L’importanza dell’evoluzione per i calciatori

Cambiare il proprio gioco può essere il modo giusto per migliorarsi.

Nell’eterno dibattito su chi sia più forte tra Messi e Cristiano Ronaldo quasi tutti convergono su un punto: se da una parte l’argentino ha un talento più puro, più cristallino, dall’altra CR7 è un giocatore più “costruito”. Probabilmente è vero: il portoghese ha cambiato molto il suo gioco nel corso degli anni, ha lavorato con volontà e applicazione ossessiva per migliorarsi, perfezionarsi, fino a trasformarsi in una macchina infallibile da quasi 700 gol in carriera. In realtà, è un discorso che vale anche per Leo Messi: il giovane talento che amava partire in slalom con la palla incollata al piede sinistro è diventato un uomo offensivo totale, il catalizzatore assoluto del gioco del Barcellona, probabilmente oggi Leo si trova al suo stadio definitivo dopo essere stato falso nueve con Guardiola, poi un vero centravanti, poi di nuovo un esterno destro con maggiori compiti di regia. Anche Messi, in fondo, è un giocatore costruito. Come per Ronaldo, la capacità di rinnovare se stesso, di sommare senza sottrarre nuove abilità e nuove capacità di leggere e interpretare il gioco, rappresenta uno dei principali motivi della sua grandezza.

Messi e Ronaldo sono un caso-limite, come in tutte le categorizzazioni legate al calcio. Però aprono la strada a una considerazione: modificare il proprio gioco è una strada per trovare la migliore espressione delle proprie potenzialità. È un concetto applicabile anche ad altri giocatori, ad esempio Zlatan Ibrahimovic. Fabio Capello, qualche settimana fa a Sky, ha raccontato: «Quando è arrivato alla Juve, Ibra non sapeva calciare». Le parole dell’allenatore friulano spiegano il lavoro di perfezionamento cui si è sottoposto lo svedese. D’altra parte, a inizio carriera giocava anche più lontano dalla porta, e solo in un secondo momento si è trasformato in un attaccante in grado di segnare in ogni modo, con coordinazioni e conclusioni al limite della gravità.

Cambiare approccio al calcio rappresenta anche un’opzione per conservare lo standard di rendimento nonostante l’avanzare dell’età, dopo l’inizio di un inevitabile calo fisico. Nell’Atalanta di Gasperini, ad esempio, Gómez ha modificato il suo raggio d’azione: non più esterno a sinistra con la licenza di tagliare al centro, ma trequartista con il compito di dare uno sfogo alla costruzione bassa e di accorciare sempre in zona palla. Una metamorfosi dal tempismo perfetto: la sensazione di non poter più vedere il miglior Papu, quello della stagione 2016/17  – 16 gol e 10 assist –, stava diventando una certezza. Eppure dall’inizio del 2019 l’argentino è tornato ad essere decisivo per i nerazzurri, solo in un modo diverso, nuovo, meno legato alla fase realizzativa (per quello ci sono Ilicic e Zapata), ma attraverso una maggiore connessione con i compagni durante la fase di costruzione.

Il “nuovo” Papu Gómez

L’autocostruzione di un gioco più vario allontana i calciatori dalla specializzazione, e li porta a crearsi nuove opportunità. Probabilmente, l’esempio più calzante in questo senso è quello di Dries Mertens: se Sarri non gli avesse dato una nuova dimensione facendolo giocare punta centrale nel 4-3-3, oggi sarebbe un giocatore meno completo, e anche meno spendibile per il suo attuale allenatore – che, per dire, lo ha impiegato sempre come attaccante nel 4-4-2. Mertens ha cambiato il suo gioco, e sta continuando a cambiarlo: oggi sembra non avere più la tendenza a cercare molte volte il dribbling  (sta registrando i numeri più bassi per dribbling riusciti a partita da quando è al Napoli: 0,5 in questa Serie A). Se inizialmente la scelta di trasformare Mertens in un attaccante puro poteva essere letta come un adattamento d’emergenza, la realtà è che il belga ha trovato la miglior versione di sé dopo aver accettato questo cambiamento – e averlo assecondato alla perfezione. Probabilmente, era l’unica strada possibile perché potesse diventare/rimanere un giocatore decisivo in una squadra di vertice in Serie A.

