Romagnoli, capitano

Intervista al difensore del Milan, tra responsabilità e obiettivi futuri.

Complici le domande non eccezionalmente brillanti dei cronisti a bordocampo a fine partita, ma complice anche la crudeltà del formato stesso di quelle interviste, che pretendono delle parole posate quando istintivamente verrebbero soltanto urla o silenzi, complice tutto questo, solitamente nemmeno le risposte di Alessio Romagnoli in quelle circostanze si distinguono per i contenuti memorabili. Si riconosce, tuttavia, un certo carattere, una sicurezza non comune. Risponde a tono, risponde in fretta, risponde con la voce sicura e senza momenti di sospensione. Le riguardo mentre mi godo i replay dei suoi due gol consecutivi al novantesimo, a ottobre, prima in Milan-Genoa 2-1, poi in Udinese-Milan 0-1. Pochi giorni prima ci eravamo visti per questa intervista, in un loft sui Navigli a Milano, un giorno di pioggia intensa come quella che ha bagnato la vittoria del Milan contro il Genoa, e davanti alla televisione pensavo all’ultima cosa che mi aveva detto Alessio, l’ultima frase di tutta l’intervista: «Io mi riguardo sempre, mi riguardo ogni partita che faccio».

Tra tutte le domande che gli vengono fatte al termine di quelle due partite, che hanno imposto una svolta a questa prima parte di stagione del Milan, facendo sentire ai rossoneri il profumo di Champions League, ce n’è una (dopo Udinese-Milan) che riesce a spezzare la sicurezza gagliarda con cui di solito si esprime Alessio Romagnoli. «È il miglior momento che vivi da quando sei al Milan?», gli chiedono. Lui, per la prima volta, tentenna, e un po’ sorride, poi glissa, dicendo «eh, è un bel momento», poi pensa ancora, poi ammette che «fino ad adesso sì». «Ma spero che il migliore ancora debba arrivare», conclude.

A volte, e capita spesso quando un giocatore inizia a essere titolare molto giovane, ci si dimentica del reale dato anagrafico, e di quanto sia impressionante l’esperienza accumulata in un arco di tempo che comprende ancora gli ultimi echi della post-adolescenza. Romagnoli, mentre scrivo, ha superato le 170 presenze in carriera, di cui 126 soltanto con il Milan, di cui è capitano. E tutto questo l’ha fatto a 23 anni. Ma se da un lato è un tipo consapevole, dall’altro appare timido. Forse non semplicemente timido: non è facile decifrare il suo carattere, che da un lato è quello di un ragazzo di pochissime parole, uno che non sembra amare molto le chiacchiere e che verrebbe da definire “semplice”, ma dall’altro sa anche essere tagliente e perentorio al limite dello spaventevole. Quindi quando gli dico che ho guardato la lista dei capitani nella storia del Milan, di quelli prima di lui, Romagnoli quasi non mi lascia finire: «Sì, lo so, sono il secondo più giovane. Prima Baresi, poi io». Gli dico che la fascia di capitano, al suo braccio, sembra tornata “a casa”, nel solco di una generazione di altri capitani storici. «È una cosa bella questa», dice sorridendo. Ma mi sembri un po’ freddo su questo argomento. «È che non mi piace parlare di queste cose», taglia corto. Perché ti sembra che ti stai vantando? «Sì». Eppure sei consapevole di chi sei, di dove sei. «Io sono consapevole di essere un buon giocatore, ma non mi piace andare in giro a dire che sono bravo». È in questa timidezza burbera che si vede tutta la sua giovinezza.

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Ricominciamo, allora, parliamo di cose poco calcistiche, di cose facili e belle, di cosa ti piace fare. Si dice che Alessio Romagnoli abbia una passione per il cibo. «Mangio tantissimo, sono un mangione», e si allarga in un sorriso bello e puerile. Alessio è di Anzio, non di Roma, e quando gli chiedo dove preferisce mangiare, o cosa, risponde sottolineando un legame con il suo territorio che è già piuttosto marcato nell’accento: «Quando posso vado ai Castelli». Si appassiona quando parla di Anzio, di Nettuno, della famiglia, degli amici di oggi, quelli del calcio, e di quelli invece dell’infanzia. «Ho diversi amici tra i compagni e gli ex compagni», racconta, «ma gli amici di una volta sono sempre i più fedeli. Mi portano a mangiare, prenotano sempre loro», e quindi non gli viene in mente nessun ristorante nello specifico da consigliarmi per una gita gastronomica. Poi alza le spalle: «Ma lì i ristoranti sono tutti buoni, tutti proprio. Vai ad Ariccia e sei a posto».

