Il senso di un dominio

L'ottavo scudetto consecutivo della Juventus non è mai sembrato in discussione.

Trovare un nuovo senso o una nuova chiave di lettura alla Juventus campione d’Italia sta diventando sempre più difficile, stagione dopo stagione. Il dominio dei bianconeri sulla Serie A è una condizione che sembra difficilmente scalfibile nel medio-lungo periodo – tra l’altro parliamo di un unicum nella storia dei cinque principali campionati europei, a patto di non considerare le particolari contingenze che permisero alla Dynamo Berlino di diventare campione della Germania Est ininterrottamente tra il 1978 e il 1988 –, anche perché non si riesce ancora a capire se il divario che le avversarie non riescono a colmare dipenda maggiormente da un progettualità innovativa, riconosciuta e riconoscibile, dentro e fuori dal campo, da parte della Juventus, oppure dall’incapacità delle altre società di migliorare e migliorarsi per costituire un’alternativa credibile, o che possa durare più della singola annata – come il Milan 2011/2012 o il Napoli 2017/2018.

Il fatto che Massimiliano Allegri, in vista del ritorno (rivelatosi poi disastroso) dei quarti di finale di Champions League contro l’Ajax, abbia potuto schierare consapevolmente una squadra imbottita di seconde e terze linee nella partita (poi persa contro la Spal) che gli avrebbe potuto consegnare l’aritmetica certezza del titolo, ben più della circostanza che lo stesso sia arrivato una settimana dopo nella gara interna con la Fiorentina, è sintomatico di come si sia probabilmente giunti al punto di non ritorno per quel che riguarda la mancanza di competitività della Serie A. Se una squadra, per quanto forte, arriva a potersi permettere di “decidere” quando e come vincere una maratona di 38 partite, vuol dire che c’è un problema. Un problema che non è – non può essere – la Juventus o della Juventus, ormai costantemente proiettata verso la ricerca della definitiva affermazione europea. Del resto già prima dell’inizio del campionato, analizzando i possibili effetti dell’acquisto di Cristiano Ronaldo, James Horncastle si chiedeva sulla BBC: «Alla luce della posizione favorevole di Andrea Agnelli alle istanze di creazione di una Superlega europea, non è forse questo il segnale più chiaro che la Juventus vuole lasciarsi alle spalle i polverosi campi della Serie A per un nuovo mondo dove un giorno tutte le migliori squadre del continente si sfideranno tra di loro ogni settimana?».

In effetti, l’idea che l’arrivo del fuoriclasse portoghese potesse portare dei benefici che andassero al di là di maggiori introiti ai botteghini degli impianti che ogni settimana ospitano questa versione riveduta e corretta degli Harlem Globetrotters (e con gli avversari a recitare, più o meno consapevolmente, il ruolo degli Washington Generals), si è rivelata fallace fin da subito: la facilità quasi irrisoria con cui, a fine settembre, i bianconeri rimontarono il Napoli allo Stadium dopo l’iniziale gol di Mertens, nel primo vero turning point stagionale, è stato solo il primo segnale di una squadra troppo consapevole, troppo più forte rispetto agli altri, in un modo che i risultati sul campo fossero solo la naturale conseguenza di una superiorità fisica, tecnica e psicologica talmente elevata da sembrar provenire da un’altra epoca e, di conseguenza, da un altro calcio.

E quando, a dicembre, il vantaggio sulle inseguitrici aveva ormai raggiunto la doppia cifra dopo l’1-0 sull’Inter griffato Mandzukic (14 vittorie e un pareggio nelle prime 15 partite), Mark Doyle scrisse significativamente su Goal che «questa potrebbe essere la miglior versione della Juventus negli ultimi sette anni; a questo punto nessun record e nessun avversario è al sicuro. E questo è ovviamente un merito. Non è certo colpa della Juventus aver trasformato la Serie A in una sorta di parata trionfale».

