Calciatori a tavola

Cosa mangiano, come cucinano, che rapporto hanno con il cibo.

Qualche tempo fa mi è successo di essere invitato a cena in un locale del quale avevo già sentito parlare, ma nel quale non avrei mai immaginato di sperimentare una delle sensazioni di straniamento più potenti che mi sia mai capitato di provare. Per tutto il tempo, nonostante la mise in place, l’ambiente, il servizio fossero abbastanza eleganti, mi sono distratto a guardare sulla mia testa, e su ogni parete, un susseguirsi interminabile di collezioni di scarpini da calcio e ritratti di calciatori. Non era un ristorante “per tifosi”: aveva più l’allure dei posti frequentati dai vip, ma con un’impronta più incisiva. Infatti era proprio il loro locale. Loro dei calciatori, intendo. Mi ha dato l’impressione di essere in un simulacro della procrastinazione post-carriera del loro culto della personalità.

Uno dei momenti più complicati da affrontare per gli atleti, dopo il ritiro, è quello in cui l’onda lunga del clamore si placa, e si apre quella parentesi in cui ci si deve reinventare, trovare il proprio posto al mondo. Mi sono sempre chiesto perché, tra le attività imprenditoriali in cui gli atleti-post-atleti investono di più, dopo il mattone ci sia il mondo del food. Perché, dopo un’esistenza passata a confrontarsi con il timore dell’insuccesso, molti scelgano di provarsi in quella che è una delle più fallibili, e volatili, attività imprenditoriali. E non parlo di chi, in qualche modo, in quell’ambiente ci è cresciuto. Guillermo Ochoa, il portiere del Messico, per esempio ha investito pesantemente nella paninoteca “Tortas Don Polo” a Città del Messico, ma ok, il fondatore Polo era pur sempre il bisnonno. L’ex terzino del Villarreal Aitor Arregui, che da chef si è guadagnato una stella Michelin, viene da una famiglia di ristoratori convinta che la carriera di calciatore non fosse che un diversivo. Al primo giorno della nuova vita, subito dopo il ritiro, sembra che il padre gli abbia detto: «Ora si comincia a lavorare sul serio».

E gli altri? Quelli che si innamorano di un luogo così tanto da volerlo possedere o, nel più parossistico dei casi, gestire? Tra i motivi che mi sono sembrati plausibili ci sono la perpetuazione di un ideale, di un gusto estetico. Oppure, all’estremo opposto, una sorta di naturale contrappasso, un senso di rivalsa nei confronti delle ristrettezze provate nel periodo agonistico.

La relazione tra calciatori e cibo è problematica per sua natura, soggetto alle altalene dell’umoralità; l’equilibrio del rapporto è la tacca che segna il limite della pericolosità sul barometro dell’ego, una preziosa cartina di tornasole sul livello di professionalità, un campo nel quale straborda tutta la puerilità comportamentale di quelli che sono ragazzi, prima che atleti. Sul campo dell’alimentazione si combattono guerre e si istituiscono dittature. Si proclamano editti e si intavola una guerra di trincea con il nemico, che spesso ha la divisa sdrucita del junk food: una battaglia a tratti snervante, capace di logorare gli umori più inscalfibili. In una puntata di Ma parte d’ombre, una serie di interviste-documentario curato da Olivier Dacourt per CanalPlus, c’è Antonio Cassano. I due si incontrano in un giardino a picco sulla costiera ligure, parlano dei sacrifici patiti prima del successo e Antonio gli racconta di quella volta in cui, sorpreso a mangiare patatine fritte in una cucina di Trigoria, ha impugnato un coltello da cucina minacciando di fare una strage se non l’avessero lasciato finire.

