A ognuno la sua firma

Perché funzionano le "signature moves", e quali sono le migliori.

«Devi sorprendere gli avversari, lasciarli sempre nell’incertezza. Fare la stessa cosa, più e più volte, senza variazioni sul tema, non funzionerà a lungo. Bisogna sempre cercare di fare qualcosa di diverso, che sia o un passaggio oppure partire da un’altra posizione, altrimenti smetterà di funzionare. E se qualcosa funziona non bisogna mai smettere di lavorare per migliorarla»: nel dicembre 2016, Arjen Robben aveva commentato così su Espn il motivo dell’apparente inarrestabilità del suo celebre movimento a rientrare sul piede sinistro partendo da destra (spesso chiuso con una conclusione a giro sul palo lungo). È il paradosso alla base del successo delle signature moves più riconosciute e riconoscibili del calcio contemporaneo: l’implementazione della novità applicata alla ripetitività di un’azione e alla velocità d’esecuzione della stessa, in modo che l’avversario, pur sapendo esattamente cosa aspettarsi, ne resti sempre e comunque spiazzato.

E se nel 2010 uno studio di Shanti Ganesh, specialista di neuroscienze cognitive dell’Università di Nijmegen, aveva dimostrato che la corsa in parallelo del difensore che fronteggiava Robben (ovvero il motivo principale che lo portava a essere saltato sul penultimo movimento in cui l’olandese taglia verso l’interno del campo) era una sorta di riflesso condizionato che non poteva essere corretto – «Ci sono alcuni movimenti del corpo che sono più veloci dei comandi impartiti dal cervello» –, per l’ala del Bayern Monaco è tutta una questione di read and react: «Molto dipende dall’intuito e dall’esperienza. Spesso si reagisce alla posizione di difensori e centrocampisti, è la situazione a determinare la tua corsa, non si può sempre pensare di puntare direttamente la porta».

«È velocissimo, soprattutto con la palla, e questo lo rende molto difficile da fermare quando decide di tagliare dentro il campo. L’unico modo per provare a fermarlo è stargli molto vicino: se non ci riesci finirai male». Ricardo Rodríguez, ex Wolfsburg, nella sua personale spiegazione del “Robben”

Ogni signature move, quindi, più che un’affermazione di stile personale e di tecnica superiore, è la risposta immediata agli stimoli del campo di gioco, la soluzione potenziale al problema posto dal diretto marcatore: più necessità che ricerca del barocchismo a ogni costo, più bisogno che vezzo puramente estetico. Anche nel calcio dominato da quel Leo Messi talmente forte da non aver bisogno di dover sviluppare un colpo che sia suo, e suo soltanto.

Esattamente come Robben, proprio per rispondere adeguatamente a ciò che gli veniva settimanalmente proposto contro, anche Cristiano Ronaldo, che di Messi è il naturale deuteragonista, ha sviluppato un suo personale trademark per tagliare più velocemente verso l’interno del campo: il “Ronaldo Chop” consiste nello spostarsi la palla con il tacco del piede forte rispetto al lato di corsa, per poi ritrovarsi fronte porta e sfruttare al meglio il suo essere naturalmente ambidestro dopo aver anticipato un tempo di gioco. Un principio ereditato dal suo idolo di gioventù, quel Ricardo Quaresma che con la sua “trivela” (il colpo d’esterno a giro sul palo più lontano) ha dimostrato come poter cogliere in controtempo portieri e difensori pur calciando da una posizione e in condizioni apparentemente svantaggiose.