A Milano si è trasferito giovanissimo, a 20 anni compiuti da poco. L’impatto è stato difficile, lo dice un po’ con una battuta e un po’ forse no. «Milano? Tragico», poi ride, sdrammatizza, dice «no, scherzo, Milano è bellissima». E gli piace che sia una città schiva, forse come lui: «Mi piace l’educazione e il modo di porsi delle persone milanesi. Sono molto discrete, a Milano puoi andare in giro senza che ti chiedano chissà quante foto. Si sa che la gente del nord è diversa da noi, e io la vedo come una cosa positiva. Quando vado in giro preferisco essere un ragazzo di 23 anni che va in giro». Però, c’è qualcosa nel suo orizzonte visivo ed emotivo che manca. Fa una faccia come per dire “è naturale!”, e dice: «È che io sono sempre vissuto al mare! Io sto bene al mare, e chi vive al mare fa sempre fatica». Genova, allora, fu una tappa intermedia perfetta. «Sì, abitavo tra Bogliasco e Pieve, avevo preso una casa di fronte al mare».

La Sampdoria è stata la prima tappa lontana da Anzio, lontana da Roma. Tredici presenze in due anni di Roma, dal 2012 al 2014, che si sono trasformate in 30 nel 2014/15 a Genova dopo quello che in gergo giornalistico sportivo si chiama “corteggiamento”, ma che nel caso di Romagnoli è stato qualcosa di più di una metafora, perché le telefonate con Mihajlovic si erano protratte per mesi, prima della firma del prestito. Ancora oggi lui dice: «Mihajlovic è quello che mi ha insegnato più di tutti». E tra i compagni? A questo punto lui ci pensa, poi dice: «Leo», intendendo Bonucci, «e Giorgio», intendendo questa volta Chiellini. Ma non è convinto. «Ma penso che ti insegnino di più gli allenatori che i compagni», taglia corto. Lui, come capita spesso ai portieri e ai difensori, non è nemmeno nato come centrale. All’inizio, ma qui si parla di scuola, giocava a baseball, perché ad Anzio, anzi a Nettuno, è il baseball lo sport cittadino. «L’hanno portato gli americani con lo sbarco», racconta, «e da piccolo ci giocavo, ma solo a scuola. C’era l’obbligo. Ma non mi è mai piaciuto, è uno sport troppo lento». Poi le scuole calcio: «Ho iniziato centrocampista perché da piccolo mi piaceva fare gol, ma penso che piaccia a tutti i bambini. Poi mancavano dei difensori e allora piano piano mi hanno spostato indietro. Ma non avevo la passione per difendere, all’inizio».

Le cose però non sono andate affatto male, visto che quando ha nove anni lo chiama la Roma, e visto che gioca molto spesso nelle categorie riservate ai più grandi, fino all’esordio in prima squadra con Zeman. «Per fare il difensore bisogna essere più maturi che per fare gli attaccanti», dice del suo ruolo. «Perché devi pensare prima di loro, li devi capire». Provo a testarlo sulla sua, di maturità. Ti sei sentito sempre sicuro? Risponde sì, per tre volte. E la paura di andare in prima squadra? «Non avevo paura. Rispetto per i giocatori più grandi, più esperti, ma paura no». Poi, con un meccanismo che gli ho già visto usare nel corso dell’intervista, sdrammatizza un discorso che si stava facendo troppo intimo sorridendo: «E comunque il calcio è una cosa divertente». Spiegami meglio quel concetto della maturità. «Quando attacchi puoi permetterti di sbagliare, di essere più spensierato. Quando difendi devi essere concentrato, capire in anticipo quello che vogliono fare gli attaccanti, anzi ancora prima, dove potrebbe arrivare la palla». Fino a qui tutto normale, poi continua, e mi dico che forse ho trovato un argomento di cui ha voglia di parlare più liberamente: «È un lavoro soprattutto di testa». Quindi difendere non significa tenersi sulla difensiva, non è un atteggiamento passivo? «No, anzi, è molto attivo. Devi cercare di metterti in una posizione che a lui, l’attaccante, sembra favorevole, ma che invece è favorevole per te. Il più delle volte siamo noi a indirizzare l’attaccante su dove andare, non viceversa». Alla fine si è convinto a difendere, ci si è abituato, dice, ma c’è una cosa che gli piace molto, e forse qui si vede ancora il suo vecchio ruolo da regista, o forse, ancora, il profumo di un’attitudine che gli ha permesso di diventare capitano del Milan a 23 anni. Quindi cosa ti piace di più, a essere difensore? «Che posso vedere tutto il gioco. Che ho la visione di tutto».

