Il colore Viola

Cosa significa tifare la Fiorentina per uno scozzese discendente da emigrati toscani?

Le mie vacanze estive finiscono sempre lì. Si discute, in famiglia, la possibilità di andare altrove, ma dopo tante chiacchiere inutili la destinazione rimane la stessa: Barga. Un piccolo paese della Garfagnana, la terra dei miei nonni e il luogo di nascita del mio amore per la Fiorentina. Non ricordo, di preciso, la data in cui sono diventato tifoso dei Viola, ma sul luogo del delitto non ho alcun dubbio. Era un giorno caldissimo d’estate allo stadio Johnny Moscardini, intitolato all’unico giocatore nato in Scozia ad aver giocato per gli Azzurri. Aspettavamo l’arrivo dei calciatori in campo per un’amichevole di precampionato su quel campo mezza erba e mezza polvere. Avevo 11 o 12 anni, nato e cresciuto in Gran Bretagna, ma non vedevo l’ora di veder giocare una squadra di Serie A per la prima volta. E poi ho visto lui: Giancarlo Antognoni.

Probabilmente mi sarei innamorato anche senza il fatto che condividevamo lo stesso nome, non lo so. Di certo, era difficile trovare un Giancarlo nella Scottish Premier League. Ma non era soltanto per questa coincidenza. Il modo in cui giocava sembrava di un altro pianeta rispetto allo sport che conoscevo nella mia terra natia. Si diceva che giocasse guardando le stelle ma, nei miei ricordi, mi pareva che corresse senza toccare terra. In quel caldo asfissiante, lui lasciava lavorare il pallone. Un tocco delizioso, un assist di 50 metri e un modo di correre così languido da sembrare lento, eppure i suoi modesti rivali non riuscivano a stargli dietro. Volevo diventare un uomo – e un giocatore – come lui.

Quella maglia, poi, come non amarla? Sono pochissime le squadra che portano quel colore così bello, così diverso. Tornando a scuola in Scozia, ero fierissimo di giocare a calcio con gli amici vestito di viola. A quei tempi, prima di internet, prima di Amazon o eBay, era molto più difficile trovare il merchandising della squadra del mio cuore. Solo una volta ogni 12 mesi – durante le vacanze, appunto – potevo comprare qualcosa per dimostrare la mia passione per la Fiorentina.

Per necessità il mio è stato spesso un amore a lunga distanza. Mio padre riceveva – con due o tre giorni di ritardo – La Gazzetta dello Sport del lunedì e io divoravo tutta l’informazione che potevo dalle sue pagine rosa. Immaginavo l’atmosfera di rabbia e delusione di quella maledetta stagione del “meglio secondi che ladri”, quando sfiorammo quel tanto sognato e ancora così lontano terzo scudetto. Il tifoso, quello vero almeno, impara più di se stesso da queste sconfitte che da qualsiasi vittoria. Già a quei tempi avevo capito che seguire la Fiorentina voleva dire soffrire più che gioire, ma non ho mai pensato di cambiare squadra. Chi vuole vincere campionati e trofei può cercare altrove.

In fondo, per me, il legame con quegli 11 uomini che vanno in campo ogni domenica è anche un modo di rimanere in contatto con le mie radici. Per questo, nei giorni prima dei canali satellitari, mi mettevo davanti a una piccola radio ogni weekend a cercare di trovare qualche segnale debole dall’Italia, per ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto. Quelle voci mi portavano indietro, al paese lasciato da mio nonno. Quanto dolore ogni volta che un cronista annunciava un gol contro la mia squadra preferita ma, ogni tanto, quanto piacere a sentire la descrizione di una rete di Roberto Baggio, Stefano Borgonovo o (raramente) Socrates.

Viaggiamo in avanti qualche anno – e arrivano le prime partite per me allo stadio Artemio Franchi. Sono più vecchio, finiti gli studi all’Università di Edimburgo, ma porto ancora dentro un’ossessione per quella squadra così distante. Non c’era più lui – Antognoni – ovviamente, ma avevo un nuovo idolo: Gabriel Omar Batistuta.

