Moise Kean poteva fare qualsiasi cosa, e avere ragione comunque

Il razzismo si combatte, non si ignora.

Forse decostruire quello che è successo durante Cagliari-Juventus rende più facile capire esattamente da che parte stanno le colpe: un gruppo di tifosi del Cagliari – che siano stati duecento o duemila non ci interessa – imita il verso stereotipato di una scimmia (le scimmie, naturalmente, utilizzano una lingua complessa ed evoluta, imparagonabile a quelle onomatopee bambinesche) per offendere tre calciatori della Juventus di origine africana, e non bianchi: Moise Kean, italiano, Blaise Matuidi, francese, Alex Sandro, brasiliano. Il primo, che ha 19 anni ed è nato a Vercelli, segna un gol ma non esulta. Quello che fa è rimanere in piedi sotto la curva del Cagliari – da cui provenivano alcune di quelle onomatopee – e rimanere immobile, con le braccia aperte, senza parlare, senza urlare, senza fare nulla. In molti – anche l’allenatore di Kean e l’ex capitano del Milan Leonardo Bonucci, che gioca con Kean – hanno fatto capire che Kean abbia fatto male a non esultare in quel modo, provocando i tifosi che già da prima gli urlavano onomatopee scimmiesche.

Qualche settimana prima l’allenatore argentino dell’Atlético Madrid, Diego Simeone, esultava dopo un gol della sua squadra contro la Juventus portandosi le mani verso il bacino, che aveva nel frattempo inarcato in avanti a imitare una gesto sessuale, girato verso la tribuna del Wanda Metropolitano. Durante la partita di ritorno allo Juventus Stadium Cristiano Ronaldo, attaccante della Juventus nativo di Madeira, esulta allo stesso modo, dopo un gol, rivolto verso lo spicchio di stadio occupato dai tifosi dell’Atlético. Il messaggio, o forse l’invito, è chiaro, eppure non ci sono grandi polemiche, e dire che nessuno aveva fatto il verso della scimmia rivolto verso Ronaldo – forse perché a Madeira non ci sono scimmie – e il caso si chiude senza nemmeno aprirsi.

Moise Kean, insultato in quanto nero, doveva invece evitare di “provocare” le persone che lo insultavano in quanto nero, si è detto e si è scritto. Ho provato a capire il perché, ma non ci sono riuscito, e mi sembra lapalissiano che ogni tentativo di sostenere questa tesi sia una difesa di un atteggiamento razzista. Moise Kean è stato dileggiato con la motivazione più abietta nella storia dell’umanità, la stessa – identica, nemmeno camuffata – motivazione che nel corso dello sviluppo della civiltà occidentale ha prodotto la tratta degli schiavi, ha promosso e giustificato linciaggi e impiccagioni, ha inventato zoo umani nelle città europee per far sì che i bianchi vedessero, dietro le sbarre, che strani quei bipedi neri vestiti in modo diverso da loro: che i suoi pigmenti sono diversi da quelli predominanti in Europa, e che di conseguenza lui e i suoi simili abitano un gradino più basso nella scala evolutiva dai bianchi occidentali, lo stesso gradino di scimpanzé o degli orangutan. Moise Kean, messo di fronte a questa situazione, avrebbe dovuto evitare di provocare gli aguzzini, gli insultatori, i razzisti che lo schifavano e lo schifano in quanto nero. Ma – tralasciando il fatto che Moise Kean, durante Cagliari-Juve, non ha provocato nessuno – Moise Kean avrebbe potuto legittimamente anche sputargli addosso, insultarli in modo uguale o peggiore di quello del suo compagno Cristiano Ronaldo durante Juventus-Atlético, urlar loro “adesso state zitti, razzisti di merda”, e pure cose più pesanti, gravi, violente. Perché? A me sembra semplicissimo: perché Moise Kean ha ragione, è una vittima, e gli altri sono colpevoli di discriminazione razziale, qualcosa che una società civile non può permettersi di tollerare e nemmeno ignorare, ma deve combattere con ogni mezzo.

Danny Gabbidon, ex giocatore gallese, ha spiegato in un breve articolo sul Guardian, intitolato “Se non avete provato cos’è il razzismo, è molto difficile capirlo”, cosa si prova a essere insultati in quanto non bianchi: «Ti girano in testa tutti i tipi di sentimenti, rabbia inclusa», ha scritto dopo che in Montenegro-Inghilterra, partita di qualificazione per Euro 2020 giocato il 25 marzo a Podgorica, migliaia di montenegrini hanno insultato Callum Hudson-Odoi. «Provi a gestire tutto nel miglior modo possibile, e ovviamente ti aspetti che le autorità agiscano nel modo più appropriato. In fondo, però, sai che non succederà niente, e così è andata». Quando Gabbidon venne insultato con i “monkey chants”, durante un Serbia-Montenegro – Galles finì che la Federazione serbo-montenegrina venne multata dalla Uefa per circa 12mila euro, e tutto si chiuse lì. Quello che dovremmo ricordarci molto bene e molto più spesso, quando – noi europei, noi bianchi – giudichiamo il modo in cui giocatori come Moise Kean, Blaise Matuidi, Kalidou Koulibaly, Kevin-Prince Boateng, Mario Balotelli reagiscono a insulti razzisti, è che noi – europei, bianchi – non siamo mai stati dalla parte della vittima. Né noi in quanto individui, né la società in cui siamo cresciuti.

In Italia – uno dei Paesi europei che meno e in modo peggiore hanno affrontato il proprio passato razzista e coloniale – il razzismo è presente negli stadi – non lo dico da dietro una scrivania: ho frequentato le curve per parecchi anni – in modo esplicito, e nell’opinione pubblica in un modo più mascherato ma comunque lampante: il fatto che Moise Kean venga costantemente accostato a Mario Balotelli è una delle manifestazioni di questo razzismo. “Speriamo che Kean non faccia la fine di Balotelli”, dicono, “Kean ha fatto il Balotelli”, anche. Non Cassano, non Totti, non Materazzi. Non ci si prenda in giro dicendo che Balotelli è l’idolo di Kean: l’utilizzo come termine di paragone di un carattere fumantino e selvaggio del più celebre calciatore italiano di origine africana è razzista. Inconsapevole, forse, ingenuo, ma razzista. Combattere il razzismo ogni giorno significa anche questo: accettare che molti gesti che noi – europei, bianchi – compiamo quotidianamente e inconsapevolmente, o pensieri che elaboriamo, possano avere un automatismo non particolarmente progressista. Significa guardarsi da fuori, immaginarsi in altre scarpe meno privilegiate, porsi domande, essere capaci di fare un passo indietro, chiedere scusa.

L’altro modo, quello più adatto a combattere la gente che imita macachi e scimpanzé per offendere persone come Moise Kean, prevede uno spettro di azioni molto più ampio, che Kean poteva esplorare ben più a fondo di quanto ha fatto. Non esiste una distinzione tra un razzismo più grave e un razzismo meno grave: se lo si vuole combattere bisogna combattere i razzisti, e non ignorarli.

 

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