Roberto Mancini e il nuovo stile dell’Italia

Una Nazionale di rottura: giovane, offensiva, bella da vedere.

«Spero che Kean faccia quello che è capace di fare. In tranquillità e soprattutto in allegria», spiega Roberto Mancini alla vigilia della prima gara del girone di qualificazione per Euro 2020, contro la Finlandia. Sta rispondendo ad una domanda sul possibile impiego del 19enne attaccante della Juventus, destinato a diventare di lì a poco il più giovane titolare nella storia della Nazionale italiana in partite ufficiali (aveva già debuttato, nell’ultima amichevole con gli Usa). Quella locuzione “in allegria” sintetizza tutto il senso della gestione di Mancini: il tempo della vecchia Italia tesa, corrucciata, ansiosa di non essere all’altezza della propria storia, incline alla polemica, fondata storicamente su giocatori esperti in grado di reggere il peso della maglia, è terminato. La nuova Italia deve essere ad immagine e somiglianza di Kean: leggera, entusiasta, giovane, e, appunto, allegra.

Dieci mesi dopo l’avvento di Mancini, la Nazionale ai nostri occhi è effettivamente questa. Non più conservativa ma proattiva, non più difensivista ma propositiva, non più grezza ma elegante, stilosa, bella da vedere. In sostanza è tutto il contrario di ciò che è sempre stata. Mancini ha ribaltato i (pre)concetti su cui l’Italia del calcio era fondata, con un ammirevole coraggio visto che questi significanti sono associati alle vittorie della Nazionale lungo la storia. Il ct ha cancellato l’idea del “noi vinciamo solo così” – con squadre basate sui giocatori prima che sul gioco, sulla difesa prima che sull’attacco -, sfruttando la tabula rasa post-Svezia e costruendo da zero una nuova identità, basata su principi che storicamente non ci appartengono, ma che oggi sembrano ormai accettati. Il merito di Mancini è averli ha sapientemente inseriti a piccole dosi, quasi senza che ce ne accorgessimo, lungo gli ultimi dieci mesi in cui non c’era sostanzialmente nulla da perdere a livello sportivo.

Dunque, ancor prima di cambiare l’Italia, Mancini ha modificato l’idea d’Italia. E per farlo ha utilizzato tutti gli strumenti a sua disposizione, modificando in parte anche se stesso. Ad esempio, ha calibrato la comunicazione sulle esigenze di una Nazionale reduce dal punto più basso della sua storia, perlomeno recente, che non riusciva quindi a trovare motivo di ottimismo. Non per caso il Mancini ct è sempre stato pacato, sorridente, disponibile, rilassato, come non lo si era mai visto prima. E non ha mai pronunciato frasi negative, in questi dieci mesi: non si è mai lamentato del poco tempo a disposizione con la squadra, né delle critiche che gli sono state mosse nel primo periodo in cui la nazionale non trovava né gioco né risultati, al massimo si è lasciato andare un “gli italiani giocano poco nei club” lo scorso settembre, ma senza il tono di polemica tipico di molti dei suoi predecessori.

E poi, a quest’ultimo aspetto, ha rimediato in prima persona, cioè convocando e lanciando in Nazionale giocatori che non avevano esperienza in prima squadra o ne avevano troppo poca per giustificare un approdo in azzurro. Attraverso le convocazioni precoci di Zaniolo e Kean, ma anche la promozione a titolari di Chiesa e Barella, entrambi classe 1997 e privi di esperienza internazionale, Mancio ha ribaltato un altro preconcetto, ovvero che la crescita dei calciatori debba avvenire nei club, e che la Nazionale sia solo il punto di approdo finale. In sostanza, ha invertito il processo: anziché pretendere un salto di qualità autonomo dei giovani talenti (Chiesa e Barella non militano nei top-team italiani, Zaniolo e Kean invece al momento della prima convocazione avevano zero o pochi minuti in campo con Roma e Juve) li ha spinti in prima persona verso un livello superiore, utilizzando l’Italia come palcoscenico sperimentale, in cui i ragazzi possono confrontarsi con le responsabilità che il calcio di massimo livello comporta. È  come se il ct avesse trasformato la Nazionale in un club, creando la propria formazione ideale a prescindere dal pregresso dei calciatori a disposizione e sfruttando l’assenza dell’obbligo di vincere subito per costruirla.