È difficile spiegare il significato di quella prima volta allo stadio per chi, come me, vive lontano dalla sua squadra. Ogni visita è una specie di pellegrinaggio perché bisogna passare ore in macchina, in aereo o in treno per arrivare a destinazione. Ricordo gli sguardi un po’ stupefatti degli altri quando raccontavo, più di 20 anni fa, il mio viaggio per vedere la Fiorentina. Erano, credo, contenti di vedere che qualcuno sapeva dell’esistenza della loro squadra così a nord in Europa. Mi chiedevano, in tanti, perché non avevo scelto una società più vincente. È una domanda che faccio a me stesso ogni tanto anche oggi. Quanto sarebbe stata diversa la mia vita se avessi visto, non so, il Milan, l’Inter o la Juventus in ritiro quell’estate? Sarei anche diverso come persona? Può darsi, ma non saprò mai la risposta.

Quel primo viaggio al Franchi l’ho fatto da solo dalla Scozia sperando di vedere un gol di Batistuta e non mi ha deluso. Andiamo in svantaggio, un pallonetto di Maurizio Ganz, e temo di aver buttato via tutti quei soldi per il volo, l’albergo e il biglietto. Ma non avrei dovuto dubitare del mio nuovo eroe. Segna, di testa, credo, il pubblico impazzisce e impazzisco anche io. C’erano, forse, anche lacrime di gioia per aver realizzato un sogno che avevo cullato per tutti quegli anni dopo quella prima gara che mi stregò per la vita. Urlavo a squarciagola, con migliaia di altre persone: «Bati-Bati-Bati-Batigol!».

Tutti i miei ricordi – fuori e dentro lo stadio a Firenze – sono speciali. Forse è perché non posso andarci così spesso come uno che ci vive vicino, non lo so. L’atmosfera prima della gara è sempre la stessa, o almeno a me sembra così. Spesso compro una maglia o una sciarpa per riportarle in Scozia, forse mangio un panino e mi guardo intorno sperando in una vittoria. È bello, per me, essere tra la “mia” gente, perché spesso mi sento solo a tifare Fiorentina. Sapere che ci sono tante altre persone che soffrono come me ha un valore difficile da spiegare. Aspettiamo tutti con la stessa ansia, la stessa voglia di vedere una vittoria, la stessa paura di un’altra sconfitta.

Quando entro nello stadio e sento quell’inno così storico, è una sensazione unica. Sono sicuro che ogni tifoso di qualsiasi squadra crede che la sua sia quella più speciale al mondo. Forse è vero per tutti. Quando cantiamo insieme «Garrisca al vento…» non riesco a immaginare un posto più bello o un momento più emozionante. Anche dopo tanti anni, tanti viaggi e tante gare mi dà i brividi. Anche mentre scrivo queste parole vorrei essere lì, al Franchi a vedere le squadre che entrano in campo. Prima del fischio d’inizio, tutto è possibile.

Durante la partita, tutto passa troppo veloce: vorrei ricordare tutto, vedere tutto, sentire tutto per poi riportare quelle sensazioni a casa. I cori della Fiesole, i momenti di bel gioco e le bestemmie toscane dell’anziana che è seduta accanto a me, cerco di registrare ogni cosa ma so che non è possibile. Meglio lasciare il telefonino in tasca e cercare di assaporare tutto. Un gol subito arriva sempre in silenzio, quasi incredulità. Non sembra giusto – per me – aver fatto tanti chilometri per vedere segnare un’altra squadra. Il dolore è forte, sembra di aver subito il torto più orribile al mondo. Così non va, così non è giusto. Ma, ogni tanto, troviamo la rete e quell’angoscia passa in un attimo. Un grido attraversa lo stadio e passano tutti i dubbi. Questa volta non finirà male, questa volta vinciamo noi, non gli altri. Che bellezza uscire sulle strade di Firenze con tre punti e l’immagine dei gol ancora nella testa. Spesso sono con mio padre o un mio carissimo amico e questo rende l’esperienza ancora più bella. Ricordo ancora le strade piene di macchine e motorini dopo una vittoria sul Milan – grazie a Luca Toni, mi pare – e sembrava di aver vinto il campionato. La sofferenza di tante sconfitte è passata in un istante.

Perché non dimentichiamo che la Fiorentina è passata dall’inferno del calcio ed è tornata ai grandi livelli. In un’estate temevo che la squadra sparisse per sempre, e poi siamo ripartiti dalla C2. Era strano vedere i giocatori tornare in Garfagnana, questa volta non per il ritiro ma per una gara di campionato. Non sembrava giusto ma lì, forse, abbiamo trovato uno spirito di gruppo che è assai raro. Ho pianto di gioia quando Enrico Fantini ha segnato il gol contro il Perugia che ci ha riportato in Serie A. Non ci sono parole per spiegare cosa significava per Firenze e per la Fiorentina.

