Federico Chiesa, il ragazzo del futuro

Il big bang, poi una carriera in ascesa: parla una promessa del calcio italiano.

Il segreto di Federico Chiesa lo scopro in fretta. Mi chiedevo, prima che arrivasse allo studio nella periferia fiorentina prenotato per l’occasione, mi chiedevo, come ha fatto, come fa, un giocatore, o meglio, un ragazzo così giovane, 21 anni, a non conoscere frenate nel suo percorso di crescita. Nemmeno tre anni fa, in una serata agostana del 2016, debuttava tra la sorpresa generale con i professionisti, contro la Juventus allo Stadium; sono passate due stagioni e mezzo e Federico Chiesa non si può definire con una parola netta e nitida, perché è tante cose insieme – leader tecnico della Fiorentina benché giovanissimo, e poi c’è la Nazionale, e poi chissà quante altre cose.

Ma ora che è arrivato, e scampanella con garbo dietro la porta dello studio, felpa e pantaloni sportivi addosso, il segreto me lo confessa con candida naturalezza, che subito scopro essere il suo tratto caratteriale. Come si fa a volare alto, e a non perdere mai quota, sta tutto nell’amare alla follia quello che fa: «Ogni giorno vado in allenamento con l’idea di migliorare qualcosa, è il mio obiettivo quotidiano. Per me è bello giocare a calcio, è bello stare in campo, è la mia vita. Il calcio viene veramente prima di tutto», e il sorriso gli si allarga sul volto. Allora provo a prenderlo in contropiede: dai, parlami delle tue rinunce da giovane, insomma, mica dev’essere stato facile a 16 anni saltare la discoteca per preparare la partita del giorno dopo. E invece: «Non mi pesava assolutamente. Anzi, ero io che volevo stare a casa. Il calcio mi piaceva troppo, ero concentrato su quello. Non rinuncerei mai a un allenamento per andare a una festa, non l’ho mai fatto. Non è nel mio carattere, tutto questo mi ha portato a essere dove sono. Oggi, rifarei tutto».

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«Non rinuncerei mai a un allenamento per andare a una festa, non l’ho mai fatto. Non è nel mio carattere»Esterno ferocissimo, veloce e potente, ogni giorno sembra aggiungere qualcosa al suo gioco. Il gol, per esempio. Non ha mai segnato tantissimo negli scorsi anni – sei reti nel corso della stagione 2017/18 – e qualcuno, il ct Mancini su tutti, gli ha consigliato: devi fare più gol. Arriva il 2019, prime quattro partite, segna sette volte. Doppietta al Toro in Coppa Italia, altrettanti al Chievo in campionato, e poi ancora in Coppa la sua prima tripletta da professionista, contro la Roma. Al Franchi, in una serata da sogno, con la Fiorentina che vince 7-1. Per Chiesa dovrebbe essere il momento più alto di una pur giovane carriera, ma il suo punto di vista dà spazio a un’altra interpretazione: «Per me è stata più importante la doppietta al Chievo, in campionato, tre giorni prima. Eravamo in dieci, stavamo pareggiando. Quella doppietta ha aiutato la squadra a venir fuori da una situazione difficile. Contro la Roma ho segnato tre gol bellissimi, ma in un 7-1 fanno meno la differenza». Dice che l’arrivo di Muriel in viola è coinciso con una maggior attenzione in allenamento alla fase realizzativa: «Abbiamo aumentato le esercitazioni di smarcamento, di attacco alla profondità, tagli, inserimenti e conclusioni. Questi risultati sono il frutto di un lungo lavoro. Ma per me il gol è un bonus: se arriva bene, ma la prestazione è sempre più importante».

È forte la suggestione di associare Federico, il suo stile di gioco, al padre Enrico, che a Firenze ha giocato a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Ma, più che per caratteristiche tecniche, colpi e vezzi in campo, il legame tra padre e figlio sta in quella sfrenata passione – la chiave di volta. «Torno a casa e c’è mio padre sul divano, con la tv accesa su Sky Sport. Guarda qualsiasi tipo di partita, e io mi aggrego. Poi restiamo lì a parlarne…». Il calcio è rito familiare, e si estende anche al fratello più piccolo, Lorenzo, che è appena entrato a far parte dei Giovanissimi della Fiorentina. Era lui il raccattapalle che Federico ha abbracciato, vicino alle panchine del Franchi, dopo il gol segnato alla Spal, a settembre. E poi ci sono mamma Francesca e la sorella minore Adriana, che studia all’università a Milano. Una famiglia unita, che ha avuto un peso determinante nella carriera di Federico.

