L’identità calcistica come brand

Come fanno oggi i club di fascia medio-alta a ridurre il gap finanziario? Con le scelte di campo e con la costruzione di un’identità di gioco.

Per 22 anni e altrettante edizioni della Premier League, i tifosi dell’Arsenal hanno celebrato il St. Totteringham’s Day, il giorno in cui i Gunners raggiungevano la certezza matematica di terminare il campionato davanti ai rivali storici del Tottenham. Il sortilegio è stato interrotto nella primavera del 2017, nell’ultimo North London Derby giocato a White Hart Lane. Un evento potenzialmente storico per gli Spurs, solo che il manager Mauricio Pochettino ha presentato la partita minimizzando i significati dell’antagonismo locale, concentrandosi su altri aspetti del proprio ruolo: «Io non sono qui per badare ai risultati dell’Arsenal, la nostra ambizione è vincere sempre, contro tutti gli avversari. Per riuscirci, abbiamo una sola possibilità: dobbiamo lavorare per migliorare i nostri giocatori». È la descrizione del percorso di crescita seguito dal Tottenham, di un modello che parte dallo sviluppo tecnico-tattico dell’organico e si concretizza in un calcio proattivo, riconoscibile, senza deviazioni e compromessi. Per il Tottenham, questo tipo di gioco rappresenta la cifra stilistica del club, ma è soprattutto la sovrastruttura di riferimento per tutte le scelte strategiche della società, dal mercato fino alle politiche per l’Academy.

In un’intervista rilasciata al magazine spagnolo Panenka, ripresa anche sul numero 16 di Undici, Pochettino ha spiegato i presupposti teorici del suo lavoro: «Quando sei in una condizione di inferiorità economica, c’è bisogno di pazienza, creatività, sacrificio. È fondamentale definire una propria identità, e rispettarla nel tempo». Ecco, identità e tempo sono i concetti chiave: nel calcio stratificato e geolocalizzato degli anni Duemiladieci, le società con ricavi strutturali medio-alti hanno bisogno di costruire una propria operatività a lungo termine, è l’unica possibilità per provare ad accedere al livello superiore, per ridurre il gap con i club più ricchi. Il Tottenham è riuscito in questo progetto, oggi è una squadra che viene percepita e raccontata in maniera diversa, ed è un discorso di risultati tangibili come di influenza sul contesto: l’approccio tattico di Pochettino ha portato gli Spurs al tabellone principale di Champions League per tre edizioni consecutive, e oggi rappresenta un benchmark di estetica ed efficacia, tanto che ha dato impulso alla transizione della Premier League – e dell’intero movimento inglese – verso la contemporaneità del calcio sistemico. La crescita sportiva è coincisa con quella economica, la società sta ultimando la costruzione di un nuovo stadio da 62mila posti e ha chiuso l’ultimo esercizio finanziario con un fatturato da 350 milioni di euro, quando il bilancio della stagione precedente all’arrivo di Pochettino (2013/14) faceva segnare ricavi per 203 milioni. Negli ultimi cinque anni, il valore della rosa è passato da 296 a 834 milioni di euro secondo i dati di Transfermarkt. A novembre del 2017, il Times ha pubblicato un pezzo dal titolo suggestivo, “Tottenham Hotspur can become a bigger club than Arsenal”: alla luce dei numeri e delle proiezioni, si tratta di una prospettiva assolutamente realistica.

Esattamente come gli Spurs, anche l’Atlético Madrid ha costruito la sua legacy moderna partendo da un’idea di calcio consolidata negli anni, cristallizzata intorno alla figura di un allenatore totalizzante, di grande impatto tecnico e narrativo. Non a caso, gli strumenti retorici utilizzati da Simeone sono del tutto simili a quelli di Pochettino: in un’intervista rilasciata nel 2015 a Goal.com, il tecnico argentino spiegava come la forza dell’Atlético fosse da ricercare nella «volontà di riconoscersi in un’ideologia, in un’identità di gioco che resiste ai cambiamenti. La nostra solidità ci ha permesso di raggiungere grandi risultati, di migliorare i conti, di aumentare il nostro appeal sul mercato. In questo modo, siamo arrivati ad acquistare grandi attaccanti come Diego Costa, Mandzukic, Griezmann, Torres». È il percorso di sviluppo del Tottenham declinato secondo un approccio difensivo, è un manifesto tattico che è diventato filosofia e ha determinato il progetto del club, cambiando la prospettiva di una generazione di giocatori e tifosi. L’Atlético Madrid è diventato grande in un contesto di estrema convergenza di simboli e contenuti, come ha scritto anche il New York Times: «Diego Simeone ha la mascella squadrata e lo sguardo spiritato, inoltre indossa sempre abiti neri. Tutte cose che lo rendono affine a uno stile di gioco duro, combattivo, feroce. Uno dei calciatori più rappresentativi della sua rosa, Diego Godín, ha spiegato come le scelte e i comportamenti dell’allenatore abbiano convinto l’ambiente colchonero che le idee possono colmare il gap strutturale con le società più ricche. È una strategia che funziona, basta guardare i risultati raggiunti negli ultimi anni».

