Grandi giocatori, grandi allenatori?

Chi sono i nuovi mister che conosciamo già da calciatori, e come stanno andando.

C’erano una volta i Laptop Trainer e ci sono ancora, nonostante rispetto a un anno fa il fenomeno sembra essersi ridimensionato. L’ultima tendenza in tema di giovani allenatori emergenti viaggia però in senso opposto: al laptop, simbolo  di un percorso formativo caratterizzato da un utilizzo predominante di libri, scrivanie e computer rispetto al terreno da gioco, si è sostituito l’albo d’oro, quale indicatore di soggetti che i campi da calcio non solo li hanno frequentati assiduamente, ma anche con grandissimo profitto in termini di successi, tanto personali quanto di squadra. Di fallimenti di ex campioni passati dall’altra parte della barricata è piena la storia del calcio, ma il trend iniziato da Guardiola e portato avanti da Zidane sembra aver agito da collettore per una nuova generazione di grandissimi del calcio. Con la differenza, rispetto ai Laptop Trainer, che non si tratta di un movimento radicato quasi esclusivamente in un unico ambiente calcistico – nel caso specifico, la Germania – bensì diffuso in realtà diverse: Francia (Vieira, Henry), Inghilterra (Lampard), Italia (i fratelli Inzaghi, anche se nella categoria di questo articolo può entrare solo Filippo), Olanda (Van Bommel), Belgio (Makelele), Scozia (Gerrard).

Il caso più recente, ma finora anche il meno indicato per cercare indizi su una possibile grande carriera, è quello di Thierry Henry al Monaco. L’ottavo elemento della Francia campione del mondo 1998 a scegliere l’avventura in panchina sembra aver pescato la carta peggiore di un mazzo che, in estate, contemplava anche Aston Villa e Bordeaux. Invece lo scioglimento del legame con Roberto Martinez, dopo un ottimo biennio trascorso fianco a fianco nella Nazionale belga, è arrivato per una panchina che presenta più pericoli di un campo minato. Nell’ordine: subentro a un’eredità pesante (quella di Leonardo Jardim, il cui lavoro nel Principato è stato di notevole caratura); gestione di un ambiente abituato ai piani alti, nazionali e internazionali, non ai bassifondi con vista sulla Ligue 2; rapporto con una proprietà attualmente alle prese con problemi ben maggiori dell’eliminazione dalla Champions. Il Monaco umiliato in casa dal Brugge nell’ultimo turno di Champions ha dato indicazioni ben precise sulla prima grande sfida che attende Henry: trasformare un disastro annunciato in un pericolo scampato.

Henry era, con Trezeguet e Vieira, il più giovane elemento della selezione transalpina che vinse il Mondiale casalingo del ’98. Oggi ritrova come avversario in Ligue 1 proprio l’ex compagno Vieira, approdato in estate al Nizza dopo un non convenzionale apprendistato in Mls con il New York City Fc. Accolto negli States con scetticismo a causa della pressoché nulla esperienza da tecnico (l’ex Arsenal aveva lavorato nelle giovanili del Manchester City, prima come Football Development Executive, quindi come allenatore della seconda squadra, inframmezzando il lavoro con stage alla corte di Sarri, Sampaoli e Guardiola), a cui si univa la tradizionale difficoltà dei coach europei ad adattarsi al complesso mondo calcistico Usa, Vieira è riuscito a fugare tutti i dubbi fornendo al secondo della Grande Mela un’identità tattica definita. Fin dall’inizio ha chiarito che per lui il concetto di entertainment si posizionava in fondo alla scala delle sue priorità, scavalcato da organizzazione, adattabilità tattica all’avversario e gestione della palla ragionata e tesa a minimizzare i rischi. Ne sono scaturite due stagioni chiuse con altrettanti secondi posti nella Eastern Conference, prima di cadere ai play-off per mano, rispettivamente, di Toronto (2016) e Columbus Crew (2017). Vieira ha sperimentato molto, imparando dai propri errori (i derby con il New York Red Bull, puntualmente strapersi) ma dimostrando carattere e personalità – vedi Pirlo lasciato in panchina nella seconda stagione per puntare su una mediana più giovane e dinamica. Come Henry, anche Vieira in Francia ha dovuto confrontarsi con un’eredità pesante, quella lasciata da Favre a Nizza. È partito a rilento, ha superato la prima crisi con qualche accorgimento tattico (dal 4-3-3 al 5-3-2), e si sta dimostrando un tecnico sufficientemente flessibile per  gestire le annate di transizione. Oggi i rossoneri intravedono addirittura un piazzamento Europa League. Un buon segno.

