Le incertezze del Var

Perché, rispetto alla scorsa stagione, lo strumento tecnologico sta incontrando così tante difficoltà.

Nel corso degli ultimi quindici mesi l’Italia del calcio ha recitato un ruolo centrale nell’evoluzione delle presenti e future prospettive arbitrali. Come è noto, infatti, quella azzurra è stata una delle prime federazioni a promuovere la diffusione del Var in Europa, aderendo al progetto dell’Ifab (International Football Association Board: da qui sono tenute a passare tutte le riforme legate al regolamento) a partire dalla prima fase sperimentale. In Italia le risposte sono state digerite con fatica dal pubblico durante le prime settimane di campionato – le pause erano troppo prolungate, si diceva – ma con il passare dei mesi è stato convenuto tacitamente che qualche secondo di pazienza in più poteva valere una decisione corretta. Poi è arrivato il Mondiale, e poco prima, a marzo, anche una parziale revisione del protocollo da parte dell’Ifab. È principalmente da questa svolta che ha avuto origine il flusso di polemiche che ha accompagnato questo primo mese e mezzo di Serie A.

Quando l’Ifab e le federazioni partecipanti si sono lanciate nel programma – correva il 2016 – è stato deciso di avvalersi, per l’analisi dei dati, del contributo della KU Leuven, una università belga. Il frutto del lavoro degli analisti è stato questo report, reso fruibile a gennaio, dove si mettevano in evidenza gli ottimi risultati raggiunti dal Var nei primi mesi di applicazione tra Serie A, Bundesliga e Primeira Liga – gli unici tre campionati europei ad aver adottato la tecnologia ausiliare già durante la scorsa stagione. Nelle 804 gare ufficiali oggetto di studio la KU Leuven calcolava che la percentuale di decisioni corrette fosse compresa tra il 93% di una prima fase sperimentale e il 99% della seconda. Il punto della situazione lo ha fatto naturalmente anche la Figc, limitandosi a sottolineare i risultati positivi ottenuti in Italia. Dove la percentuale di errori è scesa ancora di più, sotto l’1%, a fianco di cali sistematici anche in termini di sanzioni disciplinari, proteste, simulazioni e comportamenti antisportivi. Un solido passo in avanti verso correttezza e trasparenza.

Insomma, alla fine della scorsa stagione il rendimento del Var era stato generalmente molto efficiente. In Europa, eccezion fatta per lo scetticismo del Presidente della Uefa Ceferin e per il conservatorismo inglese (nonostante per paradosso i vertici dell’Ifab siano britannici), il Var ha dato una impressione positiva, tanto che da quest’anno è stato adottato in modalità full season da altre sei federazioni: belga, francese, olandese, polacca, spagnola e turca. Anche in Italia, come si diceva, dalle critiche iniziali si è giunti al compromesso in tempi tutto sommato brevi. Eppure da agosto ad oggi il terreno è stato scosso, e in modo significativo: se la fame di arbitraggi, complotti e ingiustizie si era placata, per risvegliarla è stato sufficiente sforare di qualche punto percentuale quel 99% con qualche errore di troppo.

Il tornado pubblico che si è aperto con le sviste più evidenti (il gol di Berenguer, quella di Manganiello in Bologna-Udinese e il mani di Dimarco contro l’Inter) e i presunti tali (il non-rigore su Ilicic in Spal-Atalanta, o il caso Chiesa) ha preteso spiegazioni, e le spiegazioni sono arrivate non sempre in maniera chiara da più direzioni, sia istituzionali che mediatiche. Il tema principale nel dibattito pubblico resta in ogni caso una parola ormai d’uso comune: il protocollo. Si tratta di nient’altro che del regolamento cui fanno riferimento gli arbitri nella gestione del Var, e una tesi molto in voga riscontra proprio nel protocollo la causa fondativa delle problematiche legate alla tecnologia. Si dice che un anno fa funzionava, che in estate è stato cambiato e che per questo sono emerse le criticità.