Abbiamo visto passare tanti bei giocatori negli ultimi anni, anche senza vincere nulla. Stevan Jovetic, Borja Valero, Adrian Mutu e altri ci hanno regalato delle vittorie indimenticabili. Sappiamo che il nostro destino è lottare contro avversari più gloriosi, più potenti e più ricchi. Ogni tanto vinciamo noi ed è quello che conta. Come ha scritto Curzio Malaparte in Maledetti toscani, noi non siamo migliori o peggiori, ci basta essere diversi dagli altri.

Ed è questa la lezione che cerco di insegnare a mio figlio, che ha appena cominciato a interessarsi al mondo del pallone. È difficile spiegargli perché dovrebbe seguire gli stessi colori di suo padre invece di tifare per una squadra con più possibilità di alzare un trofeo – e ce ne sono tante, lo so. Quando vedi giocare, per esempio, Manchester City, Psg o Real Madrid sarebbe facile innamorarsi di tutti quei campioni e di quelle vittorie. Sarebbe, sicuramente, una strada meno ardua da scegliere. Ma perché mai dovrebbe avere una vita più rilassata della mia? E allora, di tanto in tanto, cerco di programmare un po’ di Fiorentina nella sua vita. Una maglia comprata per il compleanno, un clip su YouTube dei più bei gol di Batistuta – che non sono pochi – o un poster di Federico Chiesa da mettere sulla parete della sua camera da letto. E, lentamente, sto raccogliendo i frutti di questo lavoro. Durante le nostre vacanze estive siamo andati – tutta la famiglia – al Franchi a vedere una partita amichevole di precampionato con la speranza che possa avere l’effetto desiderato, e ripetere la mia storia più di 30 anni dopo.

Per me, guardare una partita di calcio è un momento sociale. Se vado allo stadio in Scozia sono spesso in compagnia di mio padre, mio suocero, mio cognato, una mia nipote e altre conoscenze. Facciamo festa o brontoliamo insieme alla fine della gara. È un aspetto molto importante delle mie esperienze sportive. Spero di andare spesso a Firenze con mio figlio in futuro per dividere insieme questa passione. E sogno di avere tante telefonate di sofferenza o di gioia intorno ai risultati della Viola negli anni che verranno.

Questa stagione, però, in un giorno di marzo, ha messo alla prova tutti. Ricordo che stavo camminando sotto un cielo scozzese tipicamente grigio quando ho ricevuto una notifica sul cellulare. Aspettavo la formazione ufficiale per la gara con l’Udinese. E invece, e invece. Sappiamo com’è la storia: è morto Davide Astori, il capitano. C’era tristezza, c’era rabbia, ma anche una grande difficoltà a esprimere emozioni. Noi che seguiamo lo sport siamo abituati a vivere una sconfitta come un evento tragico, ma cosa possiamo dire di fronte a una tragedia vera? Non abbiamo più le parole adatte per una situazione del genere. Nessuno si aspettava una domenica così. Non voglio riaverne una.

Ma in un momento così difficile, abbiamo trovato quel senso di unità che mancava a questa squadra, a questa società, a questi tifosi da un po’ di tempo. Di fronte a una situazione drammatica, i vecchi dissidi sono sembrati ridicoli. Forse questo cambiamento di attitudine non durerà a lungo, anzi, quasi sicuramente passerà. Torneremo bischeri come prima ma forse non del tutto, o almeno spero. Qualcosa della storia di Davide Astori dovrebbe rimanere nel cuore di tutti quelli che amano i Viola. Portiamo avanti quell’emozione e cerchiamo di essere un po’ meno cinici e un po’ più generosi nei giorni, mesi e anni che verranno. Sarebbe il giusto tributo al nostro capitano. È il capitolo più recente – e più triste – della mia storia viola. Non so se alla fine mi porterà uno scudetto – sono nato qualche mese dopo l’ultimo – ma so che continuerà. In fondo sono rimasto sempre quel bambino accanto a un campo di calcio di campagna a vedere giocare Antognoni. Seguirò la Fiorentina nello stesso modo per tutta la mia vita: dalla Scozia, con amore.

 

Dal numero 21 di Undici. Foto di Cosimo Piccardi