Connazionale di Henry e Vieira, Claude Makélélé aveva iniziato la propria traiettoria da tecnico con un esonero, a Bastia, dove era saltato dopo soli tre mesi. L’ex assistente di Ancelotti sulla panchina del Psg aveva quindi optato per un ruolo da direttore tecnico al Monaco, ma anche lì non era durato molto, rassegnando le proprie dimissioni per divergenze di vedute con la proprietà. Dopo una toccata e fuga in Galles da vice di Paul Clement (altro prodotto made in Ancelotti) allo Swansea City, il 6 novembre 2017 ha scelto i bassifondi della Pro League belga, sostituendo lo spagnolo Jordi Condom sulla panchina dell’Eupen, il club germanofono gestito dalla Aspire Academy, mega progetto di vivaio con sede in Qatar (ne abbiamo parlato tempo fa qui). «Sono arrivato qui dopo aver cancellato il mio passato», ha dichiarato in una delle prime interviste. «Un allenatore che non compie questo passaggio, difficilmente farà strada». Raccolto sul fondo della classifica, Makélélé ha salvato l’Eupen cancellando le velleità di calcio propositivo e spettacolare proposto dalla precedente gestione spagnola, a favore di un approccio focalizzato su organizzazione, disciplina e compattezza. Soprattutto, ha puntato molto sull’aspetto motivazionale, con lunghi colloqui individuali con i singoli giocatori. Molti dei quali, va ricordato, sono africani e mediorientali usciti dalla citata Academy di Doha, ma completamente a digiuno di calcio europeo, con tutto ciò che comporta in termini di adattabilità, in campo e fuori. Il progetto Aspire si sta però dimostrando serio e solido, vista le pressoché nulle interferenze della proprietà sulle scelte del tecnico. Se Makélélé decide che l’Eric Ocansey di turno (per indicare un recente prospetto sfornato dalla Aspire su cui si punta molto) resta in panchina, nessuno batte in ciglio, né dopo una settimana, né dopo tre mesi. E anche l’attuale stagione, iniziata con qualche difficoltà, sta girando per il verso giusto, proponendo l’Eupen come un qualcosa in più di una semplice candidata alla retrocessione.

Debuttanti assoluti sono invece gli ex compagni di nazionale Steven Gerrard e Frank Lampard. L’ex Liverpool non ha mai avuto fretta e, mentre attendeva l’occasione giusta, lavorava con Jürgen Klopp a Melwood, il centro di allenamenti del Liverpool. Consigli del tecnico tedesco? Pochi, ma destinati a lasciare il segno e riassumibili in: commetti errori, sbaglia, ma fallo perché hai scelto tu la formazione, hai deciso tu la tattica, hai seguito la tua visione di calcio. Poi il momento è arrivato, e il caso ha voluto che l’offerta giusta fosse quella dei Rangers Glasgow, alla ricerca del tassello mancante per completare la ricostruzione del club dopo il fallimento e la risalita dalle divisioni inferiori. Con il piccante dettaglio che, alla guida dei rivali di sempre, il Celtic, c’è Brendan Rodgers, il cui rapporto con Gerrard non è mai stato idilliaco, specialmente dopo il famigerato match ad Anfield contro il Chelsea costato ai Reds il titolo di Premier 2013/14. Una brodaglia di rancori (veri o presunti) e tensioni nella quale la stampa più qualunquista avrebbe potuto sguazzare per mesi, facendo perdere di vista la vera sfida, quella in campo. «La gente vuole che succeda qualcosa tra me e Brendan, sembra non aspettare altro», ha dichiarato Gerrard. Poi discorso chiuso e testa bassa a lavorare, perché il gap scavato da un triennio tra quarta e seconda divisione scozzese non si cancella in un paio di annate. Il suo Rangers ha iniziato la stagione rimanendo imbattuto per 12 partite consecutive, ha peso al Celtic Park (1-0) il suo primo Old Firm stagionale, è ancora in corsa per superare la fase a gironi di Europa League e si mantiene a ridosso del gruppo di testa della Scottish Premier League. Prima della tattica conta la mentalità, Gerrard dixit, e proprio per questo motivo lo si vede sbraitare con i suoi per un’occasione da gol concesse nonostante stiano conducendo 3-0 (è accaduto contro il Fc Dundee). Nonostante la strada da percorrere rimanga lunghissima, da Ibrox Park giungono sensazioni e indicazioni positive.