Stando a quanto si legge sul sito ufficiale dell’Ifab, in realtà, non si rinviene alcun cambiamento radicale nelle modalità operative dello strumento. La differenza tra la scorsa stagione e quella in corso (che per alcuni è indifferente e per altri decisiva: questa la linea di frattura) è rappresentata da una parola – obvious – che lo scorso marzo è andata a rinforzare il principio cardine dell’applicazione del Var. Se per la versione sperimentale nel documento dell’Ifab stava scritto: «La video-tecnologia sarà usata soltanto per correggere chiari errori e serie sviste», con quello entrato in vigore a partire dallo scorso 3 marzo il requisito degli errori è passato da «clear» a «clear and obvious», mentre il secondo è rimasto inalterato. Dopo un mese bollente è intervenuto Nicola Rizzoli per chiarire alcune questioni. Era il 23 dello scorso mese e dagli studi de “La Domenica Sportiva” diceva: «Ho sentito parlare troppo spesso di protocollo che è cambiato e che quindi è stata limitata la possibilità dell’arbitro di intervenire. Non è assolutamente vero: il protocollo non è cambiato per nulla se non per il fatto che è stato aggiunto un termine, obvious, che vuol dire solo eliminare quelle situazioni controverse e andare più su un concetto di uniformità di intervento. Questo è il motivo per cui è stato aggiunto: per avere più uniformità di intervento ed eliminare le situazioni più trascurabili».

In una mail di risposta a Undici il Segretario dell’Ifab Lukas Brud ha ribadito che la modifica «è stata introdotta per chiarire meglio in quali situazioni il Var dovrebbe o non dovrebbe essere coinvolto, e quindi per ridurre il numero degli interventi non necessari». La decisione del Board di insistere sul principio della chiarezza, rinforzandolo, è da intendersi pertanto come la volontà di rendere inappellabili le decisioni assunte tramite l’ausilio del Var, a costo di ridurne la portata. Tornando a Rizzoli, il suo intervento proseguiva con una statistica che metteva a confronto le ultime gare della stagione 2017/18 con le prime della 2018/19 in termini di silent checks, correzioni e on field reviews, e dimostrava come in realtà, numeri alla mano, il rendimento del Var sia stato pressoché identico tanto in qualità quanto in quantità. Al netto – specificava il designatore – di un paio di errori commessi sotto gli occhi di tutti. Non tutti gli esperti tuttavia concordano con questa lettura. L’ex arbitro Luca Marelli, uno dei critici più autorevoli, ha commentato così in una telefonata: «Stimo molto Rizzoli ma il paragone non esiste. Non tiene conto del fatto che delle ultime cinquanta partite ce ne sono venti che non contano nulla, non ha senso mettere a confronto una fase finale di stagione con una iniziale; il paragone avrebbe dovuto riguardare semmai le prime cinque di ciascun inizio di campionato».

Rizzoli non è l’unica autorità ad aver preso fermamente le difese del Var in queste settimane burrascose. Il Presidente dell’Aia Marcello Nicchi, ad esempio, ne ha parlato ad inizio mese: «Il protocollo è quello approvato l’anno scorso, non è cambiato nulla. Gli arbitri lo stanno applicando al meglio. Ogni tanto qualcuno, sorprendentemente, non si avvale del Var e di questo si occuperà Rizzoli. È uno strumento che va utilizzato al massimo, perché così le discussioni vanno al minimo». Nicchi segue il sentiero di Rizzoli e pone la sottolineatura sulle condotte dei singoli fischietti, i comuni errori individuali, minimizzando l’impatto della modifica fino a negarla. È questo un punto cruciale, sostiene Marelli: «È normale che serva un periodo di rodaggio, non è un problema. Quello che mi dà fastidio è il fatto che ci vengono a raccontare che non è cambiato nulla, perché non siamo stupidi, ce ne siamo accorti». In effetti, la conseguenza logica della modifica è un ridimensionamento del ruolo del Var nella gara. La riflessione è piuttosto elementare: se oggi gli errori che giustificano l’intervento del Var sono quelli «clear and obvious», e non più solo quelli «clear», allora questi errori saranno inferiori in quantità così come lo saranno, di conseguenza, anche gli interventi stessi. Stando ai dati di Rizzoli questo ridimensionamento non c’è stato, però dando uno sguardo alle singole gare è evidente che le decisioni al limite che hanno generato le polemiche più ridondanti hanno riguardato quasi soltanto situazioni in cui, un anno fa, il Var sarebbe intervenuto. In quest’ottica sarà di grande utilità il primo report statistico della stagione in corso.

