Tre cose sull’undicesima giornata di Serie A

Il carattere del Milan, l'Inter che vince anche se cambia e un Mertens di nuovo goleador.

Il Milan ha scoperto di avere carattere

La vittoria del Milan in trasferta contro l’Udinese è di quelle che al bar si commentano con una frase del tipo “quando si vincono partite così, è un segno”. Dal punto di vista del carattere, è una frase più veritiera di quello che potrebbe sembrare. Per la prima volta in stagione il Milan non ha subito gol, e ha retto a un’Udinese che nel primo tempo, in fase offensiva, è stata nettamente la miglior squadra in campo. Nonostante uno Zapata non perfetto, una marcatura troppo larga di Romagnoli che poteva costare caro (girata di Lasagna appena larga sul primo palo), il centrocampo “improvvisato” ha funzionato bene – Bakayoko cresce di partita in partita, Gattuso lo aveva detto, ma i pregiudizi sono duri da far cadere – sia in interdizione che in spinta. Se mancava un’intesa basata sull’esperienza – Castillejo, Suso, Cutrone, Laxalt non sono propriamente i protagonisti di uno schema “base”, ma gli infortuni a questo hanno costretto l’allenatore – si è visto quello che il Milan non aveva fatto vedere per anni prima di Gattuso: la voglia di vincere. Anche in modo ordinato, ovvero senza troppa foga, ma mantenendo la lucidità. Soprattutto negli ultimi venti minuti di gioco i rossoneri hanno tirato verso la porta friulana per ben 6 volte – due con Castillejo, due con Suso, una volta con Bakayoko e, beh, Romagnoli – occupando la metà trequarti dell’Udinese costantemente: quasi 70 passaggi in quella zona del campo, soltanto 20 per i bianconeri schiacciati. Forse addirittura qualcuno di troppo, avranno pensato in molti guardando i ripetuti scampi Suso-Romagnoli prima della conclusione del capitano. Ma è andata bene. Sono segni anche questi, dicono.

Il gol in extremis di Romagnoli

Le rotazioni dell’Inter funzionano

Una doppietta la segna il reietto della Champions Gagliardini, un altro gol arriva dal redivivo Joao Mario. E ancora: la fascia sinistra è presidio di Dalbert, davanti non c’è Icardi ma l’ancora grezzo Lautaro Martínez. L’Inter contro il Genoa dà spazio alle “seconde linee” e vince, anzi stravince: 5-0. Però nessun allenatore è contento di riferirsi ad alcuni dei suoi giocatori come “seconde linee” o “riserve”: vorrebbe dire che sono meno bravi di chi va regolarmente in campo dall’inizio. Se la Juventus tiene in panchina Douglas Costa, allora vuol dire che vale meno di Bernardeschi o Dybala? Concetto discutibile. Ma quella è la forza su cui hanno poggiato i bianconeri per anni, soprattutto in Italia, mentre la concorrenza spremeva un gruppo di 13-14 giocatori o pativa terribilmente l’assenza di due-tre giocatori chiave. All’Inter dell’ultima recita, che lascia in panchina Icardi, Asamoah, Vecino, Miranda, Vrsaljko e concede minuti irrilevanti a Nainggolan (che, per inciso, trova comunque il modo di segnare), il cambio di guardia non fa nessun effetto – si possono segnare cinque reti anche senza il miglior marcatore della squadra da quattro anni filati, per esempio. Anzi, l’Inter spallettiana in questa stagione è andata a segno già con dodici uomini diversi – non esiste un’Icardi-dipendenza, esiste semmai un giocatore più decisivo di altri, come succede in ogni angolo di mondo. E poi c’è una difesa contro cui a volte sembra impossibile persino avventurarsi, in area di rigore – due gol subiti nelle ultime sette gare vittoriose di A. Sembra che l’Inter stia finalmente rifuggendo dalla narrativa stonata degli acquisti sbagliati o delle occasioni mancate. Tutti al centro del progetto, perché solo così si resta in alto.

Joao Mario segna il 4-0: da emarginato a titolare per due partite di fila

Anno nuovo, vecchio Mertens

I dubbi legati all’arrivo di Ancelotti al Napoli non riguardavano – e ci mancherebbe – le qualità manageriali del tecnico emiliano, quanto i destini calcistici di alcune delle “invenzioni” di Sarri: Mertens continuerà a segnare più di venti gol a stagione? Callejón è utile se tolto dal tridente offensivo? E Zielinski, e Insigne? Abbiamo poi scoperto, e pure in fretta, che Ancelotti, pur rimodulando il Napoli raccolto in eredità, ha preservato la forza dei suoi interpreti: così oggi Insigne è un trequartista-attaccante, un ibrido dallo smisurato potenziale offensivo, Callejón ha cambiato prerogative rispetto allo scorso anno ma mai come ora è vitale nell’equilibrio di squadra, e così via. E Mertens? Il belga che Sarri ha reinventato centravanti, risolvendo il rebus del dopo Higuaín, era il maggior indiziato a patire le difficoltà del cambio allenatore. Con un attacco a due, nel quale uno dei due è Insigne, per caratteristiche e completamento Milik sulla carta si faceva preferire a Mertens – e infatti spesso è andata così. Ma l’ex Psv ha saputo ancora una volta conquistarsi il proprio spazio, e anche nella nuova collocazione tattica – dividendosi l’attacco con Insigne, preferendo partire dal centro-destra mentre il partner d’attacco arriva dalla parte opposta – il suo rendimento realizzativo è altissimo. Sette gol in campionato – tre nell’ultima abbuffata contro l’Empoli – più uno, quello contro il Psg, che ha illuso il Napoli al Parco dei Principi ben oltre il novantesimo. In una vera e propria escalation: un gol nelle prime sei uscite, sette nelle successive sette. Vuol dire che, anche con Mertens, Ancelotti ha trovato la ricetta perfetta.

Parabola imprendibile per il gol del provvisorio 3-1