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Perché, diversamente da molti calciatori di successo, Federico non aveva nulla del predestinato. Nella Fiorentina arriva a dieci anni, dopo aver iniziato, qualche anno prima, nella vicina Settignanese. Ma nei Giovanissimi non gioca quasi mai – a volte lo mandano persino con i ragazzi più piccoli. «Il mio fisico non era pronto come quello degli altri, e per due o tre anni ho fatto fatica a trovare spazio. Quando hai 14, 15 anni, hai proprio voglia di giocare a calcio, lo vedi come una passione. A quell’età, quando non giochi, ti viene da dentro una delusione… una delusione passionale. Certo, ho pensato tante volte di mollare. Ma i miei genitori, la mia famiglia, ci hanno sempre creduto. Io ci ho sempre creduto. Quando non giocavo, mi dicevo: vabbè, non ho giocato questa, giocherò la prossima. Era un modo per andare avanti, per avere un pensiero positivo».

«Tengo tantissimo al lavoro, a tutto quello che ruota intorno, dall’alimentazione al resto»Così Chiesa trova la strada da percorrere, e che poi non ha più abbandonato: «Visto che non giocavo, la partita per me erano gli allenamenti settimanali. Mi ha aiutato molto, perché mi ha tirato fuori qualcosa da dentro. È il lavoro duro che poi mi ha ripagato. Ed è la spinta che mi ha portato ad arrivare fin qui, in Serie A, e che ora mi sprona a migliorare ogni domenica. Tengo tantissimo al lavoro, a tutto quello che ruota intorno, dall’alimentazione al resto. Prendi Cristiano Ronaldo. Non ha il talento di Messi, però ha vinto il suo stesso numero di Palloni d’Oro. Ed è lassù ogni volta, ogni giorno, a vincere trofei. Un professionista esemplare come lui insegna che per arrivare e restare al top bisogna stare attenti a ogni piccolo particolare».

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Ha 18 anni quando Paulo Sousa lo prende da parte e gli dice che farà parte del ritiro precampionato della Fiorentina. Lui, ragazzino della Primavera, non se lo aspetta. «In quel ritiro stavo veramente sognando a occhi aperti. Mi ricordo che ero al tavolo con giocatori importanti, come Borja Valero, Bernardeschi, Astori… vivevo un sogno, ero entusiasta di far parte di quel gruppo. Sousa vide in me grande entusiasmo, positività, voglia di crescere. Mi ha dato un’opportunità fantastica e per questo lo ringrazierò sempre. Quei pochi giorni di ritiro sono stati fondamentali».

Nel corso della stagione, dopo l’esordio contro la Juventus, accresce continuamente il suo minutaggio, fino a diventare un punto fermo della squadra. Ridendo, ricorda anche l’insegnamento più grande della sua prima stagione da rookie: «Segnai il primo gol da professionista a Baku, contro il Qarabag in Europa League, e subito dopo venni espulso. Il mister mi disse: si gioca con il cuore, ma anche con la testa. Porterò sempre con me questo consiglio. In realtà all’ultima di campionato mi feci espellere in trenta minuti. Il mister mi disse “ma allora non hai capito niente”. Insomma, me l’ha detta due volte questa cosa. Però è vero, in campo si va con passione e voglia di vincere, ma prima di tutto si deve usare la testa. Bisogna ragionare in una logica di collettivo. Poi è chiaro che nella giocata ci vuole l’istinto, la fantasia, quello che ti viene ti viene».

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Da allora Chiesa ha bruciato le tappe. Nell’estate 2017 gioca tutte le quattro partite con l’Under 21 agli Europei, qualche mese dopo, nel marzo 2018, debutta in Nazionale maggiore. Conclude la stagione in crescendo e comincia quella in corso di slancio, gol al Chievo in campionato e onnipresente nelle gare in azzurro di Nations League. «In Nazionale c’è tanto entusiasmo. Un nuovo ciclo, un nuovo allenatore. Siamo su una buonissima strada, lo abbiamo dimostrato con i recenti risultati. E con il gioco. I gol per ora sono stati pochini, ma continuando su questa strada arriveranno. Quando giochi in Nazionale hai una responsabilità in più, è più difficile, si alza il livello, devi ragionare di più. Però è bellissimo. Per me il solo fatto di esserci, di allenarmi in mezzo a tanti giocatori forti, vale tantissimo. È una sensazione indescrivibile».

