Monchi ha fallito?

La sua rivoluzione si è interrotta dopo meno di due anni.

Fin dalle sue prime ore a Roma, Monchi fu molto chiaro nel delineare le ambizioni del nuovo corso: «Qui non abbiamo un cartello con scritto se vende, no; nel cartello sta scritto se gana». Si vince. «A Siviglia i conti erano in ordine, ma ciò che è fondamentale è che abbiamo raggiunto éxitos deportivos». Successi sportivi. E ancora, rivolto ad un giornalista: «Lei crede che io non sia venuto qui per conseguir éxitos? Ho lasciato la mia casa, eh…». Sono soltanto alcuni dei frammenti di maggiore impatto della conferenza stampa di presentazione del maggio 2017, durante la quale pronunciò anche una frase che in seguito è stata sempre citata da chi voleva criticarlo: «Vendere non è un problema; il problema, semmai, è comprare male». Durante quei cinquanta minuti a Trigoria, Monchi mantenne un profilo deciso, pesando scrupolosamente le parole che avrebbero fatto da proemio alla sua prima esperienza lontano dal triangolo andaluso di Siviglia-Cadice-San Fernando.

Da venerdì scorso, a seguito della rescissione consensuale del contratto, Monchi non è più il direttore sportivo della Roma. In due anni la squadra giallorossa non ha vinto titoli (così come non ne aveva vinti nelle prime sei stagioni di presidenza americana), non è mai parsa in grado di competere con Juventus e Napoli, si è fermata quasi subito in Coppa Italia – agli ottavi un anno fa, ai quarti in questa stagione – e in questo campionato rischia persino di finire esclusa dal quartetto di testa. Di contro ha disputato una semifinale di Champions League, il punto più alto per distacco della gestione Monchi, che bilancia in qualche modo un biennio complessivamente deludente dal punto di vista dei risultati. Il 7-1 di Firenze, il 3-0 incassato dalla Lazio (la sconfitta più ampia da dodici anni in un derby, per i giallorossi) e la rimonta subita a Porto hanno tagliato definitivamente le gambe a Di Francesco e di conseguenza al dirigente spagnolo, che non ha mai negato il suo legame professionale con l’allenatore scelto nell’estate del 2017. Un doppio addio messo in preventivo già da qualche settimana, e che certifica il fallimento del progetto Monchi nella sua dimensione sportiva.

È piuttosto chiaro che la Roma, negli ultimi due anni,  abbia subito un ridimensionamento al ribasso, quantomeno nel contesto nazionale. È sufficiente mettere a confronto le medie punti: con Spalletti, al termine della stagione 2016/17, furono 2,29 a partita; Di Francesco al primo anno si è fermato a 2,03, fino a scendere alla quota attuale di 1,69. Per valutare nello specifico la gestione di Monchi, però, serve un’analisi di più ampio respiro. Sul piano delle operazioni di mercato va considerato un fattore che dovrebbe contribuire ad attenuare i giudizi più severi nei confronti dell’ex diesse: la delicatissima condizione economica del club, che venti mesi fa si trovava nel bel mezzo del Settlement Agreement, ossia un piano di rientro che la Uefa concorda con i club che hanno sforato – entro certi limiti – i parametri del Fair Play Finanziario. Monchi si è mosso molto bene su questo fronte, tanto che dallo scorso giugno la Roma si è svincolata con esito positivo dall’accordo ed ha guadagnato una maggiore libertà di movimento sul calciomercato. Sono temi che per loro stessa natura interessano poco al tifoso, ma di cui nella valutazione dell’operato di un direttore sportivo bisogna necessariamente tenere conto.

Archiviata la parentesi sulla parte manageriale, per cui Monchi si è guadagnato una meritata promozione, la seconda parte dell’analisi parte da due criteri di giudizio: come l’ex diesse ha speso i soldi della Roma e, prima ancora, come li ha incassati. Procedendo con ordine, va detto anzitutto che il dirigente andaluso non ha venduto benissimo, nel senso che avrebbe potuto vendere meglio, ma non è stato neppure disastroso. Fatta eccezione per quella relativa a Salah, operazione forzatamente condensata e chiusa in poche settimane – e il cui giudizio negativo è stato inevitabilmente gonfiato dalla straordinaria prima stagione a Liverpool del giocatore –, le cessioni illustri hanno portato nelle casse della Roma le cifre che era lecito aspettarsi: Rüdiger è partito per 33 milioni, Paredes per 26, Alisson per 62, Nainggolan per 38. Ne sono arrivati 19 per Emerson un anno fa e 25 per Strootman in estate. Non è in questo ambito, insomma, che Monchi si è discostato dai suoi standard di rendimento (anche negli anni di Siviglia, oltretutto, gli è capitato raramente di vendere giocatori per cifre superiori ai trenta milioni).