Le parole di Mark Doyle sono pienamente centrate nella realtà: la Juventus non ha avuto problemi ad amministrare un vantaggio che, anzi, si è ulteriormente dilatato con il passare delle settimane e dei mesi, nonostante alcune problematiche endemiche e strutturali siano rimaste irrisolte – come si è poi potuto appurare nelle partite di Champions. Al di là del dibattito sulle scelte strategiche di Allegri, parliamo della stagione complicata di Dybala e Douglas Costa, probabilmente i due elementi della rosa con maggiori qualità tecniche dopo Ronaldo, decisivi per vincere il duello con il Napoli nella scorsa stagione e quest’anno relegati ai margini, per problemi fisici e/o difficoltà a farsi collocare nel nuovo sistema tattico; a centrocampo, sono mancati a turno Emre Can e Khedira (per l’ex Real Madrid solo 10 partite da titolare tra campionato e Champions League), con il tecnico livornese che ha dovuto creare o inventarsi soluzioni alternative, e alla fine è stato costretto a utilizzare tantissimo Pjanic e Matuidi, a cui ha aggiunto la costanza di rendimento di Bentancur; in avanti, solo Ronaldo ha tenuto medie realizzative importanti (19 reti in Serie A, 26 in totale): Dybala (10 gol stagionali), Mandzukic (9) e Kean (7) hanno messo insieme lo stesso numero di marcature del portoghese. Tra l’altro, i gol del giovane attaccante della Nazionale sono arrivati tutti nella seconda parte dell’anno.

Insomma: la stagione della Juventus non è stata facile, come capita a ogni squadra, eppure la solidità del primato non è stata minimamente scalfita dalle inseguitrici, incapaci di sfruttare nella pratica (24 punti su 24 nelle partite fin qui disputate contro le cinque squadre che seguono i bianconeri in classifica) quei difetti che, almeno in Serie A, sono rimasti tali solo a livello teorico. Questo è l’aspetto più significativo, la circostanza che deve indurre a una riflessione, soprattutto per chi ha tutto l’interesse ad attaccare, quindi a rovesciare, il dominio del club bianconero. Che, dal canto suo, ha invece dimostrato assoluta autorevolezza nella gestione di tutte le sfide interne, tanto da non lasciare scampo agli avversari, distanti almeno 20 punti dalla profondità, dalla qualità, dalla completezza della rosa di Allegri, dalla forza e dalla consapevolezza di un gruppo addestrato alla vittoria, e che ogni anno scopre nuove motivazioni e nuove risorse.

Il resto è il racconto di un campionato che ha registrato l’impatto del meteorite CR7 – 19 gol e 11 assist in 27 presenze, talvolta senza dover nemmeno mettere le marce alte – su una realtà diametralmente opposta a quelle cui era stato precedentemente abituato; l’esplosione di un Moise Kean che si è fatto progressivamente spazio nelle rotazioni nel periodo più importante; la spaventosa continuità di rendimento di Chiellini, alla prima stagione da capitano, con la sua assenza in termini di conduzione fisica e psicologica del gioco che si è chiaramente avvertita nel doppio confronto con l’Ajax; la buonissima annata di Wojciech Szczęsny, che fin da subito ha spazzato via i dubbi per il post-Buffon, dal punto di vista tecnico ed emotivo; la sensazione che Emre Can e Cancelo possano diventare i pilastri della nuova era, in attesa di capire come sarà impostata la programmazione della prossima stagione, a partire dalla guida tecnica fino alle operazioni di mercato. Anche perché c’è da provare un nuovo assalto all’Europa: è innegabile che l’eliminazione con l’Ajax abbia un po’ annacquato la gioia per l’ottavo scudetto consecutivo, un trionfo forse accolto in tono minore – nonostante l’impresa abbia una portata storica, soprattutto se confrontata ad altri contesti, ad altre ere calcistiche. Questa, però, è la realtà: la Juventus contemporanea insegue la Champions, nel frattempo imperversa nel playground del campionato di Serie A, senza avere rivali davvero all’altezza, e allora tutto sembra scontato. Probabilmente, questo è il prezzo da pagare quando si è troppo più forti degli altri, quando l’ambizione di vincere ti impone a cercare di andare sempre più in là.