Il calcio-intrattenimento di Klopp

Un modo di pensare, prima che di giocare, con cui ha cambiato gli umori di Liverpool.

Jürgen Klopp sorride molto. Prima delle partite, dopo, spesso anche durante, a prescindere dai risultati e dal momento: sembra sinceramente divertito in ogni occasione. Probabilmente lo è, in effetti fa parte del suo carattere da uomo entusiasta, ma soltanto in parte: in realtà il suo sorriso è un gesto al confine tra la spontaneità e il calcolo. È parte di Klopp, ma anche del suo modo di comunicare e, più in generale, del suo metodo.

A Liverpool, rispetto a quanto accadde a Dortmund, Klopp ha dovuto portare all’estremo la sua strategia comunicativa basata sulla positività per interrompere l’umore nero di una città reduce da un periodo di insuccessi: i Reds non vincono la Premier dal 1990 e negli ultimi tredici anni, cioè dalla vittoria della Champions 2005 ad oggi, il club ha conquistato soltanto tre trofei, tutti “minori” – una Coppa d’Inghilterra e un Community Shield nel 2006, una Coppa di lega nel 2012. Klopp ha fin da subito basato il suo mandato sui tifosi, prima che sui calciatori, come se dovesse allenare i primi piuttosto che i secondi. Quando, nella conferenza stampa di presentazione dell’ottobre di tre anni fa, un giornalista gli domandò di descrivere il suo stile di gioco, lui sorvolò sui lati tattici e tecnici, preferendo annunciare che «l’unica cosa importante è che il modo di stare in campo della squadra renda la loro vita (dei tifosi, ndr) migliore». Pausa scenica. Sorriso: Klopp nel giorno numero uno ha aperto un canale diretto con il pubblico di Liverpool, che allargherà di giorno in giorno, fino a trasformare il rapporto in una simbiosi.

Ecco l’altra rivoluzione di Klopp. Non esiste solo quella tecnico-tattica – se è vero che i suoi principi di gioco non sono mutati, ma si sono adeguati alla Premier e alle caratteristiche dei giocatori – ma anche, e soprattutto, quella psicologica. L’Independent due anni fa riportava le parole di Pepijn Lijnders, assistente del tecnico tedesco, utili a confermare l’impressione: «Jürgen si interessa alla tattica e al campo per il trenta per cento del suo tempo, per il restante settanta si dedica al team-building». Cioè alla costruzione di un gruppo di fatto e non soltanto di nome. Lijnders però aggiungeva un dettaglio chiave, cioè che Klopp non si limita a creare una «squadra di professionisti affiatati» ma vuole una vera e propria «famiglia» che comprende «tutte le componenti in gioco». È una scatola cinese, parte dall’atteggiamento del tecnico e, passando per la squadra, si estende alla società e alla tifoseria. Il collante tra i vari livelli è la coerenza. Klopp si diverte in panchina, partecipa come se fosse un giocatore, infatti ha il fisico di un calciatore e indossa sempre la tuta. È il manifesto di uno stile di gioco feroce, tambureggiante, “rock”, come lui stesso l’ha più volte definito. E la squadra è ormai composta da giocatori in grado di riprodurre quel tipo di calcio, mentre la società ha via via deciso di sfilarsi dietro le quinte per lasciare spazio ad un Klopp sempre più manager, dunque padrone della comunicazione. Mentre il pubblico di Anfield focoso lo è sempre stato, serviva solo risvegliarlo dal torpore: la situazione ideale per Jürgen, che al Guardian ha dichiarato di avere «la sindrome dell’aiuto», cioè «l’esigenza di aiutare il prossimo ad essere felice». Una tendenza confermata anche da chi lo osserva: Martin Quast, giornalista tedesco, ha scritto ad esempio che «se decidesse di candidarsi alla Cancelleria, Klopp verrebbe eletto. Perché sa unire le persone e renderle felici».

Sottolineava il Mirror due settimane fa che «il tecnico tedesco è sulla panchina del Liverpool da più di tre anni, non ha ancora conquistato nemmeno un trofeo, eppure si può affermare che la sua gestione sia comunque un successo». Perché? La risposta risiede nelle due idee che il tecnico è riuscito a innestare nell’ambiente che lo circonda. La prima è la dimensione di underdog del Liverpool. L’impressione è che nulla di quanto faccia la squadra sia scontato, semmai tutto è oltre le sue reali possibilità. È così anche oggi che i Reds sono in vetta alla classifica, dopo che la società in estate ha speso più di chiunque altro in Europa (il saldo è negativo di 165 milioni di euro); perché Klopp riesce a ridurre la percezione della forza del Liverpool da fuori, crescendola nel frattempo dall’interno. La condizione di sfavorita che combatte il più forte, il più ricco, il più bello è essenziale per la riuscita del suo progetto e non a caso è forse il principale aspetto su cui il tecnico ha basato la scelta di accettare il Liverpool, che tre anni fa sembrava ormai scivolato in una dimensione secondaria del calcio inglese.

Matthias Dersch, editor di Kicker, ha scritto che «Jürgen ha scelto Liverpool perché gli ricordava Dortmund: sono due contesti in cui avrebbe potuto creare un legame con il pubblico, facendo leva su una situazione di svantaggio». Se il suo Borussia poteva recitare la parte dell’antagonista del potente Bayern, in questo caso il gioco viene facile con il City degli sceicchi, dal gioco patinato e perfetto, al quale il Liverpool si oppone con il suo calcio selvaggio, impreciso, semplice e, in quanto tale, popolare. Così, nonostante la squadra nei fatti sembri ormai in grado di vincere – i Reds hanno abbattuto la soglia di gol subiti (furono 38 lo scorso anno, uno in media a partita, contro i 7 nelle 17 giornate della Premier in corso, 0,4 in media a gara) mantenendo un’ottima efficacia offensiva (37 reti segnate in campionato finora, secondo attacco dietro al City) – rimane protetta dal copione dell’outsider che Klopp sbandiera ai quattro venti: dopo aver festeggiato la vittoria sul Manchester United come se si trattasse di una finale vinta, ha prontamente ribadito che «soltanto il City può fermare se stesso e non vincere la Premier», spostando così il peso sulle spalle degli uomini di Guardiola.

La seconda idea che Klopp ha innestato nell’opinione pubblica è che il percorso verso la vittoria sia addirittura migliore della vittoria stessa. Sorrideva – di nuovo – mentre spiegava questo concetto ai microfoni di Sky Sport Uk: «L’attesa del trionfo è meravigliosa, forse quanto il trionfo stesso». Ha poi aggiunto che «Liverpool deve godersi queste stagioni di alto livello, così come vengono». Un tifoso dei Reds, sul portale dedicato “This is Anfield”, ha scritto che «le cose, ora, stanno andando bene. Perché la squadra gioca partite divertenti e spavalde (utilizza il termine “swashbuckling”, ndr) che ti catturano e ti portano lontano dalle faccende quotidiane. Quando guardo il Liverpool non penso ad altro, sono immerso in uno spettacolo, in un eccitante dramma». Ed il merito, ha aggiunto, «non è dei giocatori, ma di Klopp». Nonostante nei risultati la situazione non sia cambiata con l’arrivo del tecnico tedesco – il club continua a non vincere, anzi, a non vincere per un soffio: ha perso tutte e tre le finali conquistate, di League Cup ed Europa League nel 2016 e di Champions l’anno scorso – è diversa l’atmosfera: la rassegnazione si è trasformata nell’attesa del trionfo. Proprio come suggeriva il vangelo secondo Klopp.

 

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