Senza dubbio serve chiedersi perché si sia deciso di ritoccare uno strumento accettato e soprattutto efficace. Una spiegazione plausibile alla modifica possiamo trovarla nel concept di questo strumento, che, va tenuto sempre presente, è attivo tra i campionati di mezza Europa e quindi nella sua evoluzione non tiene conto più di tanto delle singole esigenze nazionali. Nella sezione del sito che l’Ifab dedica ai principi del Var il primo punto recita come segue: «Lo scopo non è raggiungere il 100% di precisione per tutte le decisioni, dal momento che questo distruggerebbe la scorrevolezza e le emozioni del calcio». E pure ognuna delle voci seguenti è volta a legittimare la superiorità del parere arbitrale nell’ambito della decisione. Brud ha sottolineato questo aspetto: «Fin dall’inizio ci è stata chiara una cosa: il Var non avrebbe portato alla perfezione, dal momento che il suo utilizzo coinvolge degli esseri umani». Non è certo una novità, ma ricordarlo oggi può essere utile per rinfrescare la memoria a quanti avessero dimenticato che per l’Ifab, come per l’Aia, il protagonista dell’attività arbitrale resta sempre e comunque l’arbitro in campo. La filosofia – si legge – è questa: minima interferenza, massimo beneficio. In un post sul suo blog, analizzando l’impatto della modifica sui direttori di gara, Marelli ha scritto: «Gli arbitri si sono trovati a dover utilizzare lo strumento in modo diverso dall’anno scorso perché i signori dell’Ifab hanno deciso che l’esperimento italiano fosse andato oltre i limiti che avevano immaginato».

A contribuire al ritorno di fiamma della polemica arbitrale può aver concorso anche un altro aspetto: l’abitudine appunto. Una stagione, la scorsa, dove gli errori sono stati rari e il più delle volte marginali, ha alzato le aspettative degli spettatori abbassando al contempo la soglia di tolleranza nei confronti delle sviste. Il pensiero dei più è nel migliore dei casi questo: se abbiamo il Var, si verifica un episodio dubbio e l’arbitro sceglie di non revisionarlo, che cosa dobbiamo pensare noi penalizzati? O ancora: se abbiamo il Var e gli arbitri sbagliano ad applicare la procedura, che si fa? È un discorso che già durante lo scorso anno si era sentito in qualche occasione (la parola chiave era già allora «interpretazione»), ma che è tornato con prepotenza alla ribalta in questo avvio di campionato. Nicchi ha alzato la voce per contrastare le critiche: «Bisogna smettere di lamentarsi. Il Var funziona e tutti lo riconoscono, se poi ogni volta che accade un episodio si vuole smontare tutto, siamo fuori dal mondo. È uno strumento che tutti ci invidiano, tutti vengono a studiare la sua applicazione in Italia. Se si pontifica su un episodio allora non è cambiato niente e mi chiedo cosa l’abbiamo messa a fare. Se in una partita su cinquanta decisioni se ne sbagliano due fa parte della normalità». Questa di Nicchi è la posizione ufficiale dell’Aia in merito alla questione.

Di certo non stupisce che le istituzioni difendano il Var, in fondo si tratta di (anche) una loro eccellenza. Nonostante le criticità del sistema oggi l’Italia del calcio è uno dei Paesi che ne trainano la diffusione, e questo è un aspetto positivo che non deve essere sottovalutato. Poi ci sono altre considerazioni da fare. Il rinforzo del protocollo da parte dell’Ifab sin qui non è stato d’aiuto, e non è da escludere che possa aver creato confusione negli arbitri che adesso si trovano in una posizione controversa: sono più esposti alla critica se non si avvalgono abbastanza del Var, ma rischiano di infrangere protocollo e uniformità se se ne servono troppo. Marelli ha scritto che la nuova dizione del protocollo sta «distruggendo uno strumento che fino alla scorsa stagione ha funzionato quasi perfettamente», e anche la stampa tende ad assumere toni critici (qui e qui, ad esempio). Le posizioni delle istituzioni si sintetizzano, invece, nel sostenere come l’obvious in più non possa essere sovraccaricato di un significato così gravoso. In ottica futura servirà trovare un naturale equilibrio da parte degli arbitri, e serviranno maggiore comprensività e per quanto possibile imparzialità da parte di chi li giudica. Toccare la perfezione è impossibile e non necessario, tendervi deve essere l’ambizione. Per l’intero sistema.