La Serie A dei tristi ritorni

Le squadre italiane ricorrono all'usato sicuro: un sintomo della scarsa progettualità?

Il primo è stato Pantaleo Corvino, nell’estate del 2016. Dopo quattro anni lontano dalla Fiorentina, ha ritrovato – in maniera quasi indecifrabile, e impronosticabile – la società a cui ha legato i suoi successi come direttore sportivo. Nel 2012 era stato allontanato nel segno del rinnovamento. L’ultimo, invece, è Vincenzo Montella, che con Corvino ora condivide l’ambiente di lavoro: l’ex Aeroplanino siede di nuovo sulla panchina viola, nonostante l’abbandono, datato 2015, verso palcoscenici più ambiziosi. E poi, tra gli altri: Martin Cáceres, di nuovo in mezzo alla retroguardia juventina; Claudio Ranieri, allenatore della Roma. Insomma: più che della restaurazione, da mesi la Serie A sembra il campionato dei ritorni, il torneo del già visto, dei déjà vu.

L’impressione più immediata, al di là dell’effettiva bontà dei risultati che verranno, è quella di un insieme di cerchi concentrici che si chiudono: grandi amori che “fanno dei giri immensi e poi ritornano”, per usare una citazione trita di Antonello Venditti. È vero: in molti casi si tratta di nomi simbolo del nostro campionato che ritrovano gli ambienti a cui viene naturale associarli, e la retorica – anche con l’aiuto del tempo, che edulcora i ricordi – va a nozze con questi revival. Verrebbe facile abbandonarsi dall’idea di un campionato romantico: eravamo tutti più giovani dieci anni fa, e vedere – ad esempio – il tifosissimo Claudio Ranieri di nuovo alla Roma non può che far sorridere, oltre che ispirare una certa nostalgia. Ma sotto questo strato di retromania, c’è una Serie A con tanti limiti: quasi tutti i recenti ritorni mostrano società in balia dell’improvvisazione e dell’usato sicuro, fra idee riciclate e sconfessioni di nuovi e ambiziosi progetti.

Chiaro: non c’è nulla di sbagliato nel percorrere strade già battute, e alcune (come il ritorno di Corvino) portano persino buoni risultati; semplicemente, non si possono ignorare i contorni tristi della vicenda. E quindi remake, sì, ma di bassa lega: low cost, fuori tempo massimo. E che – soprattutto – raccontano amari fallimenti sportivi, individuali e collettivi. Nell’anno in cui Zidane entra ed esce dal Real Madrid, non parliamo neanche di Igor Tudor che ritrova l’Udinese: il tempo trascorso è troppo breve e, per quanto rappresenti una retromarcia sul progetto Velázquez-Nicola, il croato ha ancora i contorni della scommessa. Come, del resto, quella del francese lontano dai Blancos sembra più una parentesi – difficile da decifrare – che uno spartiacque, con prospettive egemoniche sul futuro. Al contrario, la nostra Serie A può permettersi solo ritorni in tono minore, che mostrano club a corto di idee e ancorati al proprio – troppo spesso opaco, ma dimenticato – passato.

Facciamo ordine. Dicevamo di Corvino: il suo ritorno a Firenze è emblematico, non tanto perché sarà il direttore sportivo della squadra viola fino al 2020 (sta svolgendo il solito, grande lavoro di scouting), ma per come esemplifichi la filosofia dirigenziale dietro queste scelte. Il suo allontanamento, nel 2012, segnava un rilancio da parte delle proprietà, per società e tifosi Corvino era a fine ciclo, e per questo il suo ritorno – dopo quattro ottime (ma dispendiose) stagioni di gestione Pradè – è sembrato indecifrabile, è come oscillare fra il riciclaggio di idee e l’usato paradossalmente sicuro. Forse, più che una “minestra riscaldata” (per usare un’altra espressione retorica, per quanto di matrice negativa), per i Della Valle resta il nome più affidabile per costruire una Fiorentina giovane ed economicamente sostenibile come quella attuale. Ma è difficile affermarlo con certezza: quello che conta è il ripescaggio di un nome dato per superato, per gestire un futuro stavolta low profile.

Non è diversa la vicenda di Vincenzo Montella, per quanto incroci anche le aride traiettorie professionali del tecnico. Da una parte (ancora) la Viola, che in emergenza post-Pioli gli ha proposto un nuovo futuro insieme (contratto da un milione, fino al 2020) nonostante l’allenatore avesse già trovato a Firenze le sue annate migliori, quando i budget erano ben altri. Dall’altra il tecnico campano, che lontano dalla Toscana ha vissuto solo esperienze fallimentari: una stagione disperata alla Sampdoria, e due esoneri fra Milan e Siviglia. E allora: entrambi al punto di partenza, fra disastri progettuali e un “nuovo ciclo” (per citare proprio Corvino in merito) costruito su un tecnico considerato usurato, quattro anni fa. Il punto è che ora Montella avrà fra le mani un gruppo con meno ambizioni (e, sulla carta, meno potenziale) di quello della sua prima esperienza alla Fiorentina.