E poi c’è una nuova generazione di talenti, di cui Chiesa è parte integrante: «Da qualche anno a questa parte le squadre puntano sulla crescita dei giovani, e in quasi tutte le squadre c’è un giocatore forte italiano. Zaniolo, o Barella, sono molto forti, stanno facendo molto bene. Ma attenzione, perché non possiamo essere subito al livello della Francia. Noi veniamo dalla delusione della non partecipazione al Mondiale, mentre i loro giovani sono entrati in un gruppo già forte, consolidato. È un percorso diverso. Quando abbiamo giocato contro la Francia in amichevole, mi ha impressionato tantissimo Mbappé. Anche se ha un anno in meno di me, è il calciatore che ora mi piace di più. È stratosferico. Mi auguro un giorno di fare quello che ha fatto lui, ma ce n’è di strada da fare. Lui è su un altro pianeta. Ci sono giocatori che impiegano una carriera per raggiungere i suoi traguardi, lui a vent’anni ha già vinto un Mondiale».

«Astori è stato fondamentale nella mia crescita. Guardando lui ho creduto ancora più nelle mie idee, nel seguire la mia strada»Però Chiesa ha già assaporato una grossa responsabilità. A novembre, contro il Bologna, con l’assenza di Germán Pezzella per squalifica, ha indossato per la prima volta la fascia da capitano della Fiorentina. È il secondo più giovane nella storia dopo Zelante Salvatorini, centrocampista negli anni Venti. Una fascia che a Firenze non è una qualunque: è la fascia di Davide Astori. «È stato emozionante indossare la fascia numero 13. Tenerla al braccio è stata una responsabilità unica, prendere il posto di Davide… In quella partita ho capito quanto fosse difficile portare una fascia così importante. A Germán devo fare tantissimi complimenti, lo ritengo una persona fantastica, con un carattere e una leadership incredibili. Si vede che ha appreso molto da Davide. Per me Davide è stata una persona fondamentale nella crescita, come persona e come calciatore. Mi ricordo il primo giorno che arrivai in prima squadra: è stato il primo a spiegarmi tutto, anche se in quel momento non era ancora capitano. Un leader, e un uomo fantastico. Guardando lui ho creduto ancora più nelle mie idee, nel seguire la mia strada. Negli spogliatoi c’è ancora il suo armadietto con tutto, con la sua foto. Non abbiamo tolto niente. È proprio accanto al mio armadietto. Anche il suo posto a tavola è accanto a me. Una volta dei ragazzi della Primavera volevano sedersi lì. Io gli ho detto: ragazzi, mi dispiace. Il posto è occupato. Quel posto sarà sempre occupato. Con questi piccoli gesti continueremo sempre a ricordarlo. I suoi insegnamenti sono rimasti dentro di noi. Lui era tutto d’un pezzo, è stato prezioso e continuerà a esserlo per noi. Abbiamo perso una persona importante».

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La sua risorsa, ora, per smorzare pressioni, aspettative, è Firenze. «Sono nato a Genova, ma Firenze è casa mia. Sono cresciuto qui, i miei amici sono di qui. Per me è una fortuna giocare nella città che mi ha visto crescere. Quando stacco dal calcio ritrovo gli amici, sono loro che mi fanno stare con i piedi per terra perché mi ricordano da dove vengo. Mi piace andare fuori in centro, andare a cena… Firenze è bellissima. E poi non mi ferma mai nessuno per strada, ci sono troppi turisti». Aggiunge che non gli piacciono i tatuaggi, ma forse il macchinone, un giorno… «Ma per ora mi tengo stretta la Mini One». È la normalità prima di tutto. «La Playstation con gli amici, la musica… mi piace Sfera Ebbasta, anche se non sono mai andato a un concerto. Preferisco ascoltare le canzoni con le app di musica. E per ora la fidanzata non ce l’ho».