L’ex Villarreal Aitor Arregui da chef si è guadagnato una stella Michelin. Al primo giorno della nuova vita, subito dopo il ritiro, sembra che il padre gli abbia detto: «Ora si comincia a lavorare sul serio»Per farmi un’idea di prima mano di quale possa essere il rapporto (d’amore? conflittuale?) tra calciatori e food, per raccogliere una testimonianza diretta spogliata dai cliché e dalle false credenze, mi è venuto in mente di contattare Ezequiel Schelotto, con il quale – sull’onda di un periodo in cui la sua vena gourmand era decisamente en vogue – qualche anno fa parlai lungamente di cibo durante un’intervista per l’Ultimo Uomo. Oggi Ezequiel gioca in Inghilterra, dove negli ultimi mesi è esplosa la mania, all’interno della microcomunità dei calciatori professionisti, di affidare la propria alimentazione personale a una serie di chef a domicilio. Un vezzo sdoganato da Pogba e velocemente diffusosi, trasversalmente, a ogni livello di partecipanti alla Premier League. Non mi interessa approfondire i facili risvolti di costume dell’analisi più o meno polemica degli onorari; però mi sembra interessante la comparsa, come a colmare una sacca di vuoto, di una nuova figura professionale, definita nei crismi, che se vogliamo ha anche una sua coerenza. In primis perché i calciatori sono spesso giovani, sradicati dal loro contesto domestico e catapultati in una quotidianità in cui l’ultimo pensiero è quello di applicarsi in cucina.

Una volta ho letto un’intervista ad Aljaksandr Hleb in cui confessava con candore che nella prima settimana di permanenza in Germania, all’epoca dello Stoccarda, poco dopo essersi trasferito dalla ferrea Bielorussia, lui e il fratello che l’aveva accompagnato pranzavano e cenavano in un fast-food, e ho avvertito i crampi allo stomaco al posto suo. Ma c’è anche un aspetto più glam, meno giustificabile in termini pragmatici, che affonda le radici in quello che è essenzialmente uno sfizio lussuoso. La gastronomia, dopotutto, è da sempre una delle principali sfaccettature che caratterizza i segmenti luxury, un grimaldello per affermare il proprio status-symbol. L’unico mio dilemma, però, che continua a rimanere irrisolto, è questo: il personal chef , che si insinua nel quotidiano dell’atleta, non può diventare una figura che va a sovrapporsi, se non a porsi in antagonismo, a quella del nutrizionista del club?

«La maggior parte dei calciatori mangia male», mi dice Ezequiel. «Il primo passo è capire che l’alimentazione sana è l’unica arma che hai per mantenere il corpo sano, per recuperare fisicamente, per rendere al meglio». Forse è vero, come ripete lo storico cuoco delle Nazionali giovanili spagnole Xabier Arbizu, che ai calciatori «bisogna insegnargli a mangiare correttamente da quando sono ragazzini». Sviluppare, come nella teoria pedagogica di Piaget, un sistema cognitivo – da applicare al cibo – basato su assimilazione e accomodamento. Incanalare l’estro, e la sregolatezza, in un fascio regolamentato di abitudini alimentari. Potrà apparire una banalità, eppure sembra essere davvero complicato applicare un regime di alimentazione realmente sano senza una sovrastruttura che renda il concetto dogmatico. «Io ho imparato con gli anni, specie negli ultimi. Sono stato fortunato ad avere un sostegno in casa», continua Ezequiel, «mia moglie ha la fissa del mangiare bene ma il segreto è farlo sempre, non solo per una settimana. Questo dico ai miei compagni, quando mi chiedono consigli».

In Italia, ma anche in Inghilterra (che sono anche i due campionati in cui ha militato Schelotto, insieme al Portogallo, dove però «non ti stanno mai davvero addosso su come mangi nel privato»), la figura del nutrizionista si sta ritagliando una certa sacca di autorevolezza. Jürgen Klopp, ormai due stagioni fa, ha fortemente voluto che nello staff medico del Liverpool venisse integrata Mona Nemmer. Conosciuta in Germania, dove è stata consulente dietetico-nutrizionale per il Bayern Monaco per tre stagioni dopo essersi fatta le ossa nelle giovanili della Mannschaft, Mona è un personaggio un po’ atipico, luminare, antesignano. Brillantissima nel suo ruolo come solo chi ha scoperto casualmente il proprio talento. «Ho imparato un sacco di roba teorica all’università», ha dichiarato tempo fa al New York Times, «ma mi mancava il lato pratico». «E allora sono andata a fare l’apprendista chef».

Mona ha rivoluzionato l’approccio col cibo dei Reds: prima, racconta Klopp, «venivano, mangiavano, scappavano». Dopo l’intervento di Nemmer, i calciatori si godono il momento. Ha fatto installare un dispenser di succhi di frutta nello spogliatoio e una cucina poco distante, per cucinare pasti dopo le partite, per creare socialità. Ha ridefinito la selezione delle materie prime, con una spiccata preferenza per l’organico e il km zero. Ha ampliato la varietà di soluzioni, fedele al motto «nulla è proibito». Ha differenziato l’offerta tenendo conto delle diverse provenienze culturali, delle conformazioni fisiche, della posizione in campo dei suoi calciatori. Che ne sono rimasti entusiasti. Lallana, per esempio, dice: «Non è una di quelle che ci acceca con la scienza».

