L’espiazione di Sebastian Vettel

Da vincitore a reietto: la solitudine di un (ex) numero uno.

In Turchia, il 25 agosto del 2006, un diciannovenne esordiente, tale Sebastian Vettel, regala tanti sorrisi a tutti, mette a posto la frangetta riccioluta, indossa il casco, sale sulla Sauber-Bmw e dà sette decimi a kaiser Schumi. Non lo Schumi decadente degli anni Mercedes bensì quello agguerrito in lotta per il titolo contro Alonso. Per la Germania tutta è un altro motivo per sentirsi über alles; per i piloti tutti un nuovo problema da affrontare. Il ragazzino diciannovenne, un bambino per i canoni della F1 pre-Verstappen, centra il miglior tempo del venerdì. Quel giorno, tutti ma proprio tutti – basta osservarli, basta che ci si osservi – esclamano uniti: “Questo è un fenomeno!”.

Ad Abu Dhabi, il 25 novembre del 2018, davanti al mondo siede quel che resta di quel ragazzino. Ora è un uomo sconfitto ben oltre i risultati della pista. Mondiale addio, malamente, troppi gli errori, troppe le umiliazioni. Ha la barba sfatta, il capello corto e disordinato, l’espressione depressa del guerriero faccia a terra nel Trono di spade. Non ha quasi più la forza di sollevare lo sguardo. Però ha il coraggio medioevale di non nascondersi. Dice: «Non credo di aver mai avuto problemi ad alzare la mano e ammettere i miei errori. Mi guardo e so di poter essere migliore di come sono stato quest’anno. Devo pensare, devo analizzarmi, devo imparare altro, devo adattarmi per diventare più forte. Perché… sapete… io amo correre però a volte odio correre».

A Monza, il 13 settembre 2008o tale Sebastian Vettel non è più un tale, guida la Toro Rosso e conquista la pole nel Gran premio d’Italia, mettendosi dietro gli Alonso e gli Hamilton e i Rosberg. Tutti ma proprio tutti esclamano: “Ehi, visto? Avevamo ragione: questo qui vola con un ferro da stiro, questo qui è davvero un fenomeno!”. Il giorno dopo, il fenomeno vince anche il primo Gran premio della propria vita e il primo per la piccola scuderia ex Minardi; e lo fa dando lezione sul bagnato agli Alonso, agli Hamilton e ai Rosberg. In quella uggiosa domenica pomeriggio, tutti ma proprio tutti si limitano a guardarsi dritto nella palla degli occhi, pensando alla grandezza di questo giovane ragazzo capace di far vincere una cenerentola. Quando pochi mesi dopo, in Cina, il 19 aprile 2009, appena promosso in Red Bull, Sebastian scodella subito una vittoria, la prima anche per quel team, nessuno ha più bisogno di esclamare nulla. Ormai è nata una stella.

Da fenomeno a scarso della pista il passo non dovrebbe mai essere breve. Dovrebbe almeno esserci tutto un corollario di altre imprese passate a correre in soccorso del fenomeno in difficoltà. Incredibilmente, il guerriero stanco questo scudo non ce l’haA Hockenheim, il 22 luglio del 2018, la stella di Sebastian Vettel finisce definitivamente in un buco nero. Piove poco rispetto a quella Monza lontana dieci anni. Il guerriero triste del Trono di spade è in testa alla corsa. E la corsa è il suo Gran premio di Germania, la sua Hockenheim. Il guerriero guida il Mondiale con otto punti su Hamilton, il guerriero ha più di un motivo per tenere stretta la testa della gara: vuole allungare ancora sul rivale e dedicare il successo al suo presidente. Quella domenica è il giorno dopo il grande choc, il sabato tragico in cui si scopre che Sergio Marchionne sta morendo. È con questo stato d’animo che il guerriero entra nel motodrome di Hockenheim, un Maracanã motoristico con la gente assiepata come allo stadio, e sbaglia. Ancora. Dopo gli errori in Azerbaigian, in Francia, in Austria, lui che con la piccola Toro Rosso, sul bagnato di Monza, aveva dato lezione da esordiente, lui al volante della Ferrari, alle prime gocce finisce dritto contro un muro di gomme. Domenica 22 luglio tutti coloro che per anni, chi con simpatia, chi con ostinazione, avevano continuato a esclamare solo parole di ammirazione, non hanno più dubbi e s’arrendono: “Lo abbiamo sopravvalutato”. Da fenomeno a scarso della pista il passo non dovrebbe mai essere breve. Dovrebbe almeno esserci tutto un corollario di altre imprese passate a correre in soccorso del fenomeno in difficoltà. Incredibilmente, il guerriero stanco questo scudo non ce l’ha.

Il calvario sportivo e il processo di umana espiazione di Sebastian Vettel sono iniziati da tempo. L’errore di Hockenheim fa però da catalizzatore, mentre la posta in gioco gettata al vento funge da amplificatore. La lenta, implacabile espiazione è però cominciata anni prima, l’attimo dopo il trionfo più grande e importante: a Greater Noida, il 27 ottobre 2013, quando Sebastian Vettel vince in India il suo ultimo Gran premio con la Red Bull, conquistando il quarto titolo mondiale di fila. È l’iride che completa un magico poker consecutivo come solo era riuscito a Juan Manuel Fangio e Michael Schumacher. Il ragazzo fenomeno e cherubino con i boccoli e il sorriso e lo sguardo scintillante della Turchia, il ragazzo abile sul bagnato di Monza, il ragazzo diventato pluricampione troppo presto e con troppa facilità rispetto alle leggi non scritte della F1, non lo sa ancora ma si appresta a pagare tutto e con gli interessi.

