La caduta

La fine di Mourinho tattico, psicologico, mediatico.

José Mourinho non è più l’allenatore del Manchester United. Lo scarno comunicato pubblicato ieri dei Red Devils sancisce la fine di un progetto calcistico, ma soprattutto decreta il fallimento di un approccio al mestiere di allenatore. È stata un’autodemolizione per usura: durante i due anni e mezzo a Old Trafford il manager portoghese ha cercato di influenzare l’intera esperienza dello United con i suoi strumenti tecnici e retorici, nonostante fossero palesemente fuori contesto, fuori tempo. Una strategia che non ha funzionato, se non per momenti brevi ed illusori, fino alla clamorosa implosione di questa prima parte di stagione.

I numeri sono eloquenti: il Manchester United ha fatto segnare il peggior avvio in campionato dal 1990/91, con cinque pareggi, cinque sconfitte e addirittura 29 gol subiti in 17 partite. Un rendimento inaccettabile, soprattutto a fronte delle ultime due stagioni complete di Mourinho ad Old Trafford, e di un esborso totale di 363,4 milioni di sterline – oltre 403 milioni di euro – in tre anni di calciomercato. Nonostante questi investimenti, lo United di Mourinho non ha mai dato la sensazione di essere competitivo ai massimi livelli, ha vinto tre trofei (Community Shield 2016, League Cup ed Europa League 2017) ma è sempre apparso lontano da una reale possibilità di dominio, soprattutto per la scarsa qualità del gioco. Il dato delle reti incassate in questo primo scorcio di Premier League esprime perfettamente la perdita di efficacia del calcio di Mou: l’anno scorso i Red Devils avevano chiuso il campionato con 28 gol subiti in 38 partite, appena uno in meno del Manchester City campione con 100 punti in classifica. Era la solidità difensiva di una squadra noiosa ma anche cinica, di un Boring United in grado di chiudere il campionato ad 81 punti – una quota che ha legittimato, almeno in parte, il lavoro dell’allenatore. Solo che in questa nuova stagione lo United ha perso anche questa caratteristica, evidenziando il problema tecnico che lo Special One si trascina da molti anni: il mancato aggiornamento rispetto all’evoluzione del gioco.

Proprio due giorni fa, Jonathan Wilson ha scritto sul Guardian: «Con il passare degli anni, Mourinho si è trasformato in uno di quegli “allenatori poeti” che ha spesso dileggiato troppo legato ai suoi ideali per vedere la realtà. Ma questi ideali non sono fatti di vertiginose azioni offensive e ragnatele di passaggi, bensì di opportunismo e resilienza». Mourinho ha esasperato la sua ideologia speculativa, si è cristallizzato su se stesso, rifiutando la sperimentazione in senso assoluto, ben oltre la ricerca di un calcio diverso, magari più offensivo. Un’assenza di novità e di stimoli tattici che ha inevitabilmente alimentato l’insofferenza dei giocatori nei suoi confronti, finendo per inficiare anche la gestione emotiva del gruppo.

Il rapporto con Pogba è la rappresentazione più limpida della mancanza di sintonia tra squadra e manager: dopo la partita contro il Wolverhampton, a settembre, il francese ha detto pubblicamente che il Manchester United «deve attaccare, attaccare, attaccare, soprattutto ad Old Trafford, e non deve smettere di giocare dopo aver segnato il primo gol». In seguito lo scontro si è ingigantito, è andato oltre l’aspetto tattico, fino alla decisione di Mourinho di togliere la fascia da capitano a Pogba, e al successivo video rubato da una seduta di allenamento al Trafford Training Centre, in cui si vedono l’ex centrocampista della Juventus e il suo tecnico discutere a lungo, seppure con toni apparentemente non esagerati. Nella controversa storia con Pogba, così come nelle immagini di una conversazione ripresa da lontano, c’è Mourinho in purezza, c’è il suo modo di relazionarsi e di motivare i calciatori, probabilmente l’aspetto più celebrato del suo profilo da allenatore. Mourinho ha vinto tutto ed è passato alla storia proprio per la capacità di costruire un’empatia viscerale con i suoi uomini, tanto che elementi dalla personalità complessa come Zlatan Ibrahimovic e Wesley Sneijder hanno dichiarato di essersi sentiti «pronti a uccidere e a morire» per il tecnico portoghese. Al Manchester United, la strategia della tensione costante nel governo dello spogliatoio e nei rapporti con la dirigenza ha funzionato da esplosivo, non da propellente. E ha contribuito a trascinare Mourinho in un circolo vizioso, per cui un gioco poco convincente e i risultati negativi hanno completato la delegittimazione di una leadership incompresa ma pure obsoleta, per dialettica e significati.

È una dinamica che si può estendere anche all’altro playground amato da Mourinho, quello del palcoscenico mediatico. La retorica dell’ostilità perenne – su cui il portoghese ha fondato per quindici anni la propria strategia comunicativa – si autoalimentava attraverso il culto del sé come tecnico vincente, e la supremazia dei tituli da esibire in faccia al mondo intero. Quando l’impalcatura dei risultati è venuta a mancare, dichiarazioni provocatorie e atteggiamenti indisponenti sono diventati una sorta di parodia, un intermezzo poco più che folkloristico, perché anacronistico e non interessante. In un articolo pubblicato dal Financial Times, Simon Kuper ha rivolto un invito all’allenatore portoghese: «Caro José, se proprio non riesci ad aggiornare la tua cultura del gioco, allora modifica la tua immagine. Una volta le tue dichiarazioni erano simpaticamente insolenti, anche in caso di sconfitta. Ora sono solo tristi, vuote, perché parli del passato. Smetti di guardarti indietro, e sii più gentile con i giornalisti. Hai sempre combattuto una logorante battaglia interna, Mourinho manipolatore machiavellico contro José narcisista. Purtroppo, il secondo sta avendo la meglio».

Probabilmente, questa è la fotografia più realistica della condizione umana e professionale di Mourinho. La sua esperienza al Manchester United ha certificato il fallimento di un approccio al calcio che mette il discorso emotivo su un livello superiore per importanza rispetto a quello tattico. Mou è stato un innovatore, ha cambiato il football partendo dal lavoro in allenamento, ma soprattutto nella costruzione e nella percezione del rapporto con la società, la tifoseria, gli avversari, i propri giocatori, la stampa, gli arbitri, è stato uno dei primi tecnici ad avere la presunzione di controllare tutte questi aspetti del suo ruolo in simultanea, e a sviluppare le capacità per riuscirci con assoluta autorità – e pure con una generosa dose di arroganza. Solo che intanto è come se avesse dimenticato di evolversi, e mentre lui era occupato a combattere le sue guerre il gioco è andato avanti, è andato oltre Mourinho, così i suoi avversari e tutti noi abbiamo imparato a riconoscere e a ignorare i suoi fantasmi. José non è stato capace di rinnovarsi, è stato battuto dal tempo e dal mito di sé, gli avversari più difficili da sconfiggere per un narcisista.

 

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