Sempre a Napoli, ora è Ancelotti che sta provando a influire in maniera decisiva sul gioco di un altro calciatore importante: Lorenzo Insigne. Per anni l’attaccante napoletano ha disegnato il suo calcio stando attento a rimanere all’interno della sua comfort zone, nel ruolo di esterno sinistro a piede invertito con compiti di regia; aveva un set di movimenti che mandava a memoria e giocate predefinite che poteva tirar fuori a piacimento ogni volta che se ne presentava l’occasione. È stato Ancelotti ad invitarlo a uscire da lì, a sperimentare qualcosa di nuovo, a scoprire un mondo diverso. Oggi Insigne svaria su tutto il fronte offensivo e punta molto più spesso la porta da diverse posizioni, il suo allenatore lo ha trasformato in un attaccante, forse nel miglior attaccante per il suo Napoli: attualmente siamo sui 20 gol prodotti (13 marcature e 7 assist), nonostante un netto rallentamento negli ultimi due mesi. E oggi Insigne, paradossalmente, è anche il miglior attaccante possibile anche per la Nazionale: Mancini lo ha provato come punta centrale nelle uscite autunnali, e probabilmente dovremmo considerare Insigne come il miglior candidato per il ruolo di punta ai prossimi Europei – seppure in un contesto diverso rispetto a quello del Napoli.

Dai casi di Mertens e Insigne si intuisce una regola generale: gli allenatori possono essere determinanti nel percorso evolutivo di un calciatore. Incontrare l’allenatore giusto, al momento giusto della propria carriera, può aprire innumerevoli strade. Probabilmente, Guardiola è il tecnico che più di ogni altro sa dare nuovi impulsi tattici ai suoi giocatori, da oltre un decennio la sua maieutica produce nei calciatori che lavorano con lui dei miglioramenti che ne stravolgono, in positivo, la vita sportiva. L’elenco è lunghissimo e include Dani Alves, Messi, Lahm, Alaba, De Bruyne. Se pure restringessimo il campo di ricerca alla sola esperienza di Manchester, troveremmo molti elementi che hanno cambiato gioco da quando hanno incrociato la loro strada con il tecnico catalano. In questa stagione l’esempio più significativo è quello di Bernardo Silva, Guardiola l’ha alternato negli slot di esterno offensivo e di mezzala, trasformando un artista tecnico ma anarchico in un giocatore totale, in grado di gestire la squadra insieme al pallone. In questo modo, Bernardo Silva ha migliorato tutte le statistiche personali, offensive e pure difensive, i suoi progressi hanno sorpreso lo stesso Guardiola, che ha elogiato così il portoghese: «È diventato impossibile rinunciare a lui, in questo momento siamo Bernardo più altri dieci. Non so cos’ha fatto, ma la semplicità con cui passa dall’esterno al centro è sorprendente. Il suo decision making, la lettura delle situazioni in attacco e in difesa, come vive la partita. Ogni suo match è stato perfetto».

L’anno scorso, invece, furono Sterling e Walker a trovare una nuova dimensione. Sterling è passato dallo status di esterno-esplosivo-ma-fumoso a quello di attaccante da oltre 20 gol a stagione – 23 con 17 assist nel 2017/18, già 19+16 nella stagione in corso. Walker è arrivato a Manchester come prototipo di terzino di spinta, poi si è trasformato in un difensore polivalente, spendibile anche come terzo in una difesa a tre. Le ultime stagioni di Sterling e Walker mostrano quanto valore può produrre un cambiamento di ruolo e di gioco: l’aumento della qualità assoluta ha fatto crescere il del valore di mercato, quindi anche la possibilità di avere stipendi più alti – non a caso, Sterling ha da poco firmato un’estensione contrattuale che lo rende uno dei più pagati della Premier). I Mondiali in Russia hanno alimentato questa sensazione: Sterling ha giocato da titolare, come seconda punta al fianco di Kane, Walker è stato schierato da difensore centrale e non da laterale nel 3-5-2 di Southgate. Senza la crescita determinata dal loro aggiornamento tattico, forse, avrebbero potuto soffrire la concorrenza di Rashford e Trippier.

Non è un caso che il titolo di questo video sia: “Bernardo Silva 2019 ● | Midfield Engine”

In un calcio sempre più dinamico e liquido, i giocatori che tendono all’universalità sembrano aver preso il sopravvento su quelli monodimensionali. Certo, esistono delle eccezioni: gli esterni del Bayern Ribery e Robben, o gli spagnoli Suso e Jesus Navas, hanno conservato le proprie peculiarità, non hanno mai modificato in maniera netta il proprio stile di gioco. Anche elementi del genere possono mantenere alti standard di rendimento nel corso degli anni, a patto di poter riprodurre con assoluta efficacia, quindi ai limiti della perfezione, i gesti tecnici che li contraddistinguono. Ad esempio, l’eleganza monocorde di Robben ha ispirato un articolo di Rory Smith sul New York Times, in cui il giornalista ha elogiato la capacità dell’olandese di costruirsi una carriera ai vertici del calcio europeo partendo dalla sua signature-move, il movimento a tagliare il campo da destra verso il centro che lo ha reso tanto riconoscibile quanto inarrestabile. Non è un bug di sistema, piuttosto dimostra che i grandi giocatori specialisti e specializzati possono affermarsi anche seguendo una strada diversa, contraria alla tendenza del momento. Solo che sono sempre più rari.

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