E ancora: la nuova dinamica nella selezione dei calciatori è coerente con la tipologia di gioco che Mancini ha scelto per l’Italia, a sua volta antitetico rispetto alla tradizione. Anziché abbassare il baricentro, puntando sulla fase difensiva, lo ha alzato il più possibile, comandando una costante pressione in avanti. Invece che puntare sulla fisicità – una caratteristica che, tra l’altro, ha sempre ritenuto rilevante nella sua carriera da tecnico di club – ha fatto all-in sulla tecnica, accettando il dazio in termini di statura: si pensi al centrocampo, composto da Jorginho, Verratti e Barella, ma anche a Florenzi come terzino destro titolare e al tridente tecnico su cui sembra voler puntare, vista l’assenza di un centravanti di riferimento, ovvero Chiesa-Insigne-Bernardeschi. E invece che giocare di reazione, lasciando il pallone agli avversari, pretende che l’Italia governi il gioco, che moltiplichi i passaggi, a costo di spazientire un pubblico che, aggrappandosi al dna della Nazionale italiana, spesso fatica a comprendere il senso di questa strategia.

Mancini, di fatto, ha “sfidato” un intero paese, senza che quest’ultimo si accorgesse della portata del cambiamento in atto. La sua è quindi una rivoluzione culturale che ribalta l’idea d’Italia, sotto ogni punto di vista. Ha sfruttato al meglio il vuoto lasciato dal Mondiale mancato, costruendo un’impalcatura da zero, senza alcuna influenza del passato. Una nazionale di rottura. Paradossalmente, per il Mancio è stata vantaggiosa l’assenza di un potere politico ingombrante nel momento della sua elezione a ct: è stato scelto da una Federazione commissariata, di passaggio per definizione, che quindi gli ha concesso davvero carta bianca. E Mancini ha saputo coglierne i lati positivi, diventando l’uomo di riferimento della nuova era.

Ecco perché anche l’estetica gioca una parte fondamentale e, in qualche modo, chiude il cerchio disegnato da Mancini. La squadra, per come gioca e per la tipologia di calciatori che schiera, è coerente con l’immagine che il ct veicola in persona. Mancini è infatti riconosciuto come un uomo alla moda, elegante – ai tempi del Manchester City i giornali britannici lo avevano descritto come “un’icona dello stile italiano”. L’estetica è secondaria nel calcio, ma non è inutile. Non lo è soprattutto per una nazionale come l’Italia che aveva smarrito sé stessa, e che da tempo era scivolata in un limbo intermedio, lontano sia dal passato che da qualsiasi futuro. L’immagine elegante di Mancini è il punto esclamativo su una nuova identità per la Nazionale, senza la quale sarebbe impossibile ricominciare – a prescindere dal fatto che possa essere gradita o meno, giusta o sbagliata.

Poco più di 24 ore dopo le due parole-chiave pronunciate da Mancini, «in allegria», Moise Kean segna il 2-0 che chiuderà i conti con la Finlandia, trasformandosi nel secondo marcatore azzurro più giovane di sempre (davanti a Gianni Rivera e dopo Bruno Nicolé) ed esulta afferrando il collo della maglietta e mostrando al pubblico della Dacia Arena il nome e il numero sulle sue spalle, come se fosse un ragazzo all’oratorio, divertito, felice. Allegro, appunto. Come gli aveva chiesto Mancini. E prima di lui aveva aperto i giochi Nicolò Barella, che di anni ne ha 21, e che aveva festeggiato il gol correndo “alla Tardelli”, senza nascondere la dirompente emozione. Il tutto in uno stadio nuovo, promosso ad esempio da emulare, davanti ad un pubblico insolitamente in festa, contento di trascorrere un sabato sera al fianco dell’Italia. Della nuova Italia.

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