Anche gli investitori sembrano credere nel brand Atlético, il club è in forte crescita dal punto di vista economico, occupa il 13esimo posto nella Deloitte Football Money League 2018 (fatturato di 272 milioni di euro) quando appena cinque anni fa era alla posizione numero ventitré (ricavi per 107 milioni); il gruppo cinese Wanda ha acquistato e poi ceduto una quota della società (15%) per cifre vicine ai 50 milioni di euro, e continua a versare 10 milioni l’anno per i naming rights del nuovo stadio di San Blas-Canillejas, quartiere della zona orientale di Madrid. La costruzione dell’impianto ha aumentato il debito netto a bilancio, ma allo stesso tempo permette all’Atlético di pianificare il futuro con garanzie finanziarie solide, tali da rendere possibili investimenti di grande impatto, per esempio il rinnovo di Griezmann e l’acquisto di Lemar. L’attaccante francese, qualche settimana fa, ha firmato il quinto nuovo contratto in cinque anni a Madrid, accettando una proposta di ingaggio che dovrebbe essere vicina alla quota di 20 milioni a stagione; pochi giorni dopo, il club colchonero ha ufficializzato l’arrivo dell’esterno del Monaco per 70 milioni di euro. Si tratta dell’operazione più costosa nella storia dell’Atlético, un primato battuto per la seconda volta in sei mesi dopo i 66 milioni investiti a gennaio 2018 per il ritorno di Diego Costa.

La strategia di Tottenham e Atlético tende a ridurre la componente episodica dei risultati attraverso la conservazione di un’identità di gioco, ma resta anti-economica per definizione, soprattutto in un’era caratterizzata da grandi differenze di risorse tra i club, per cui la competitività sportiva è solo un riflesso, anzi una conseguenza, di quella finanziaria. È un modello inverso che parte dal campo, di cui esistono anche versioni più rischiose, per esempio quelle legate al calciomercato puro, alla valorizzazione dei calciatori come asset senza un riferimento tattico permanente, o quantomeno continuo nel tempo. Uno degli esempi più validi è rappresentato dal Borussia Dortmund: il club tedesco ha vissuto un’era di avanguardia con Jürgen Klopp – artefice di un progetto di calcio e ideologia molto vicino a quello di Simeone e Pochettino – e poi ha avviato un vero e proprio esperimento di eugenetica del talento, fondato su acquisti giovani e sostenibili e su cessioni per cifre elevatissime. Nel mezzo di questo percorso circolare, lo sviluppo dei giocatori avviene secondo una filiera efficiente, che gli permette di fare esperienza sui migliori palcoscenici internazionali, di perfezionarsi in un centro sportivo avveniristico, a contatto con un ambiente caldo, innamorato del football. Un sistema progressivo e perfetto per la crescita organica della squadra e della società – anzi, il Guardian ha scritto che il modello-Borussia funziona «anche troppo bene», perché il passaggio di Dembélé al Barcellona si è concretizzato prima del previsto – che ha portato a totalizzare ricavi per 311 milioni di euro nel primo semestre dell’ultima stagione. Nel momento in cui scriviamo, la rosa del Dortmund ha un’età media di 24,5 anni ed è stata affidata a Lucien Favre, quarto tecnico nelle ultime quattro stagioni. Sono due dati significativi, spiegano come la politica del Borussia sia ormai consolidata, radicata, praticamente autonoma rispetto alla figura dell’allenatore.

Il neocalcio oltre i top club vive su modelli di sviluppo omologhi eppure differenziati, la strategia del player trading improntata sui giovani e/o la ricerca della competitività attraverso l’identità di gioco ha portato molte società a migliorare i risultati, sul campo e nei bilanci. In Francia, il Monaco ha vinto un titolo nazionale e ha raggiunto per due volte la semifinale di Champions League, lanciando e valorizzando calciatori come Bernardo Silva, Mbappé, Fabinho, Lemar, Mendy; in Italia, il Napoli ha toccato i 300 milioni di fatturato, e ha una rosa così ricca di qualità da convincere Carlo Ancelotti a tornare in Serie A dopo dieci anni ricchi di successi all’estero; anche la Roma ha raggiunto la semifinale di Champions dopo le prime due sessioni di mercato gestite da Monchi: il diesse spagnolo ha dovuto vendere per acquistare, in modo da rispettare i parametri del Fair Play Finanziario, e oggi è vicino al pareggio di bilancio. Per tutte queste realtà in crescita, l’elemento comune è la partecipazione non episodica alla Champions League: accedere al tabellone principale della manifestazione più ricca è una condizione assolutamente necessaria per mantenere un certo livello di ricavi, basti pensare che proprio Napoli e Roma hanno accusato un calo del fatturato pari al 40 per cento e al 20 per cento – al lordo delle plusvalenze – nelle annate in cui hanno fallito la qualificazione.

I dati e le percezioni definiscono chiaramente la realtà: i club della media borghesia europea riescono spesso a ideare e attuare un proprio progetto di upgrade, la vera difficoltà è consolidare e rinnovare nel tempo certi percorsi, riducendo i contraccolpi dei risultati negativi e del mercato, e alzando l’asticella degli investimenti in parallelo con l’aumento degli introiti strutturali. Quest’ultimo punto strategico fa davvero la differenza, perché i budget più elevati si fondano su grandi ricavi, quindi su solide basi finanziarie. Il campo può essere il primo step di questa arrampicata verso l’alto, ma occorre centrare i primi obiettivi e poi andare oltre, integrare nuove fonti e forme di guadagno. Il Tottenham e l’Atlético Madrid rappresentano un esempio virtuoso, hanno trovato una stabilità ai massimi livelli dopo aver letteralmente costruito un’identità tattica, gestionale, finanche narrativa. E oggi giocano alla pari contro avversari teoricamente irraggiungibili. Hanno scelto una strada lunga, complessa, per avvicinarsi ai club più ricchi. Servono solo pazienza, creatività, sacrificio.

 

 

Tratto da Undici numero 23