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Poi c’è chi ha perfezionato qualcosa di già visto aggiungendoci un tocco del tutto personale e innovativo, in relazione alle proprie caratteristiche fisiche. E se il doppio passo di Ronaldo, nella sua applicazione in un calcio in cui la tecnica in velocità e la brutalità dei cambi di direzione in corsa avevano già raggiunto un’importanza preminente, ha rappresentato la naturale evoluzione di quello di Biavati (oltre che un progressivo distacco dalla “pedalada” spesso fine a se stessa di Denílson prima e Robinho poi), la “ruleta” che Zinedine Zidane ha elevato a forma d’arte, prende le mosse dalla “Marianela” resa celebre dall’uruguagio Juan Evaristo, con l’aggiunta di un ulteriore movimento a protezione del pallone in modo che il giocatore potesse portarselo avanti con la suola dopo averlo usato come perno per aggirare il diretto marcatore. Una virtù nata dalla necessità di ovviare a una struttura (1,85 m per 80 kg) non propriamente associabile a un dribblatore d’elite: «Ci ho messo sette anni per imparare la ruleta, sette anni di calcio in strada per sei ore al giorno», raccontava Zizou all’apice della sua carriera da calciatore, ricordando l’infanzia marsigliese e la scuola dello street football. «Quando non ci riuscivo mio fratello Djamel, che aveva imparato a farla prima di me, mi sgridava. Ancora oggi non passa giorno al campo d’allenamento che io non dedichi qualche minuto in più per migliorare la tecnica».

«Quel giorno pensai che non bisogna esagerare, perché se si sbaglia si diventa ridicoli». Ovvero Zidane che ricorda una partita ai tempi del Cannes, squadra che lo ha lanciato nel grande calcio, quando le “ruletas” furono addirittura due consecutive (a 2:17)

L’utilizzo della suola come strumento per liberarsi dell’avversario diretto e preparasi una giocata più pulita in un solo movimento è stato poi ripreso da Sergio Busquets in funzione del suo ritmo sincopato (la “Busquets Move” appare lenta solo a chi la guarda davanti alla tv), mentre chi ha sintetizzato in un’unica giocata l’ideale compromesso tra la bellezza e l’utilità – diversamente dalla “boba” di Andres D’Alessandro, la cui irriverenza, soprattutto nella sua prima versione corredata di tunnel, si è dimostrata molto più adatta ai palcoscenici sudamericani che non a quelli europei – è stato Ronaldinho con il suo “elastico”. Anche in questo caso si tratta del legato tecnico proveniente da un altro mondo e da un altro calcio (l’inventore è unanimemente considerato Rivelino che, però, ha sempre ricordato come la paternità del gesto fosse da attribuirsi al giapponese Sergio Echigo), riadattato a contesti in cui spazi e tempi d’esecuzione e il rapporto azione/reazione sono andati restringendosi sempre più.

La velocità con cui il pallone passa dall’esterno all’interno del piede del Gaucho, spesso a spezzare il raddoppio in una porzione di campo molto ridotta, tanto da fermo quanto in piena corsa, è la migliore spiegazione sul come la filosofia del Joga Bonito possa essere declinabile anche con modalità più dirette e meno estrose. In riferimento al livello di Ronaldinho, ovviamente. O a quello di Iniesta che, negli anni, ha brevettato una skill dal principio simile ma fisicamente opposto (dall’interno verso l’esterno, con il secondo tocco utile ad allungarsi il pallone sulla direttrice di corsa) denominato “La Croqueta”.

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E in Italia? In era moderna sono due i calciatori che possono dire di aver accostato il proprio nome a un colpo specifico: Francesco Totti ha rimodulato il “Panenka”, riadattandolo alle esigenze di una conclusione ad alta percentuale anche a difesa schierata; Alessandro Del Piero, invece, ha destrutturato il tiro a giro per poi reinterpretarlo in modo che la conclusione in allontanamento assumesse una parabola che non si limitasse ad aggirare il portiere ma, contestualmente, lo scavalcasse, in un modo che sarebbe poi diventato solo “suo”. «Sono momenti di grazia assoluta, il vero nirvana del gioco del calcio. Le cose più belle che ho fatto nella mia carriera le ho fatte così, nel fondo di questa solitudine, svuotato di ogni pensiero e dunque libero dalla pressione psicologica, dagli schemi del mister, dalla ragionevolezza, da ogni logica di azzardo o convenienza: le ho letteralmente fatte e basta», scrisse un giorno l’ex numero 10 della Juventus. In fondo ogni signature move, prima di sostanziarsi nella tranquillità della sua ripetizione, è nata esattamente così.

Primo controllo a predisporsi in parallelo rispetto alla porta, “rocker step” preparatorio alla conclusione in allontanamento, traiettoria che aggira e scavalca il portiere, pallone che va a morire all’incrocio dei pali più lontano: dopo quello al Borussia Dortmund, quello alla Steaua Bucarest può essere considerato l’epitome del gol “alla Del Piero”