La prima stagione di Lampard, nel Championship inglese alla guida del Derby County, verrà ricordata per aver eliminato dalla Coppa di lega José Mourinho e il suo Manchester United, sconfitti ai rigori all’Old Trafford dopo il 2-2 finale. Un exploit non ripetuto nel turno successivo contro il Chelsea di Sarri, ma il risultato rimane, cancellando qualsiasi illazione sulle intercessioni fatte dallo zio Harry Redknapp lo scorso maggio quando il posto sulla panchina dei Rams era vacante. Sì, la telefonata c’è stata, ma il seguito è tutta farina di Lampard, decisosi ad abbandonare il ruolo di commentatore tecnico per scegliere quello ben più rischioso di allenatore. Nonostante il diretto interessato veda molte affinità tra le due professioni, almeno secondo la sua visione: «Non sono mai stata una seconda voce da: bella partita, molto divertente. Ho sempre voluto approfondire, trovare diverse chiavi di lettura per i giocatori, le tattiche, la gestione dei vari momenti del match. Funziona così anche per un allenatore. Oggi non si può più improvvisare». Lampard vuole una squadra attiva, dominante, che abbia spesso la palla (assieme al Leeds United, il Derby County è la squadra con la più altra percentuale di possesso palla di possesso palla del Championship) e che assuma l’iniziativa. Il modulo preferito è il 4-2-3-1, l’approccio ricorda qualcosa di Mourinho – inclusa un’espulsione rimediata contro il Roterham United proprio in seguito a una sfuriata stile Special One. Il Derby County viaggi nelle posizioni alte della classifiche, e chissà se il complimento mascherato rivoltogli da Jimmy Floyd Hasselbaink in ricordo della sua carriera da giocatore potrà essere applicato anche a quella da allenatore. Così disse l’olandese: «Quando nel 2001 Lampard arrivò al Chelsea, non spiccava in alcunché: buon tiro, tecnica decente, corsa discreta, nulla più». Non sembrerebbe proprio un attestato di stima, e invece lo è. Perché la voglia di emergere, l’attitudine al duro lavoro e «una straordinaria forza mentale lo hanno trasformato nel campione che tutti abbiamo conosciuto. Non lo abbatteva niente, aveva la scorza più dura di quella di un veterano. Queste sono premesse eccellenti per una carriera da grande allenatore».

Infine Mark van Bommel, new entry in terra d’Olanda in una società, il Psv Eindhoven, che nel corso degli ultimi anni ha radicalmente cambiato la propria filosofia, riconvertendosi a una politica autarchica in ogni settore: tecnico, gestionale, societario (quest’ultimo sancito dalla fine della sponsorizzazione con la Philips). Quindi grande attenzione ai prodotti del vivaio, ma anche a chi questi prodotti ha contribuito a formarli e sgrezzarli. Così dopo Philip Cocu è arrivato Van Bommel, ex tecnico dell’Under 19 (con la quale lo scorso anno ha vinto il campionato di categoria), e con tutta probabilità un domani toccherà a Ruud van Nistelrooy, che in estate ha preso il posto proprio del connazionale passato in prima squadra. L’ex Milan e Barcellona gioca quindi in casa, ma non per questo il suo compito è meno facile, visto nel frattempo che il Psv ha cambiato anche direttore tecnico e responsabile delle giovanili. Ma nonostante le difficoltà incontrate in Europa (in girone però oggettivamente non alla portata del Psv), il lavoro svolto finora da Van Bommel si è rivelato interessante, sia a livello tattico che gestionale. Nel primo caso si è visto, quantomeno in Eredivisie, un approccio più dominante rispetto al Psv di Cocu, senza però mai tradursi in percentuali bulgare di possesso palla fine a sé stesso, ma svelando un’organizzazione e una coesione superiori a quelle della rivale più quotata, l’Ajax, che in sede di mercato ha speso molti più soldi (includendo nella definizione anche l’ammontare degli ingaggi). Non a caso nel Klassieker il Psv ha prevalso con un netto 3-0 e, più in generale, non ha ancora lasciato per strada nemmeno un punto, raccogliendo i tre punti anche nelle giornate meno ispirate. Segno, quest’ultimo, di una forza mentale non indifferente, dimostrata anche nella capacità della squadra di rialzarsi subito dopo una brutta sconfitta, come le 4 sberle prese dal Barcellona alla prima giornata di Champions, così come la clamorosa eliminazione dalla coppa d’Olanda per mano del Rkc Waalwijk, squadra di seconda divisione capace di espugnare 3-2 il Philips Stadione. Scosse di assestamento forse necessarie per una squadra giovane e un tecnico ancora in divenire. In Olanda recentemente sono andati di moda i tutor: Hiddink per Cocu, Advocaat per Van Bronckhorst. Una figura che Van Bommel si ritrova in casa con Bert van Marwijk, di cui è stato assistente sulle panchine di Arabia Saudita e Australia. A differenza dei casi citati in precedenza, però, di un suo aiuto a livello ufficiale non ne ha ancora avuto bisogno.

 

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