Breve manuale per rimonte salvezza

Buona sorte, merito, cambi di allenatore: cosa serve per recuperare situazioni apparentemente disperate.

Il campionato è solo agli inizi, eppure, se si osserva la classifica, la forbice fra testa e coda, fra chi viaggia ad alta velocità e chi resta incollato al fondo, ha già iniziato a spalancarsi. Restando sul lato destro, fra i fenomeni più interessanti – e che, bisogna dire, si consegnano più facilmente alla memoria collettiva – da osservare nella bassa classifica spiccano, da sempre, le rimonte salvezza: squadre date per spacciate, al giro di boa senza idee e senza identità, che improvvisamente si svegliano, cambiano volto e risalgono la china, inanellando vittorie grazie alle giocate di uomini in stato di grazia, ma che solo qualche settimana prima erano ritenuti inadeguati, da sostituire. La retorica, neanche a dirlo, va a nozze con questo tipo di narrazione basata su un riscatto impronosticabile, quasi sovrannaturale, e la Serie A più recente, d’altro canto, ci ha regalato diverse imprese di questo genere, spesso consegnate alla storia come veri e propri “miracoli sportivi”.

Ma come si costruisce veramente una rimonta salvezza? Quali sono i fattori a cui appellarsi per uscire dal fondo classifica? Al di là dell’epica del caso, le ultime risalite mostrano tutte aspetti similari, in realtà decisamente “concreti” e meno “miracolosi” e astratti di quanto la leggenda riesca a tramandare.

Il bellissimo gol di Schick; la fondamentale rimonta dei calabresi

Partiamo dalla fine. L’ultima riscossa, in ordine di tempo, è stata quella del Crotone, stagione 2016/17: esordio assoluto degli Squali in Serie A, con una rosa composta quasi esclusivamente da debuttanti e, per di più, priva di Budimir (13 gol l’anno prima, una garanzia) e dell’allenatore Juric, sostituiti rispettivamente dai meno avvenenti Falcinelli e Nicola. Senza esperienza e, almeno apparentemente, senza un tasso tecnico sufficiente per alimentare velleità di salvezza, il girone d’andata era trascorso come una continua dimostrazione di inferiorità, con tanto di chiusura in perdita, a -8 dalla zona salvezza. Eppure, dopo il giro di boa, qualcosa si mosse: con un folgorante 4-1 ai danni dell’Empoli, il Crotone iniziò a mollare l’inesperienza di rito che tanto era costata in precedenza. Il mercato non aveva portato acquisti, no, ma la fiducia in Nicola era intatta e lui, intanto, era riuscito a cucire dei principi di gioco e un’identità intorno ai suoi. Identità che, dopo mesi in chiaroscuro, era pronta a sbocciare, insieme a delle individualità cresciute in fretta: Martella che prese le misure sulla sinistra, Ferrari che divenne una garanzia al centro della difesa e Falcinelli, micidiale finalizzatore – 8 gol nel girone di ritorno, 13 stagionali. Con le vittorie su un’Inter alla deriva, sul Milan e sull’Udinese, i pitagorici invertirono la rotta, misero la freccia e si portarono a ridosso dell’Empoli quart’ultimo, fino al sorpasso dell’ultima giornata.

Al fischio finale, in molti parlarono di miracolo sportivo, e a rileggere quel passaggio fulminante da depressione a esaltazione viene spontaneo chiedersi quale fosse la reale caratura degli Squali di Nicola. La verità – come sempre nelle rimonte salvezza – è sfumata, in evoluzione: un filo di strenua continuità lega il prima e il dopo, la caduta e il riscatto; tutto sta nella società, che deve individuarlo e valorizzarlo. Nel loro caso, a giocare un ruolo chiave fu l’allenatore, a cui i Vrenna continuarono a dare credito anche dopo un avvio sciagurato, per la maturazione di un gruppo lasciato intatto, senza stravolgimenti; l’inesperienza venne – (possiamo dire oggi) giustamente – trattata come un fattore temporaneo, che col tempo sarebbe scomparso. Col senno di poi, non si trattava di una squadra inadeguata, ma di un collettivo che chiedeva soltanto un po’ di pazienza. In ogni caso, questa resta la rimonta più difficile degli ultimi anni, forse l’unica davvero impronosticabile, in quanto figlia della maturazione interna di un gruppo dato per spacciato e che, solo con le sue forze e senza interventi esterni, è riuscito a riprendersi.

La vittoria esterna, inattesa, del Lecce sul campo della Juventus

Altrove, infatti, non sarà sempre così. Il Lecce 2003/04, per esempio, dopo un anno di purgatorio si presentava alla partenza con la rosa più giovane del campionato, patendo la stessa inesperienza dei pitagorici. Alle sicurezze di Tonetto, Stovini e Chevanton, rispondevano infatti i tanti ragazzini voluti da Corvino, tra cui Vucinic, Bojinov, Ledesma, Bovo e Amelia. Il talento – così come il bel gioco targato Delio Rossi – non mancava, ma la squadra si dimostrò troppo ingenua per la Serie A; tuttavia, al contrario di quanto accaduto a Crotone, stavolta la soluzione venne proprio dal mercato, che a gennaio portò in Salento i più esperti Sicignano, Bolaño e Franceschini. Grazie al loro apporto, il rendimento dei giovani ritrovò sicurezza e stabilità – essenziale, in questo senso, l’apporto in cabina di regia di Ledesma durante la seconda parte di stagione -, e la squadra decollò: forti di uno Chevanton implacabile sotto rete, i salentini celebrarono la salvezza con due giornate d’anticipo, vincendo, nel giro di una settimana, contro la Juventus al Delle Alpi e l’Inter al Via del Mare.

