Il romanzo di Fernando Alonso

È stato il più giovane a vincere tutto, e alla stessa velocità ha perso tutto. Colpa di errori, colpi di scena, un carattere tanto difficile quanto affascinante.

Fernando Alonso non è un pilota. È un episodio pilota. Appena andato in onda ha subito conquistato il pubblico. Nel bene come nel male. Fernando è un telefilm, una serie, una fiction di successo nonostante i molti insuccessi. Ogni sua avventura sportiva porta con sé un corollario di imprevedibilità che va oltre i canoni del motorismo e dell’agonismo. Sorprende, intenerisce, infastidisce, incollando milioni di appassionati davanti allo schermo delle sue avventure. Fernando è il personaggio che si può amare e odiare ma che ci deve essere se la sceneggiatura è ben scritta. Non può essere raccontato come fosse un libro perché del libro non ha il ritmo narrativo né le derive moralistiche né, forse, la profondità. È però completo e leggero come devono essere i personaggi a cui il pubblico si affeziona senza fatica. E poi un libro non sarebbe mai in grado di contenerlo tutto. Perché lui è troppo, è sempre stato troppo. Troppo giovane, troppo forte, troppo politico, troppo ingombrante, troppo corteggiato, troppo incompreso, troppo misterioso. Sarebbe potuto essere uno splendido feuilleton, Fernando. Questo sì. Un Conte di Montecristo da narrare a puntate e da trasformare solo dopo in un libro. A pubblicazioni concluse. A carriera terminata.

Alonso è un episodio pilota di una serie di successo e un Edmond Dantès delle corse sedotto e tradito da ciò che amava e per questo costretto a guidare da dio in giro per il mondo, covando vendetta. Che poi nello sport si chiama rivincita. Fernando il più giovane a partire in prima fila, il più giovane a centrare una pole, il più giovane a vincere un Gran premio, il più giovane a diventare campione del mondo e il più giovane a riuscirci due volte, per di più di fila, 2005 e 2006, come solo ai grandi e predestinati riesce; solo che dopo… dopo praticamente più nulla. Sedotto e tradito dalle corse. Dodici anni da comprimario talentuoso e di peso in un feuilleton originariamente scritto per lui ma poi interpretato da altri; o special guest in una serie televisiva con protagonisti diversi e spesso non affascinanti quanto lo spagnolo. Lui non troppo poco per essere solo comparsa e non abbastanza per recitare da star. Lui che dopo un avvio di carriera meraviglioso si è ritrovato ad assistere, quasi impotente, alle esibizioni altrui. Il Mondiale conquistato da Raikkonen ferrarista, un campionato che da solo meriterebbe capitoli interi tanto la vittoria del finnico vide Alonso colpevole protagonista. I quattro titoli di Hamilton. Il Mondiale una tantum di Jenson Button. I quattro in fila di Vettel. Infine, la vittoria mordi e fuggi di Rosberg.

Come quella del Conte di Montecristo, la storia sportiva di Fernando è stata condizionata da una MercedesPer questo sono anni che Alonso-Dantès cova vendetta. La Ferrari, per esempio. Quello che per ogni pilota è il sogno da realizzare e il coronamento di una vita a trecento all’ora, per lui è stato soprattutto lo strumento per tentare di portare a termine la propria vendetta-rivincita. La Rossa di Alonso come l’improvvisa ricchezza di Dantès: un mezzo per raggiungere uno scopo più alto. Però niente da fare, ricchezza sprecata. Non ce l’ha fatta Fernando. Peggio. I cinque anni spesi in Ferrari si sono conclusi con il misero bottino di tre titoli di vice campione del mondo aggravati dalla beffa di perderne un paio all’ultima gara, etichettandolo per sempre come dannato e ingombrante. Che talento, che pilota, che carattere e che macigno averlo però tra i piedi, si dice e pensa adesso. Nessun top team l’ha più veramente cercato. Nell’autunno del 2014, la Rossa gli indicò persino la porta, perché adesso basta, arrivederci e grazie. La Red Bull neppure lo prese in considerazione, nonostante l’anno prima, in Ungheria, avesse parlato della monoposto energetica come del «regalo che avrebbe voluto ricevere per compleanno…». La Mercedes si è comportata addirittura peggio: come se lui neppure esistesse. E per due volte. La seconda più crudele della prima. Alonso? Alonso chi? Un’imbarazzante invisibilità diventata addirittura offensiva nel dicembre 2016, quando lo squadrone tedesco si ritrovò spiazzato dall’addio improvviso di Nico Rosberg e con un prezioso sedile vuoto da assegnare a qualcuno. All’epoca, Fernando era nelle peste dopo l’ennesima disastrosa stagione con la McLaren-Honda. Però nessun dubbio a Stoccarda: meglio Valtteri Bottas. Valtteri chi?, deve aver pensato Fernando-Dantès chiuso nella torre delle proprie delusioni.