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Torna a essere più burbero quando gli ricordo dei paragoni con Nesta. «Io penso che i paragoni non siano la cosa più bella del mondo», ed è una frase lapidaria che lascia poco o nessuno spazio a repliche. Ma lo vorrei stanare, farlo uscire dal suo guscio di modestia, che è in realtà un guscio di maturità per la cui esistenza un tifoso del Milan dovrebbe essere, mi sembra, molto felice. Quindi parliamo di quella fascia di capitano, come è finita sul tuo braccio. «Me l’hanno detto quando Leo è andato via. Pochi giorni dopo. Viene il mister e mi dice: te la senti?». E tu hai detto subito di sì? A questo punto si scioglie un po’, per la prima volta, come gli ho visto fare in televisione, e ride. «Beh penso che la risposta sia ovvia». Ma non è scontato prendersi responsabilità così, non è da tutti saperle portare (e molti calciatori, finalmente, ne stanno parlando apertamente, come Per Mertesacker, che ha ammesso la scorsa primavera di aver sofferto per anni di ansia da prestazione). Romagnoli soppesa la parola responsabilità ripetendola, «sì, ne hai di più», ci pensa, continua, «ma magari sono solo responsabilità a livello mediatico, a livello di gruppo, in campo fai quello che hai sempre fatto. La fascia non si può rifiutare. Si deve accettare con gioia, non con paura».

Anche sul Milan nasconde le emozioni – «beh dai il Milan è sempre il Milan, sempre un’emozione, sempre un onore» – ma non riesce a nascondere le ambizioni. Succede quando gli chiedo come è stato vincere la Supercoppa italiana, contro la Juventus nel 2016, e lui risponde soltanto: «Ho vinto poco, lo so, ma spero di vincere di più». Ma no, come è stato? Si riprende: «Bello, molto bello. Bello perché vincere contro la Juventus è bello, e noi eravamo una squadra di ragazzi. È un bene avere un gruppo giovane, si fa gruppo in fretta, si va a cena insieme, abbiamo quella spensieratezza che si ha da giovani». Il reparto difensivo del Milan è così, è giovane ma è affiatato. Romagnoli ci tiene a sottolineare l’importanza di questo aspetto: «Devi avere fiducia totale nei tuoi compagni in difesa e nel portiere. I movimenti li devi sapere a memoria». Quindi la scuola italiana dei difensori è più in salute di quanto si pensi? «Io penso che è ancora la migliore del mondo. Quelli passati lo sono stati, quelli presenti lo sono, con Chiellini, Barzagli, e Leo, e spero lo saremo anche noi futuri». E Romagnoli, tu che difensore sei? Semplicissimo: «Io sono uno che mi piace giocare la palla». Ma non si rischia di esagerare, con questa ossessione di uscire palla al piede? Semplice, ancora: «Ma no, è normale correre dei rischi». Che vuoi che sia.

E si torna allora alla maturità, quella del difensore e quella della persona, del ventitreenne che fa il capitano. Sui “giovani”, dice che «è vero, ci sono alcuni ragazzi che pensano più ai social network che al calcio». Lui è diverso: «Io sono cresciuto in un gruppo in cui i giovani erano quelli che portavano i palloni, che portavano la porta. Non c’era nonnismo, ma una cosa un po’ così, diciamo. Adesso è cambiato, magari non è colpa dei ragazzi ma di chi gli sta intorno». Di lui dice che è un perfezionista – «molto perfezionista» – e lo noto anche alla fine, quando gli chiedo se un difensore se li ricorda sempre i suoi errori. «Tipo?», chiede. Tipo quando ti sei perso Pazzini, durante una partita contro il Milan, e tu stavi alla Roma. «Pazzini al Milan? Colpo di testa?», chiede, ma la domanda è retorica. «E come no! Ma gli errori si fanno, fanno esperienza. Fanno parte del percorso».

Dal numero 25 di Undici
Foto di Luca Grottoli
Nella foto in apertura, giacca di denim Dsquared2