, della loro forza iconografica. Il fatto che alcune cose mi siano arrivate pur vivendo tra diversi Paesi, venendo da una famiglia atipica, è una cosa che me le ha fatte apprezzare tantissimo. Mi ha stupito quante cose mi siano rimaste della mia frequentazione italiana da vacanziera, prima di venirci a vivere in pianta stabile. È come un pezzo del tuo inconscio, una cosa che è stata timbrata una volta e poi te la ritrovi sempre.

«Arrivare al maggior numero di persone per me è importante. La partita della tv generalista, che tu la prenda facendo una trasmissione d’inchiesta o il varietà, è sempre una partita che dovrebbe avere l’ambizione di arrivare a più persone possibili»

Ⓤ E adesso lavori con la parte più pop del pop italiano, quella calcistica.

È stato un processo simile: vivi in un Paese in cui il discorso calcistico è letteralmente ovunque, nei bar, tra i colleghi, con gli amici, ai pranzi. Ne senti gli odori per tutti questi anni, poi ti ci immergi, e all’improvviso ti spieghi tutta una serie di cose, è stupefacente. Per me il calcio era una cosa più legata ai Mondiali. Il primo ricordo sportivo che ho, lavorando alla Cnn, è legato al Mondiale del 2006, noi avevamo la camionetta, trasmettevamo da Roma, al Circo Massimo, io ero dentro la camionetta a gestire l’IFB, l’International Feedback, tu dici in pratica ad Atlanta cosa stanno inquadrando le tue telecamere in modo che loro poi decidano cosa fare. Avevo 20 anni, lì dentro, e tutti i miei amici erano al Circo Massimo. E mi ricordo questo momento al gol di Grosso in cui l’operatore italiano comincia a piangere, io anche mi emoziono, e la gente era talmente eccitata che a un certo punto ha sollevato la camionetta. Non so se piangevo perché avevo 20 anni e lavoravo alla Cnn o perché stavamo vincendo i Mondiali.

  Quelli che il calcio da sempre è riuscito a giocare sulle faziosità e i campanilismi, anche rendendoli in un certo modo culturali.

A me la cosa che piace di più del programma, che non è merito nostro perché è una cifra che aveva già, è questo modo di ridere sulle cose, prendersi in giro senza che mai diventi pecoreccio.

Ⓤ  C’è un’attenzione maggiore a cosa dire, negli ultimi tempi?

In generale siamo tutti più politically correct. E questo per chi fa il comico di professione ha complicato la faccenda. Siamo tutti un po’ sui gusci d’uovo. Per chi fa il giornalista devi essere attento, ce l’hai una responsabilità. Ma uccide tutta la parte dell’intrattenimento, questa cautela. Cioè fa male a quella parte lì di televisione. Non fa male alla parte più garbata, non fa male alla parte più gentile, come i programmi che ti fanno sentire dalla parte giusta del mondo. Io, da spettatore, ne sento la mancanza soprattutto sull’intrattenimento, di un po’ di scorrettezza, di un po’ di graffio.

Ⓤ Alla fine la facciamo questa bellissima gara tra Milano e Roma?

Facciamola almeno per settori.

Ⓤ La narrazione di Roma che affonda e Milano che si staglia dopo anni dalla nebbia in cui era immersa, mettiamola così. Si sente, da osservatrice esterna?

Roma secondo me ha questa bellezza così evidente che i romani hanno pensato che sarebbe rimasta così bella sempre. Questa cosa che le rovine sono parte della tua bellezza sembra quasi un destino. Di Milano, dirò una banalità, ma mi piace la bellezza nascosta. La bellezza del cortile interno è la metafora di tutto questo. C’è una grandissima tensione alla bellezza. Ma lo vedo anche tra i miei condomini, per dire. Un tendere a un principio estetico che però non è mai così evidente nella città.

Ⓤ Hai piani per il futuro? O meglio, ti fai piani per il futuro mentre stai facendo una cosa che ti piace?

Li ho sempre fatti. Li ho sempre disattesi.

 

Dal numero 21 di Undici. Foto di Andy Massaccesi