Perché come quella del Conte di Montecristo, la storia sportiva di Fernando è stata condizionata da una Mercedes. Era il nome della fanciulla semplice e umile del primo amore di Edmond nel romanzo di Dumas ed è il marchio tedesco che ha sedotto e abbandonato lo spagnolo nel personalissimo romanzo a puntate della sua carriera. Due volte, si diceva: prima, quando motorizzava la McLaren, strizzando sempre l’occhio al giovane Hamilton senza proteggere e rispettare lo spagnolo appena arrivato nel team anglo-tedesco e che aveva portato in dote i due titoli consecutivi appena conquistati con la Renault; e poi ignorandolo negli anni post-ferraristi in cui lui avrebbe fatto carte false pur di guidarla così bella e vincente.

È il personaggio imperfetto e sempre presente di ogni serie televisiva che si rispetti. Perché, che piaccia o no, a lui ci si affezionaMa niente. Perché tutte le squadre di vertice sanno perfettamente quanto potrebbe dare però sanno altrettanto bene quanto potrebbe urlare al mondo i propri malumori. Per cui no, no grazie Fernando. Colpa di quel suo curriculum di battute, frasi, risposte accompagnate sempre da un sorriso tagliente e da parole affilate non appena qualcosa non andava per il verso giusto nel team. Troppo scomodo, Fernando. Solo Flavio Briatore è riuscito a domarlo e capirlo, quasi il loro fosse un rapporto tra padre e figlio più che tra manager e pilota. Ma erano altri tempi. Ed era un altro Fernando. Per la Mercedes è diventato trasparente oltre dieci anni fa, quando sentendosi abbandonato e impaurito – lui come Lewis Hamilton – nel mezzo della spy story scatenata dal furto, da parte di un ingegnere della McLaren-Mercedes dei disegni Ferrari, raccontò tutto ai giudici federali in cambio dell’immunità. Non aveva fatto nulla di scorretto, era semplicemente venuto a conoscenza dell’esistenza di quei disegni, ma la sua testimonianza fu cruciale. Per la Rossa è diventato trasparente sette anni dopo, a fine 2014, quando a Maranello ritennero che la misura fosse colma. Frasi stonate ben più che sussurrate ai media, panni sporchi lavati in pubblico, e in fondo al cuore di tutti anche la consapevolezza di un matrimonio sfortunato viziato all’origine dal ricordo doloroso di Abu Dhabi 2010, la più recente tragedia sportiva ferrarista: un mondiale che pareva vinto e che venne consegnato ad altri. Un titolo che sarebbe bastato terminare la gara in quarta posizione per metterlo in tasca e invece il suicidio del box, degli strateghi e pure di Fernando che non seppe dire no alla scellerata decisione di marcare Webber anche nel pit stop, dimenticandosi così di Vettel. E il Mondiale finì al giovane tedesco. Doveva essere vendetta, doveva essere la rivincita a lungo cercata da Alonso-Dantès, fu solo beffa, umiliazione, di più: aveva sognato di sbattere in faccia a lei, la McLaren-Mercedes, il tradimento, e invece si fece ancor più male. Questione anche di sfiga, va detto.