Qualche dubbio, piuttosto, emerge in relazione alle operazioni in entrata. Tra Schick, Defrel, Karsdorp, Nzonzi, Pastore e Olsen, ciascuno a modo suo fallimentare con la maglia giallorossa, Monchi ne ha sbagliate tante, forse troppe – e soprattutto ha sbagliato le più onerose. È andata meglio con Kolarov e Cristante, e se i giudizi su Kluivert sono ancora in sospeso la Roma può quantomeno consolarsi con il riscatto di Pellegrini e le intuizioni riguardanti Ünder e Zaniolo, giocatori che rappresentano una garanzia dal punto di vista tecnico, o, nel peggiore dei casi, in termini di introiti monetari. Ma è evidente che in una valutazione complessiva, limitandosi al verdetto emesso dal campo fino a questo momento, il saldo tra operazioni riuscite e non riuscite penda con nettezza dalla parte delle seconde.

Quando ci domandiamo se Monchi abbia fallito è indispensabile tracciare i confini delle sue responsabilità, perché a due giorni dai saluti la sensazione è che la gestione dell’andaluso non abbia deviato poi così tanto dalle aspettative, pure ammettendo alcuni punti di flessione. Ha tenuto in ordine i conti (registrando oltre duecento milioni di plusvalenze, come ha illustrato Calcio e Finanza) e ha portato a Roma giovani di valore, ponendo le basi per un progetto a lungo termine, l’unico tipo di programmazione con cui avesse mai avuto a che fare. E forse l’incomprensione di fondo tra Monchi e chi lo ha voluto a Roma è stata proprio questa: da un lato c’era un professionista con alle spalle sedici anni di esperienza e trofei, tutti nella stessa città e con gli stessi colori, legato a tal punto a Siviglia da ammettere candidamente di aver avuto paura di trasferirsi; dall’altro una società a cui l’idea di costruire qualcosa di nuovo e durevole piaceva eccome, ma che non poteva permettersi di concedere a quel professionista il tempo (tradotto: un margine di errore largo a sufficienza) per travasare nel nuovo contesto tutte le conoscenze e i rapporti che lo avevano reso Monchi.

Lui stesso, che ha vinto il primo trofeo a Siviglia dopo sette stagioni di direzione sportiva, ha ceduto alla pressione dell’ambiente giallorosso fino quasi a snaturarsi. In estate, mentre durante la presentazione di Kluivert cercava di guadagnare fiducia e tempo («So bene che per i tifosi il tempo non esiste, ma le società a volte ne hanno bisogno»), finì per dire testualmente: «Se dopo un anno, due anni, non ho vinto niente, prendo l’aereo e vado via». Un tipo di addio che stonava e stona con la sua storia e le sue premesse – il suo contratto valeva per quattro stagioni con opzione per la quinta – ma che è puntualmente avvenuto.

Da Monchi, in sintesi, ci aspettavamo che avrebbe convinto la Roma a seguire un progetto a lungo termine; che, nell’interesse del suo stesso progetto, avrebbe prestato attenzione a bilanci e plusvalenze; che avrebbe puntato su calciatori mediamente giovani, e che cedere quelli con più mercato non sarebbe stato un problema, piuttosto una necessità da cui trarre vantaggio; e che avrebbe tentato qualche azzardo, come Kolarov al primo mercato o Pastore la scorsa estate. Facendo tutte queste cose è stato eccellente, sufficiente o insufficiente a seconda delle prospettive, e dei risultati. Solo che non è riuscito nel costruire un progetto a lungo termine, la cosa più importante, ma anche l’unica per cui avrebbe avuto bisogno del pieno sostegno di chi lo ha voluto con sé. E quindi, Monchi ha fallito? Probabilmente sì. Ma poteva davvero fare molto di più?

Immagini Getty Images