Ho trovato lo stesso approccio entusiasta e illuminato in Antonio Ventura, giovane nutrizionista entrato a far parte quest’anno dello staff del Genoa. Mi interessava capire, chiacchierando con lui, quanto nelle scelte di un nutrizionista entrino in gioco stimoli culturali, volontà di ispirare un senso di appartenenza territoriale e di abbattere i muri sollevati dalle differenze culturali. «Ovviamente cerchiamo sempre di privilegiare i prodotti a km zero, la socializzazione, a differenziare l’offerta in base alla cultura dei calciatori. Il punto centrale è prevedere sempre alternative». Il compito più complicato per il nutrizionista, mi confessa, è «scardinare una certa cultura che si basa, nelle scelte, sulla tradizione e per certi versi sulla scaramanzia: il risotto alla parmigiana il giorno prima della partita, la crostata… Piatti-cabala, per i quali esistono alternative ma che se non ci sono si sente come se qualcosa non andasse…».

Nel momento in cui ci siamo sentiti era combattuto: aveva cambiato menu, dopo una serie di prestazioni non molto entusiasmante dei Grifoni, poco prima della trasferta di Roma e dell’importante vittoria contro la Lazio. Ora aveva paura di dover proporre lo stesso fin quando l’effetto scaramantico fosse durato. «Io però non ci credo, perciò qualcosa alla fine cambierò…». Ma come vive, il calciatore, l’ingerenza di una figura come quella del nutrizionista? «A inizio stagione gli sottoponiamo un questionario alimentare, che oltre a darti il punto di vista dell’atleta gli fa capire che esistono certe linee guida scientifiche». E rispondono sempre tutti con sincerità al questionario?, gli chiedo. «Sono professionisti seri, non si lasciano andare facilmente. E comunque sono ragazzi prima che atleti, e seguire una linea dura durante la settimana li può anche deprimere. Se mangiano qualcosa di imprevisto non succede mica nulla».

Jorge Brazalez è cresciuto nelle giovanili dell’Atlético Madrid, ma ha vinto l’edizione spagnola di Masterchef, cucinando in finale un piccione con salsa di mele e curry di Paolo Casagrande, lo chef italiano tristellato Michelin del LasarteAlla fine per ogni atleta arriverà il momento di sfogarsi, di vivere con più leggerezza, o anarchia, il rapporto con il cibo. Basta aspettare. O aprire il cuore alla potenziale folgorazione sulla via di Damasco. Jorge Brazalez è cresciuto nelle giovanili dell’Atlético Madrid; il caso e una carriera ondivaga l’hanno portato in Colombia, all’América de Cali, prima del capolinea Formentera, dove a soli 26 anni ha scoperto di essere stufo di limitazioni e divieti, e ha capito che il mondo della cucina lo appassionava di più, e gli dava maggiori soddisfazioni, di quello del calcio. L’anno scorso ha vinto l’edizione spagnola di Masterchef, cucinando in finale un piccione con salsa di mele e curry di Paolo Casagrande, lo chef italiano tristellato Michelin del Lasarte. Nella questione privata che è il rapporto di ogni atleta professionista con il cibo, Jorge ha le idee chiare. «Mi piace cucinare», ha detto, «perché in cucina sei solo. E posso fare tutto quello che voglio quando sono da solo, dipende tutto da me». Un mood solipsista con il quale non sarebbe mai andato lontano, nel calcio. Nella cucina, par di capire, neppure.

A pensarci bene ci sarebbe anche una terza ragione alla base del senso dei calciatori per il food. Forse la più scontata, chissà maliziosa. Non sarà che i calciatori vedono nella ristorazione una strategia imprenditoriale win-win, in cui la clientela e il tifoso si confondono, così che la valutazione dell’esperienza si sciolga in un limbo sfocato? Il locale pieno di scarpini e ritratti, ho poi controllato su Tripadvisor, ha 4 pallini e mezzo su cinque, e un’ottima media nei voti delle recensioni. Pochi, però, dichiarano di esserci andati perché tifosi.

 

Illustrazioni di Sarah Mazzetti.
Tratto dal numero 20 di Undici