Storia simile per il Catania 2009/10, afflitto dalla stessa, iniziale difficoltà espressiva. Era il primo anno in cui la celebre quota argentina era diventata maggioritaria, e i tanti volti nuovi (Andujar, Spolli, Ricchiuti) erano abituati a ritmi più blandi di quelli della Serie A; inoltre, in panchina c’era un Atzori ancora inesperto, con la società che aveva anche glissato sulla sterilità offensiva della squadra. La traduzione di queste strategie spericolate fu una serie di sconfitte rocambolesche, di ingenuità e di errori grossolani, che a dicembre lasciarono il Catania ultimo, solo e spaventato. La fiducia nella rosa allestita, in ogni caso, non venne meno; semmai, bisognava recuperare quella solidità mentale che aveva caratterizzato le annate precedenti.

Ci riuscì Sinisa Mihajlovic, chiamato da Pulvirenti al posto di Atzori e da subito al lavoro sulla testa, prima che sul gioco, dei suoi. Quando i primi segnali di ripresa di una squadra di nuovo cinica e organizzata erano evidenti, sotto l’Etna arrivò anche Maxi Lopez, centravanti ingombrante e tassello decisivo per la capitalizzazione del gioco etneo. Con l’aggiunta di questa nuova bocca da fuoco, il campionato del Catania proseguì di slancio verso una facile salvezza, con tanto di 3-1 inflitto all’Inter del triplete. Ecco: è evidente come ciò non rappresentò nulla di miracoloso, casuale o inverosimile, ma fu il prodotto della lucidità dei dirigenti, della capacità di comprendere limiti e potenzialità di rose solo in parte inadeguate, solo appena inesperte. Zero stravolgimenti, quindi, ma piccoli accorgimenti a innescare gli stessi protagonisti su cui si era scommesso a inizio stagione.

La stagione incredibile del Cagliari 2007/08

Oltre a queste, abbastanza lineari, c’è poi un tesoro di rimonte più romanzesche e complesse, ma comunque prossime alle prime per linee guida generali. È il caso del Cagliari 2007/08, passato alla storia per l’audacia delle scelte di Cellino, che di fronte a una situazione disperata chiamò Jeda – all’epoca solo 11 presenze in Serie A – a portare consistenza in avanti e un giovane Davide Ballardini in panchina, allora puro collezionista di esoneri. Difficile stabilire i calcoli dietro una scommessa del genere, fatto sta che – grazie anche agli innesti sottotraccia di Cossu e Storari – i sardi conquistarono punti verso la salvezza, e gli attori di quel secondo scampolo di stagione divennero pilastri del Cagliari futuro. Epico anche il Parma post-Calciopoli, quello che nel disastro si affidò a un giovanissimo Giuseppe Rossi che – supportato da un allora redivivo Claudio Ranieri – riuscì a riaccendere un gruppo allo sbando, così come il Chievo 2008/09, che consegnò gli uomini della promozione nelle mani di un Di Carlo poco appetibile, ma tremendamente efficace.

Cos’è che ha funzionato, allora, in tutti questi casi? Con una retorica che, come detto, riveste con superficialità di epica da rivalsa e fattori imponderabili tutte queste annate partite male e finite alle stelle, osservando da vicino ci si accorge di come, imprese del genere, abbiano in sé in realtà poco di miracoloso. I tratti somatici sono sempre terreni, e costanti: può esserci una componente di buona sorte, certo, un’aleatoria meritocrazia (il Lecce, come il Catania, erano compagini in debito di punti prima della svolta) che a sciagurati gironi d’andata risponde con ritorni folgoranti, ma il più delle volte si tratta di squadre di conclamato spessore, con talenti che necessitavano soltanto di trovare la collocazione (tattica e mentale) ideale per esprimersi, e quasi mai di meteore durate l’arco di una rimonta. Magari mancava un filo di esperienza, e il passo compiuto in estate era stato più lungo della gamba, o magari l’allenatore scelto non era quello giusto, ma in ogni caso si è trattato di dettagli perfettibili con accorgimenti mirati, mai di inversioni di tendenze indecifrabili o grandi rivoluzioni – queste, semmai, hanno sempre condotto a debacle ancora più clamorose.

È altrettanto inverosimile che una squadra abbia raggiunto, dal nulla assoluto, uno stato di grazia per poi tornarsene, con gli stessi uomini, nel nulla da cui era venuta, facendo leva su forze imperscrutabili o solo sulla voglia di riscatto. Salvo rare, estemporanee eccezioni, infatti, le rimonte salvezza degli ultimi anni si sono sempre inserite in progetti a lungo termine, ricchi di soddisfazioni e spesso segnati dagli stessi volti della stagione del “miracolo”. Perché nulla toglierà mai il fascino di un’ impresa inaspettata, portata a compimento contro ogni statistica; ma spesso, nel caso delle ultime rimonte salvezza, si è trattato di traguardi meritati dal principio, di rose assolutamente all’altezza che richiedevano soltanto di un po’ di tempo per carburare. Il resto sono scampoli di spettacolo, per cui comunque è bene ringraziare, sempre.