«Per me è una fortuna giocare nella città che mi ha visto crescere. Gli amici mi fanno stare coi piedi per terra»Parla con estrema spontaneità, non c’è nulla di costruito in lui. E allora mi viene in mente la sua prima esultanza in una partita di Serie A: era il gennaio del 2017, e Chiesa segnò il gol del 3-0 contro il Chievo – che, si sarà capito, è la sua vittima preferita. Un attimo dopo che il pallone è entrato in rete, si mette le mani sul volto, si inginocchia, si rialza e alza le braccia al cielo. Poi scuote con la testa, come per sottintendere, ragazzi, non ci credo. Mille esultanze in una, verrebbe da dire, ma quando le emozioni sgorgano liberamente è impossibile frenare il flusso. È un momento in cui le silhouette di calciatore e ragazzo si sovrappongono, combaciano perfettamente, ma un po’ tutto il calcio di Federico Chiesa – le corse sfrenate, la disponibilità al sacrificio e il vivere costantemente la partita, attimo dopo attimo – ci riporta a quella passione primordiale. Nel tempo si è pure inventato un’esultanza come marchio di fabbrica, la scivolata con le braccia larghe, ma non ha nessun significato, confessa. Semplicemente si ricorda di festeggiamenti analoghi di Drogba e di Torres, «e allora una volta c’era il campo bagnato, e ho detto, cavolo, bellissimo, lo faccio anch’io». Una cultura calcistica che, del resto, non era assolutamente difficile immaginare, anche se il tifo non è mai stata una prerogativa di Federico: «Mi piaceva più il singolo che la squadra. I brasiliani, soprattutto: Ronaldo, Ronaldinho, Kaká».

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Ma nella sua crescita ci sono anche altre esperienze, non solo calcistiche. La scuola americana, per esempio. «È stata fondamentale, mia mamma voleva che ci andassi perché imparassi l’inglese. Mi ricordo il primo giorno: ero imbarazzatissimo, perché non sapevo una parola di inglese. Tutti gli altri erano felici, e io in disparte. Mi chiedevo, dove sono? Mi sembrava di essere in un altro continente. Ma è stata la scelta giusta. Se non avessi fatto il calciatore, mi sarebbe piaciuto andare in un college americano. All’università mi sono iscritto comunque, però. Ero ancora in Primavera, quindi la mia carriera era ancora un po’ incerta, non sapevo cosa avrei avuto davanti. Ho scelto Scienze Motorie perché è una materia che si relaziona con il calcio. Sono un po’ incasinato con le partite, ma in estate voglio dare altri esami».

«Se non avessi fatto il calciatore, mi sarebbe piaciuto andare in un college americano»È l’unica concessione che fa ai suoi progetti futuri. Non è tempo di parlare di mercato, né di obiettivi in carriera. Ed è meglio così. Questo è il momento in cui godersi la spettacolare fioritura di un calciatore che ha imparato in fretta a essere moderno. Perché il suo gioco non ha limiti: né strutturali né interpretativi. Del calcio “fluido” che si sta imponendo in giro per l‘Europa il numero 25 della Fiorentina è esempio cardine: una heatmap di una sua partita vi aiuterà a inquadrarne lo sviluppo del suo gioco – la bravura nella lettura del gioco lo porta a percorrere diverse tracce di campo. Da esterno d’attacco in grado di farsi valere su entrambe le fasce, con una predilezione per quella destra, Chiesa in realtà riesce a far sposare le sue caratteristiche anche in altre posizioni – in questa Fiorentina, spiccatamente offensive – guidato da un’innata capacità che va oltre le qualità tecniche e che riguarda il senso del gioco in generale: la propensione nell’aggredire gli spazi e sfruttare il campo davanti a sé.

Il resto lo fanno un atletismo forsennato – al Mazza quest’anno, contro la Spal, ha fatto registrare una velocità di punta di 34,8 chilometri orari – e la facilità nel dribbling – è il giocatore di Serie A che, dopo 23 giornate, ha più dribbling riusciti all’attivo, 53. Qualità ben compendiate in una straripante azione nella scorsa stagione, contro il Bologna, quando cattura palla nella propria trequarti, supera in velocità due difensori che provano a chiuderlo nella morsa ed evita pure il recupero disperato in tackle di uno dei due, prima di concludere di poco a lato. Specialità che Federico Chiesa distilla con continuità, e che fanno parte di un bagaglio di tante cose che ci fa toccare con mano la straordinaria opportunità che rappresenta. Perché sono gli orizzonti ancora inesplorati a rendere il tutto più audace, più eccitante. Un ragazzo che parte, e che non si frena più.

Dal numero 26 di Undici
Foto di Claudia Ferri – Moda di Francesca Cisani
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