E se Domenico Di Carlo al Chievo racconta semplicemente una storia che non è mai sbocciata fuori da Verona, sa di fallimento anche il rientro dopo dieci anni di Sinisa Mihajlovic al Bologna: per lui, che sotto le Due Torri, nel 2009, aveva vissuto la sua prima esperienza da allenatore, la sciarpa rossoblu ha l’aria di una bocciatura da parte del nostro calcio. Concreto con le piccole (Catania, la Sampdoria del post Serie B, lo stesso Bologna) ma impacciato in contesti più ambiziosi (Milan, Fiorentina), il serbo paga la débâcle al Torino della scorsa stagione, che ha macchiato retroattivamente un percorso in panchina già abbastanza contraddittorio. E sì, da questo febbraio sta salvano una squadra disperata, trovando quel feeling col pubblico che nell’esperienza originale forse era mancato: ma – per lui – c’è poco da festeggiare, visto che dal fondo della classifica si gioca probabilmente l’ultima, vera occasione della carriera.

La storia di Claudio Ranieri è – se vogliamo – parzialmente diversa. Lontano dalla Roma, precisamente a Leicester, ha firmato la più grande impresa sportiva di questa generazione, e nella capitale è tornato, verosimilmente, per godersi una sorta di pensione (comunque impegnativa) in mezzo alla sua gente – poco importa che nel 2011 fosse stato esonerato, il tempo addolcisce i ricordi, e resta comunque l’uomo della rimonta all’Inter di Mourinho, oltre che un tifoso. Ma a Trigoria, al di là del romanticismo, il suo rientro come traghettatore racconta di una squadra che già a marzo ha sconfessato la coppia Di Francesco-Monchi di fronte alla siccità di risultati, mettendo in calendario, per il prossimo giugno, l’ennesima, ingombrante rifondazione.

Nemmeno una società attenta alla programmazione come la Juventus è riuscita a tenersi a riparo dall’effetto nostalgia nell’ultima sessione di mercato: quando a gennaio Benatia ha salutato, per Fabio Paratici il nome di Martin Cáceres è tornato utile a colmare l’emergenza apertasi nella retroguardia juventina, perlomeno a livello numerico. Poco importa che, lontano dai colori bianconeri sposati una prima volta nel 2010, e poi dal 2012 al 2016, il difensore uruguagio abbia avuto soprattutto incomprensioni, fra Lazio ed Hellas Verona. Per i tifosi, il ricordo della prima, duttile riserva della BBC è ancora affettuoso, per quanto in campo adesso ci sia un giocatore avviato nella fase discendente della carriera, segnato dalle noie muscolari. E che, soprattutto, per ora non è riuscito ancora a lasciare il segno.

Su tutti, comunque, il ritorno più rilevante e significativo rimane quello di Manolo Gabbiadini alla Sampdoria dopo il biennio 2013-2015: per Giampaolo, da gennaio il suo sinistro è un upgrade tecnico notevole in davanti, per quanto l’attaccante debba ancora integrarsi davvero con i meccanismi offensivi della squadra. Ma insomma: c’è tempo per pensare a un futuro insieme. Quello che lascia l’amaro in bocca, qui, sono i fallimenti racimolati lontano dalla Liguria. Di più: Genova è stata, probabilmente, l’unica dimensione in cui la punta abbia saputo esprimersi con continuità. A Napoli e a Southampton, del resto, le sue avventure hanno seguito la stessa parabola: un exploit fulminante in avvio e poi declino, fino alla panchina e alla difficoltà costante di imporsi come il centravanti ibrido (e atipico) che è.

Gabbiadini, come anche altri cavalli di ritorno, ha un rapporto unico e personale con l’ambiente che lo ha riaccolto, e sarebbe cinico soprassedere sull’elemento romantico, nostalgico e identitario che tiene uniti questi “ritorni a casa”, pur nelle loro diversità. Ma sarebbe altrettanto miope abbagliarsi con la retorica gigiona del figliuol prodigo: il riciclaggio di idee, l’usato sicuro, la memoria storica troppo breve e l’ignorare l’essenza di certi fallimenti (che sono tanti, qui) restano questioni che la Serie A dovrebbe tenere a mente. Non c’è nulla di male nel percorre strade già battute, specie se in stato di emergenza, e alcune porteranno persino dei vantaggi di risultati e sostenibilità. Ma se tornare diventa un’abitudine, e dimenticare il coraggio e le lezioni del passato una certezza, crescere – come campionato – di questo passo sarà sempre più difficile.

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