Per questo lo spagnolo è diventato il personaggio imperfetto e sempre presente di ogni serie televisiva che si rispetti. Perché, che piaccia o no, a lui ci si affeziona. Tanto più se, come nel suo caso, la serie è giunta alla diciottesima stagione. Il pubblico lo conosce, lo segue, lo cerca anche se da tempo scorrazza stabilmente lontano dalle prime posizioni e la fiction di successo e questa F1 a stelle e strisce non possono ancora fare a meno di lui, di saperlo a zonzo per le piste alla sua maniera. Cioè con quel fare ombroso, ironico; cioè con quel sorriso sgranato da anima giapponese di cui solo quando vince si può essere sicuri della sincerità. Ma Fernando non vince corse da una vita. Fanno ormai cinque anni dall’ultimo successo. Oggi il suo è un sorriso sofferente che continua a tracimare voglia di rivalsa e non avete capito niente tutti voi, il più forte resto io.

Un personaggio da fiction accompagnato da sceneggiature perfette. È il 2008. A Singapore vince una gara rocambolesca con la Renault di Briatore e un anno dopo si scoprirà che dietro quella rimonta c’era il crashgate, c’erano gli ordini che Nelsinho Piquet, il suo compagno, sostenne di aver ricevuto dal team per andare a sbattere dopo che Alonso aveva già rifornito e cambiato le gomme, creando scompiglio in pista e issandolo davanti a tutti. Ordini che Briatore ha sempre negato di aver dato, ordini per i quali venne radiato dalla Fia e poi riabilitato dal Tribunale di grande istanza parigino. Una storia da fiction, una storia come la spy story di anni prima, una storia sempre con un Alonso incolpevole di mezzo. È il 2013, è il Gran premio d’Italia, il team Ferrari pasticcia con le soste durante l’ora di qualifica e lui via radio dice «certo che siete proprio degli scemi…» che, nell’interpretazione ufficiale della chiesa ferrarista, diventa «ha solo detto “certo che siete dei geni…” non ha detto scemi». Termini che cambiano, assonanze che rimangono, soprattutto significati che non mutano e che restano entrambi di ironica critica alla propria squadra. È il Gran premio del Giappone 2015, a Suzuka, circuito di proprietà della Honda che motorizza la sua McLaren, il propulsore va poco rispetto a quello degli altri e lui decide di farlo sapere via radio e in mondovisione. Dice: «È un motore da GP2». Cioè da categoria minore, di serie B, «è imbarazzante», aggiunge. E i suoi datori di lavoro nonché padroni di casa ancor oggi lo ringraziano sentitamente per la figura di emme e la cortesia. È sempre il 2015, poche settimane dopo, a San Paolo, Gran premio del Brasile, il motore Honda ammutolisce durante le qualifiche, lui accosta, scende, sale la collina vicina, ruba la sedia a un commissario e si lascia andare sullo schienale a prendere il sole. Ancora i giapponesi sentitamente ringraziano per lo spot contro. Gli sono grati tanto quanto lo sono i capi degli altri team di non avere un pilota così comunicativo con loro.

Sono momenti di vita e di sport, questi. Sono capitoli e feuilleton di un lungo romanzo. Sono puntate intriganti di una serie tv che incatena al video. Come quel giorno di febbraio sulla pista di Barcellona, a Montmelò, al debutto con la McLaren-Honda nei test. La sua monoposto che arriva lunga e va a sbattere in un punto inusuale e a bassa velocità. Fernando però resta dentro, immobile, non esce. Tornerà in pista oltre un mese dopo, saltando la gara di apertura a fine marzo e trascorrendo diversi giorni in ospedale. Le sue condizioni di allora rimarranno per sempre avvolte nel mistero, così come le cause dello svenimento. Si parlerà di choc elettrico, di un Tia (l’ipotesi più accreditata), cioè di un attacco ischemico transitorio. Ma poi, come nel finale di una serie, come nella pagina che chiude un libro, si saprà di quella frase pronunciata ai soccorritori mentre, chiuso nell’abitacolo, riprendeva conoscenza. «Mi chiamo Alonso, ho 14 anni», disse, «e corro nei kart». Per i medici una temporanea perdita di memoria. Per tutti noi e per gli sceneggiatori della sua vita ben altro e ben di più: la voglia di azzerare tutto e riprovarci da capo. Senza vendetta.

 

Dal numero 22 di Undici, marzo/aprile 2018
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