Sunderland ‘Til I Die è il miglior modo di raccontare il calcio?

Non una celebrazione, ma una serie tv che distrugge i luoghi comuni.

Inizia con le immagini dell’ultima amichevole di precampionato il racconto della stagione 2017/18 del Sunderland, la prima in Championship dopo dieci anni di Premier League: una debacle per 5-0 contro il Celtic in cui i Black Cats sbagliano l’impossibile (compreso un rigore) davanti ai propri tifosi pieni di aspettative, mentre gli scozzesi trasformano quella che sarebbe dovuta essere una disinteressata passerella di inizio agosto in una dimostrazione di onnipotenza univoca. Se fossimo in un film, un episodio del genere – inserito così, in apertura – risulterebbe difficile da decifrare, come anche il senso del suo collocamento nell’ecosistema di una sceneggiatura a quel punto confusa: una falsa partenza prima del riscatto finale, una nuvola rapida su una stagione a lieto fine o un espediente per istillare dubbi in una trama già collaudata, quasi da spot pubblicitario? Legittimo, tutto. Non fosse che le immagini siano assolutamente vere: quello che abbiamo di fronte è un documentario, il resoconto reale, vivido e senza tagli dell’ultima, disastrosa stagione del Sunderland AFC. Così: senza lieto fine.

In termini tecnici, Sunderland ‘Til I Die è una docu-serie. L’ha prodotta Fulwell73, che già aveva firmato un lavoro sulla Class of ’92 del Manchester United, e in otto episodi percorre la prima annata di Championship del club inglese dopo la retrocessione del 2017, con l’intenzione di mostrarne le difficoltà di ambientamento, il sentimento e la partecipazione della tifoseria e – almeno nei progetti – la promozione finale. L’auspicio era quello di innescare una gigantesca operazione di marketing: fra Netflix, che l’ha distribuita pensando a una risposta a All or nothing Manchester City di Amazon Video, e Ellis Short, il presidente del Sunderland che mirava a rendere il suo club (con un’identità sì marcata, ma dall’appeal, anche mediatico, ridotto rispetto a quello delle leggende dell’immaginario tipico del calcio d’Albione) un brand appetibile, nell’anno in cui – a causa, appunto, del declassamento di categoria – aveva perso oltre la metà dei 100 milioni di sterline di incassi legati ai diritti tv.

Nelle idee dei giocatori (e della società, e dei tifosi), Sunderland ‘Til I Die avrebbe percorso la traiettoria una stagione facile per i Black Cats: le aspettative sulle prestazioni in Championship erano in linea di massima altissime – visto il pedigree con cui il club tornava a sporcarsi le mani, un’immediata promozione in Premier League era assodata – e qualche alto e basso avrebbe reso solo più accattivante una linea narrativa costruita come un dietro le quinte da spot pubblicitario. Invece – una volta in campo – l’ennesima, possibile operazione di marketing si è trasformata in una piccola rivoluzione dello storytelling documentaristico del calcio. Questo perché, davanti alle telecamere, il Sunderland ha vissuto a sorpresa (ma neanche troppo, col senno di poi) una stagione anomala, alla rovescia, talmente radicata nel fondo della classifica da non uscirne mai fino alla drammatica retrocessione (la seconda consecutiva) in League One – la terza serie inglese. Elementi, questi, su cui il documentario non ha potuto (e non ha voluto) sorvolare, e che alla fine ne rappresentano la carta vincente.

La direzione della narrazione è quindi inedita, nuda, diametralmente opposta nelle coordinate all’ennesimo prodotto auto-celebrativo con il logo in vista: verso il racconto di un ambiente in crisi, sfilacciato e senza soluzioni, verso la lettura in cui una tifoseria frustrata assume una centralità nuova, cardinale, verso lo psicodramma di giocatori impotenti, in balia degli eventi. Verso, soprattutto, il calcio dei vinti. Di più: il riposizionamento di ‘Til I Die è unico perché non offre un’immagine positiva del club di riferimento; anzi, ne racconta i lati più controversi, gli errori di pianificazione e di gestione, le incomprensioni fra lo staff e i giocatori. E – episodio dopo episodio – il Sunderland AFC diventa quasi un modello negativo tout-court, da biasimare istintivamente come altre centinaia di società che negli anni abbiamo visto mancare i propri obiettivi, al contrario di quanto avviene nelle varie All or nothing Manchester City o nelle serie Netflix sulla Juventus e sul Boca Juniors, autentici spot di valori (e brand) incontaminati e cristallizzati spesso nella loro stessa retorica. Se lì, quindi, la narrazione era più astratta, qui domina un realismo essenziale, duro, segnato da due costanti: una società in disfacimento, quotidianamente vis à vis con le proprie difficoltà, e la vita simbiotica dei tifosi.

