La scienza delle sostituzioni

Perché la gestione dei cambi è determinante nel calcio di oggi.

La rinuncia alle sostituzioni di Massimiliano Allegri durante l’ultimo Torino-Juventus ha destato scalpore. Nello studio post-partita è stato l’argomento più battuto e anche nella conferenza stampa per la carta stampata alcuni giornalisti hanno chiesto lumi al tecnico sul tema. Non è la prima volta in questa stagione che uno zero alla voce cambi muove le acque più di un cambio efficace: a novembre, il vicepremier Salvini si era concesso un’incursione nel calcio per colpevolizzare Gattuso, reo a suo avviso di non aver effettuato sostituzioni durante Lazio-Milan. Ma se il tecnico rossonero fu condizionato dalla panchina ridotta ai minimi termini, perché mai Allegri ha rinunciato ai cambi, con la potenza di fuoco che fremeva alle sue spalle? E soprattutto: perché lo ha fatto proprio colui che più volte ha affermato (e dimostrato) che le sostituzioni sono un preziosissimo mezzo per raggiungere il fine?

Allegri ha risposto in maniera piuttosto esaustiva alla domanda, a caldo del successo contro il Torino: «Nel primo tempo si era giocato un quarto d’ora effettivo. All’intervallo avevo visto i giocatori riposati, come se dovessero ancora iniziare la gara e nel finale la squadra era in crescita. Così ho pensato non ci fosse bisogno: meglio non fare danni e lasciarli giocare. Inoltre, vista la temperatura sotto lo zero, inserire un calciatore sarebbe stato un rischio, anche se si stavano scaldando tutti molto bene». Per il tecnico bianconero, stavolta, i cambi non erano solo superflui, ma anche pericolosi. Il paradosso però è che rinunciando alle sostituzioni ne ha sottolineato l’incidenza sulla partita, dunque l’importanza. Che sta crescendo negli ultimi anni in proporzione allo studio che gli allenatori hanno avviato su di esse.

Essendo uno strumento così potente, infatti, i tecnici si sono resi conto della necessità di governarlo. Di conferirgli connotati scientifici: così stanno mitigando l’idea dei cambi come arte improvvisata guidata dall’intuito. Come riportava Jonathan Liew sul Telegraph, Opta ha certificato il potere dei cambi catalogando le sostituzioni nei Mondiali dal 1998 al 2014: in caso di punteggio sfavorevole di un gol, effettuare una cambio ha incrementato le possibilità di recupero almeno di un 24%, fino ad un massimo di 40% in alcune edizioni particolarmente fortunate. Così un numero crescente di ricercatori calciofili si è scomodato per dotare di metodo le sostituzioni: il report più noto è quello di Bret Meyers, professore americano, che ha catalogato i cambi nei principali campionati europei e ai Mondiali arrivando a definire con precisione i momenti migliori per effettuarli. Il primo al 58′, il secondo al 73′ e il terzo al 79′. Meyers sostiene che seguendo questo piano le possibilità di recuperare lo svantaggio, come minimo, raddoppiano.

I cambi stanno progressivamente entrando nei copioni di gara. Vengono studiati, come le palle inattive o la preparazione atletica. Ad ogni scenario, corrisponde una sostituzione e l’allenatore non va più in campo senza un riferimento preconfezionato. Allegri in qualche modo lo ha confermato più volte, affermando che «a calcio si gioca in quattordici, non in undici». Lo scorso marzo, dopo il 3-1 al Milan con i decisivi ingressi di Cuadrado e Douglas Costa, ammise che «nell’organizzazione delle sostituzioni c’è un piano iniziale». Poi aggiunse che «a volte le cose vanno bene, altre volte male, ma è da sempre così. Anche al Milan con Cassano, Pato e Boateng era così: ne tenevo uno in panchina perché mi serviva qualcosa nel finale, quando a volte serve buttare dentro chi sa far casino organizzato. L’anno dopo lo scudetto al Milan non avevo cambi e rimanevo impiccato».

Dunque gli zero cambi di Allegri contro il Torino sono l’eccezione che conferma la nuova regola. Allegri ha imparato a sfruttare la panchina perché negli anni alla Juve ha potuto contare su una rosa larga, dunque aveva carte importanti in panchina. L’effetto benefico dei suoi cambi è diventato un personale marchio di fabbrica sia nella singola partita (l’esempio recente migliore rimane il ritorno degli ottavi di Champions contro il Tottenham: dentro Asamoah e Lichtsteiner per Matuidi e Benatia, due cambi apparentemente di contorno che in realtà tolsero riferimenti agli Spurs, invertirono l’inerzia della partita e infine il risultato, da 1-0 a 1-2) e per un periodo di gare. Nel secondo caso, l’emblema è stato l’utilizzo di Douglas Costa nella seconda parte della scorsa stagione: il brasiliano fu decisivo per lo scudetto nonostante fosse un panchinaro, o meglio, proprio per questo. Allegri sfidò la logica perché di fronte alle prestazioni di assoluto livello di Costa, si ostinò ad utilizzarlo part-time. Ma ridurne l’impiego nella fase finale di gara permetteva al giocatore di sfruttare la sua velocità e creatività al meglio, per via del progressivo allargarsi degli spazi in campo – emblematici furono i tre assist contro la Samp, nella ripresa, quando quest’ultima calò l’intensità: finì 3-0 dopo un primo tempo bloccato.

