Quando i Beatles fecero diventare Nike un brand globale

Fu merito di uno spot del 1987 con "Revolution" come colonna sonora.

C’è un brand che più di ogni altro – sportivo o meno – ha puntato fortissimo, spesso con fortuna, sull’advertising video: Nike. L’azienda di Beaverton si legò all’agenzia Wieden+Kennedy all’inizio degli anni Ottanta, dando inizio a una collaborazione che dura ancora oggi e che, per prima cosa, ha prodotto quello che è forse lo slogan più famoso del mondo della moda: Just Do It. I primi tre spot video risalgono al 1982, e vennero trasmessi in televisione durante la maratona di New York.

Più di dieci anni prima – nel 1968, per la precisione – i Beatles pubblicarono il singolo “Hey Jude”, il cui lato B conteneva una canzone chiamata “Revolution”. Era una delle canzoni più “rock” che la band avesse mai registrato, anche se era nata in modo del tutto diverso: doveva essere, nella volontà di John Lennon, una lenta ballata acustica. Quella versione originale, che gli altri componenti valutarono troppo poco appetibile per un singolo, apparve mesi dopo nel White Album. “Revolution” fu una delle canzoni più criticate dei Beatles: come scrive Quartz, venne attaccata dalla sinistra più radicale che la accusò di essere un pezzo borghese e antirivoluzionario. La New Left Review la chiamò «un meschino grido di paura della borghesia», mentre un altro giornale rivoluzionario, il Black Dwarf, la descrisse come «non più rivoluzionaria di Mrs Dale’s Diary», un dramma radiofonico della Bbc nato nella seconda metà degli anni Quaranta. I Beatles si sciolsero nel 1970, e dieci anni dopo, nel 1980, Lennon venne assassinato a New York.

Sette anni dopo, Wieden+Kennedy rispolverò la canzone, scegliendola per una pubblicità Nike che avrebbe segnato profondamente la storia del brand. Chiesero il permesso a Yoko Ono, che lo accordò, e “Revolution” divenne la colonna sonora di uno spot dal costo complessivo di circa 7 milioni di dollari. Il video mostra, riprese in varie inquadrature, diverse scene di sport (basket, tennis, ciclismo, jogging, e così via) praticati da atleti professionisti o semplici amatori, anche bambini. Il tutto in bianco e nero. Lo spot è divertente e avvincente insieme, e ottenne un enorme successo: nei successivi due anni, le vendite di Nike raddoppiarono, e già nel 1991 l’azienda deteneva il 29 per cento del mercato delle scarpe sportive.

Tuttavia, il successo attirò altre critiche. Il New Republic scrisse che «la canzone aveva un significato che Nike ha distrutto», ribaltando così i giudizi negativi degli anni Sessanta sul singolo. Ma fu ben più grave la causa che Apple, l’etichetta dei Beatles, intentò a Nike, chiedendo 15 milioni di dollari. La campagna cessò di essere trasmessa nel 1988, ma quella causa attirò su Nike un’attenzione mai vista prima: in breve, il brand diventò un bersaglio immobile e facilissimo. Dalla fine degli anni Ottanta per tutti gli anni Novanta, la compagnia fu oggetto di innumerevoli campagne contro il lavoro minorile, che misero però contemporaneamente il suo brand sotto una perenne luce di riflettore. Le campagne, grazie ai cambi “di politica” di Nike, si affievolirono e cessarono soltanto alla fine del decennio. Ma tutto quel trambusto, ha scritto il docente di marketing della Royal Holloway University of London, Alan Bradshaw, «ha contribuito a normalizzare l’uso quotidiano delle scarpe da ginnastica», non più relegate al mondo dello sport ma alla vita di ogni giorno, in strada o sul posto di lavoro. Il fatto che oggi così tanti di noi indossano quelle che chiamiamo ormai sneakers soltanto perché John Lennon decise, nel 1968, di scrivere una canzone che trattasse dei temi politici del momento, dice Bradshaw, «ci ricorda che quando cultura e politica si incontrano nel mondo dell’advertising, i risultati possono essere davvero inimmaginabili».