A leggerla alla fine (ma anche a metà, vista l’atmosfera drammatica che da subito attacca la narrazione), quella sconfitta con il Celtic era programmatica: i problemi finanziari della società erano più gravi del previsto, la Championship è un pellegrinaggio di 46 partite contro squadre di altissimo livello per la categoria, dove non conta il pedigree ma la capacità di sapersi mettere in gioco («Qui può succedere di tutto», commenta un tifoso in uno dei tanti estratti, quando la situazione sarà fin troppo delineata), i senatori avevano già perso le motivazioni e i nuovi venivano scelti senza criteri o coerenza. E la società, soprattutto, non era in grado di intervenire, di difendersi dalle contingenze esterne e riconoscere i problemi interni. Come se una tradizione come quella del Sunderland e uno stadio da quasi cinquantamila posti potessero, da soli, garantire la promozione in Premier League.

«Non è finita finché non cala il sipario», dare «il massimo», l’importanza dello «spirito», la centralità della «squadra» intesa come collettivo che deve reagire «unito» alle difficoltà: sono le tematiche – e le parole – che più ritornano nelle interviste ai giocatori, agli allenatori che si succedono nel tentativo di rianimare un collettivo allo sbando, e ai dirigenti. E non attaccano, mai. ‘Til I Die funziona proprio perché distrugge ogni luogo comune, annichilisce qualsiasi retorica sul calcio come espiazione, ogni espressione trita in merito: nulla è dovuto – dimostra il Sunderland – senza una progettazione solida, senza una base psicologica che impedisca ai giocatori di sprofondare nel baratro alla prima sconfitta. Nelle immagini si susseguono con cadenza quotidiana i momenti dell’annata 2017/18: le sconfitte, gli allenamenti, le scene a bordo-campo, il calciomercato. In mezzo, interviste e retroscena che aprono sulla psicologia dei giocatori, dall’ingenuità giovani della academy alle preoccupazioni di volti storici come O’Shea e Cattermole, ma anche preziose panoramiche sul lavoro amministrativo, sulle spirali di insicurezze e sugli infortuni. E tutto, senza distinzioni, va in disfacimento giorno dopo giorno, sconfitta dopo sconfitta.

Così, mentre lo stereotipo della squadra vincente e felice si eclissa in una spirale di depressione, la telecamera migra verso i tifosi: a loro, più di ogni altro, ‘Til I Die rende omaggio; è la tifoseria del Sunderland, soprattutto nella seconda parte, la protagonista che valorizza e rende unico questo documentario. La realtà dei pub e delle trasferte infinite, delle radio locali e dei podcast gracchianti, delle aspettative, degli abbonamenti e dello scoramento, dei volti di ogni età ed estrazione e dei loro sentimenti – sempre metodicamente disposti in primo piano: frustrazioni, slanci, speranze mortificate. La realtà di chi si porta quei colori, persino, fino al funerale. Ma c’è attenzione anche per la vita e l’amore di una città, Sunderland, disidrata delle sue industrie navali, e che come comunità unita ha trovato linfa aggrappandosi proprio al calcio, investendo – più di molte altre – nei Black Cats le sua domeniche, e le sue emozioni. C’è tutto questo nella serie, descritto e ricalcato con un realismo fedele, quasi morboso. Così universale e particolare, sempre trasversale, da raccontare il calcio (e il tifo) a tutti, appassionati e curiosi: come sport, sì, ma anche come connettivo sociale e in relazione al tessuto che sottende, senza aridi campanilismi o retorica.

Tutto torna, una volta al termine: anche la scena della messa che apre il documentario, in cui padre Lyden-Smith celebra la sua funzione in onore del Sunderland, subito prima che inizi la fatidica amichevole col Celtic, crocevia di una stagione maledetta e per questo, probabilmente, da raccontare. Alla fine, a rivedere quell’inizio, il senso era già lì: in quelle due prime immagini, spiazzanti solo se si pensava di avere fra le mani l’ennesima serie sul calcio fatta di facili retoriche e lieto fine.