Il nuovo gioco di Correa

Non ce lo aspettavamo, ma el Tucu è cambiato molto.

Quando contro il Milan, il 25 novembre all’Olimpico, dopo appena un’ora di gioco Inzaghi decide di chiamare fuori Luis Alberto e Milinkovic-Savic in una sola soluzione, il doppio cambio fa immediatamente preoccupare l’Olimpico. Deve ancora accadere che, nella successiva mezzora in sala comandi al loro posto, Joaquín Correa tocchi palloni al centro, a sinistra, a destra, e che calci quello decisivo al minuto 94. Alla fine di quella partita ingarbugliata e riacciuffata, il mormorio è diventato rumore. Lazio-Milan, non soltanto perché decisa dal gol dell’argentino, può rappresentare il paradigma, fosse ancora necessario, di quella che è e che potrà essere la stagione di Correa. Partito senza particolari carichi di responsabilità alle spalle di Luis Alberto, settimana dopo settimana, ogni volta nello stesso modo, si è rivelato capace di stravolgere status quo prima, e gerarchie dopo. Anche contro i rossoneri Correa è entrato nel secondo tempo, senza molto da perdere e con tantissimo da guadagnare: è il marchio dei primi mesi a Roma dell’ex Siviglia. Col Milan Inzaghi gli consegna le chiavi della squadra, tirando fuori i due totem, e piazzandolo sulla trequarti. Lì resta anche con i due successivi cambiamenti tattici, indifferentemente nel 3-5-1-1 prima del vantaggio rossonero, o con il 4-3-1-2 con l’ingresso di Caicedo. Era successo in modalità simili a Parma, a fine ottobre, quando il mormorio non era ancora rumore: fuori al 57′ Luis Alberto, dentro lui. Anche allora doppio cambio, anche allora non banale, con Lucas Leiva richiamato in panchina assieme allo spagnolo. Nel finale si consumò la vittoria della Lazio (2-0), a segno anche Correa, al minuto 93. Era un indizio, sta diventando un trend.

Il gol del pareggio contro il Milan

Non che la faccenda cambi di una virgola, se schierato titolare: a Udine a fine settembre, nell’unica partita in cui gioca dal 1’ in campionato, segna la seconda rete nel 2-1 finale per i biancocelesti. In Europa League è titolare anche in Lazio-Olympique Marsiglia, e firma il gol vittoria nel pesante 2-1 dell’Olimpico che promuove i capitolini ai sedicesimi: i suoi gol sono di valore anche nell’economia del risultato, da titolare o meno non fa differenza. Anzi, sembra non farla: perché fino a ora è quella da subentrato la dimensione più esaltante per Correa, in attesa di una riprova da titolare che sembra sempre più imminente quanto ineluttabile, ed è stato il migliore dei mondi possibili. In una situazione ideale, senza la necessità immediata di bruciare le tappe, con il ridotto carico di aspettative di una cifra investita dal club di 16 milioni, discreta ma non schiacciante, la stagione dell’argentino si è giocata finora sotto il segno di una concorrenza impegnativa, ma capace paradossalmente di proteggerlo ed esaltarlo al momento opportuno. La pressione sulle spalle di Luis Alberto e Milinkovic-Savic, l’occhio della critica anche, nel frattempo lui mette a referto minuti e gol. Partire puntualmente dalla panchina non gli nuoce, anzi: ha trovato il tempo di bucare la rete ogni 136 minuti, media gol-minuti migliore di Immobile, a segno ogni 155 minuti. È la migliore nella squadra di Inzaghi. A fine novembre Correa è già a un solo gol dall’eguagliare la sua stagione più prolifica, il 2016/17 (quella immediatamente successiva all’addio alla Sampdoria), quando al Siviglia segnò 4 gol in Liga, ma in 26 presenze.

Era stata l’ultima delle sue due stagioni a Genova, con la maglia blucerchiata e il 10 sulla schiena, a dare in Italia la percezione dei grandissimi margini di miglioramento del ragazzo della provincia di Tucumán, ma anche l’etichetta di giocatore a volte fumoso: nella mente l’ingenerosa immagine di un gol clamorosamente sbagliato a porta vuota contro l’Inter, che aveva fatto frettolosamente bollare come poco concreto sotto porta. È il calcio europeo, e per chiunque a ventun anni la crescita smette di essere un diritto per assumere i contorni  del dovere: per El Tucu, che non è chiunque, è dal momento del lancio in prima squadra con l’Estudiantes a diciassette anni che l’essere chiamato a crescere è un argomento all’ordine del giorno. C’è anche quell’investitura di Verón, del quale dicono sia l’erede designato, a pesare. In realtà, rispetto alla Brujita, alla sua età Correa guadagna quasi subito metri di campo: al momento della firma per la Lazio, tre stagioni che sembrano una vita dopo, a Roma arriva un giocatore diverso. Per gli argentini è ancora la scommessa rimasta a metà di Jorge Sampaoli, vuoi per la condivisione dell’esperienza andalusa con il ct della Selección  («l’uomo copertina di Sampaoli», lo definì il Clarín), vuoi per il luminoso futuro preconizzato in ottica albiceleste (in realtà ai mondiali in Russia Correa non ci va nemmeno). Delle stringate dichiarazioni di Simone Inzaghi che rimbalzano in Argentina il giorno della presentazione, la stampa locale rimarca pochi ma essenziali concetti: è giovane, ha talento, e viene a sostituire Felipe Anderson. Un’idea secca, forse troppo, merito di quell’imprinting da ala e di quella vecchia investitura da nuovo Verón. In estate va subito diversamente, e chiunque, a partire da Inzaghi, vede in quel giocatore certamente giovane, indubbiamente poliedrico, più che l’ideale sostituto di Anderson soprattutto un trequartista. Una valida alternativa a Luis Alberto che farà rifiatare lo spagnolo, assicurano. Nessuno si spinge ad azzardare un dopo-Luis Alberto, nessuno crede che quel processo possa essere così rapido.

Eppure quel processo sembra essere ben più che iniziato. Prima da alternativa credibile, poi da piano B, fino ad accendere adesso il dibattito sul maggiore minutaggio da dare a Correa, sullo spazio che sembra reclamare, sugli scenari e sul futuro del reparto. Diventare realmente il titolare in pianta stabile alle spalle di Immobile rappresenta la nuova sfida, il futuro esame nel percorso di Correa e di una maturazione abbondantemente in atto.

Senza l’oppressione di una cifra di mercato irragionevole alla quale dover rispondere, Correa sta costruendo una nuova storia possibile per Inzaghi e per la Lazio, quasi esclusivamente dalla panchina, ovattato da pressione, paragoni importanti e ansia del dover dimostrare tutto e subito, trasformando le condizioni ideali per la maturazione in quelle ideali per l’esplosione, quasi fosse un dettaglio da poco. Non è dettaglio da poco quello che sta accadendo dentro il centrocampo della Lazio, nella linea tra i reparti, e che in estate sembrava una follia impronunciabile: far sembrare non più indispensabile Luis Alberto. Pochi mesi dopo, nella stagione in cui gravano la partenza di Felipe Anderson e la crisi d’identità di Milinkovic-Savic, ad apparire sempre più necessario è il ventiquattrenne di Tucumán. Che sta diventando grande, fino a prendersi la Lazio e a rendere il dopo-Luis Alberto una storia possibile, già attuale e incredibilmente concreta.

 

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