Il processo può anche essere inverso. Si può creare il contesto corretto affinché i giocatori in panchina possano diventare utili. Durante la stagione 2016/17,  dopo essere passato stabilmente al 4-2-3-1, Allegri non poteva contare su riserve offensive, dunque imponeva alla squadra un approccio veemente in modo da raggiungere il vantaggio prima degli avversari e rendendo quindi utile il miglior giocatore in panchina, ovvero Barzagli, che entrava così nel finale per ricomporre la difesa a tre con Bonucci e Chiellini e blindare il risultato. Insomma, Allegri innervava i cambi alla strategia di gara, per rendere utili gli avvicendamenti.

Usare Allegri come esempio di riferimento è una scelta motivata dai numeri: lo scorso anno fu il tecnico di A che ottenne più contributi dai subentranti – 21 tra gol e assist. Nel campionato in corso ha dovuto cedere il passo al nuovo arrivato Ancelotti. Il quale per 8 volte nelle prime 19 giornate ha raccolto i frutti dei panchinari (due reti a testa di Milik, Ruiz e Mertens, più una per Insigne e Rog) a cui vanno sommati 5 assist, per un conto totale di 13 partecipazioni ai gol, 26 in proiezione sull’intero torneo. Vuol dire che Ancelotti può contare su “riserve” di qualità, ma anche che sa calibrare le rotazioni a gara in corso e scegliere chi sacrificare di volta in volta. L’effetto finale è un cambio di gerarchie del calcio: chi è in panchina non conta meno di chi parte titolare, anzi spesso è più importante nella dinamica di gara, in una misura inversamente proporzionale rispetto ai minuti che passerà in campo. Attraverso i cambi, Ancelotti non ha solo guadagnato punti ma anche coinvolto l’intero parco giocatori, migliorandolo. È riuscito in ciò che il suo predecessore Sarri non era interessato: quest’ultimo non aveva molta considerazione del valore delle sostituzioni, infatti arrivò a quota 11 contributi tra gol e assist, meno del suo “erede”, seppur con un girone in più.

Anche Gasperini, Giampaolo e De Zerbi sanno sfruttare le sostituzioni: hanno ottenuto ciascuno cinque gol dai subentranti, e rispettivamente due, quattro e sette assist. Il giocatore più determinante dalla panchina è finora Ilicic, autore di 3 gol sulle cinque volte in cui è entrato. Allegri è fermo a quota quattro gol (e zero assist) perché non ha mai avuto bisogno di ribaltare il risultato: la Juve ha sempre segnato per prima, venendo recuperata solo dal Genoa e dall’Atalanta negli unici due pareggi stagionali. Solo contro quest’ultima è andata in svantaggio (dall0 0-1 si era passati al 2-1) ma in quel caso Allegri ha di nuovo fatto centro grazie al “panchinaro” d’occasione Cristiano Ronaldo, che in 25 minuti ha sistemato i conti: ha segnato il definitivo 2-2 sfruttando la stanchezza della Dea e ha soffiato la sua mentalità vincente sulla squadra bianconera, fino a quel momento in difficoltà come mai prima in stagione.

La rinuncia ai cambi come strumento per vincere è una delle leve della critica, in cui era scivolato Spalletti negli ultimi mesi, colpevole secondo i più di cambi troppo conservativi. Contro la Juve aveva sostituito Politano al 57′, fino a quel momento uno dei migliori, inserendo al suo posto Borja Valero. L’idea era quella di conservare il possesso, ma Spalletti ha ottenuto l’effetto contrario: la squadra si è improvvisamente abbassata, interpretando il cambio come un invito a difendere il risultato. Esito? Mandzukic trova il gol nove minuti dopo l’avvicendamento. Può essere una casualità ma anche un’ulteriore conferma dell’importanza dei cambi. Perché non riguardano solo la tattica, ma anche – e soprattutto – la sfera psicologica: in una partita equilibrata, un avvicendamento difensivo lancia un segnale conservativo alla squadra, viceversa, una sostituzione offensiva rinvigorisce mentalmente il gruppo più di mille parole. Così Spalletti sembra aver imparato dalle critiche: a dicembre ha utilizzato più volte Lautaro Martinez come carta per scardinare gli equilibri, accettando il rischio di perdere equilibrio. E il Toro ha pagato l’audacia del tecnico: gettato nella mischia ad inizio ripresa contro l’Udinese in un momento di difficoltà dell’Inter, ha indotto il cambio di marcia fino ad agguantare la vittoria, e ancora contro il Napoli, dove ha segnato in prima persona il gol vittoria, cancellando un pareggio bianco che sembrava l’esito scontato. E chi ha orchestrato l’azione del gol? Keita Baldé (cross), Vecino (velo) e appunto Lautaro (tiro). I tre cambi di Spalletti. Istintivi? Sì, ma solo in parte, come ha lasciato intendere il tecnico nerazzurro dopo la gara, quando ha spiegato di «aver avuto la possibilità effettuare le sostituzioni in maniera pulita e quelle erano le sostituzioni da fare».