La miccia sotto Vettel l’accende, volutamente, l’ex boss delle corse, Bernie Ecclestone. Dopo averlo portato a lungo in palmo di mano, coccolandoselo come il futuro Schumi, all’improvviso lo bolla come «talento senza carisma»Colpa del suo non essere social, colpa del modo semplice, per certi versi facile, in cui era approdato ai piani alti del motorismo, colpa del suo non essere cafone come Verstappen, colpa del suo modo di vivere anonimo e semplice, colpa della famiglia perfettina e carina che non scatena mai voci e polemiche, colpa della sua franca normalità. Un mix di splendido e raro perbenismo in Formula Uno che a causa delle troppe vittorie a raffica di quegli anni, del troppo dominio, della troppa perfezione, delle troppe scorrettezze tecniche della sua Red Bull, dei troppi occhi chiusi dei giudici federali, della troppa importanza che i dollaroni energetici del team anglo-austriaco hanno avuto nel circus in quegli anni, si trasforma in una miscela inversamente esplosiva. Così, anziché far esplodere il personaggio agli occhi di tutti, come avvenuto in passato con Schumi, Alonso, Raikkonen e Hamilton, lo prepara a implodere. E la miccia sotto Vettel l’accende, volutamente, l’ex boss delle corse, Bernie Ecclestone. Dopo averlo portato a lungo in palmo di mano, coccolandoselo come il futuro Schumi, all’improvviso lo bolla come «talento senza carisma».

Per Sebastian è l’inizio di una parabola personale e d’immagine alimentata da una corrente di pensiero che in poco tempo si trasforma in pensiero unico per colpa anche della rivoluzione ibrida del 2014 e delle Mercedes che iniziano a dominare, sostituendo le Red Bull nei favori dei poteri forti. Fatto sta, Sebastian espia. Unico pluri-iridato nella storia della F1 costretto ad andare in Ferrari non perché sia “il sogno di ogni pilota” ma per fuggire dal proprio team che ormai ha occhi solo per Ricciardo (tre vittorie a zero il conto con il tedesco quell’anno) e già pensa al baby prodigio Verstappen.

Quando strilla isterico nella radio è talmente vicino al nostro modo normale di essere da smitizzarsi da solo, da perdere quell’aura di grandezza di cui il grande sportivo non dovrebbe mai essere sprovvistoNon sono sfumature, sono sostanza che non fa altro che alimentare, fra il pubblico, la percezione crepuscolare di questo campione. “Ma poverino…” è una delle frasi che più si sente girare fra i giovani appassionati di motori quando si parla di Vettel. Perché quando strilla isterico nella radio è talmente vicino al nostro modo normale di essere da smitizzarsi da solo, da perdere quell’aura di grandezza di cui il grande sportivo non dovrebbe mai essere sprovvisto. Perché lui vince, ma lo fa cantando Toto Cutugno mentre Hamilton danza il rap e si tatua crocifissi e prega e alza gli occhi al cielo e sembra sempre in missione sulla terra per conto del dio dei motori. Non c’è confronto fra i due, non c’è partita. Eppure, fino a pochi mesi fa, il bilancio era di quattro Mondiali a testa. Di più, la nuova F1 in mano agli americani che investe molto sui giovani e i social lo sa bene: le parole “Vettel” ed “errore” sono tra le più cliccate e associate sul web. E fa tristezza sapere che se si prova ad aggiungere “idiota” ecco che spuntano gli insulti rivolti a Sebastian dal baby prodigio e baby viziato Verstappen. Insulti recenti e insulti passati, che datano 2016, quando l’olandese al volante aveva 17 anni e zero vittorie e Sebastian quattro titoli in tasca e 52 successi. Ma quando mai si era visto un grande campione trattato così da una matricola?

È dunque con la consapevolezza del calvario che sta vivendo questo uomo che a Melbourne, il 17 di marzo, nel momento in cui il semaforo si spegnerà, chiunque abbia un po’ di cuore dovrà guardare con umana partecipazione al guerriero con la barba sfatta che prova a rialzarsi da terra. Dovremo tutti idealmente inchinarci e aiutarlo, prendendolo per il gomito, spolverandogli l’armatura rossa e, in fondo in fondo, tifare per lui. Perché con la sua parabola sportiva e le sue imperfette normalità ci assomiglia più di tutti degli altri pilotoni e pilotini del circus. E, soprattutto, perché la sua sarà una lotta impari. Sa che i tifosi non credono più in lui. Ha capito che anche la Ferrari non crede più in lui. Tant’è che gli ha messo accanto il nuovo Verstappen: Charles Leclerc. E sa che il monegasco ha modi diversi da Max fuori pista, ma stessi metodi e crudezza in gara. Di più: sa che la Ferrari non lo ha detto, non lo dice, non lo dirà mai perché non può, non deve, non si fa. Però se, pronti e via, il giovane Leclerc iniziasse a vincere, a Maranello non sarebbe un problema bensì la soluzione di un problema. E allora, pensando alla lettera in italiano scritta a Natale al team, il guerriero Sebastian intenerisce ancor di più: «E io vi prometto che per il 2019 darò tutto il possibile per raggiungere il nostro grande obiettivo». Anche no.

Perché la testa di questa nuova Ferrari è ormai nel futuro. E non si chiama solo Leclerc. Si chiama Mick Schumacher. È già sotto contratto. Il dna di papà gli ha regalato piede pesante. La tragedia di papà gli ha costruito spalle grandi. Più grandi di quelle di Vettel. E la Turchia e il 2006 e quel magico esordio sono troppo lontani. Peggio. Sono dimenticati.

Dal numero 26 di Undici
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