Il Barcellona in transizione

Il club catalano ha scelto di modificare un po' le sue strategie, in campo e fuori.

Quando si pensa al Barcellona, quando si analizzano il progetto e i risultati del club catalano, il riferimento alla continuità è praticamente inevitabile. È un discorso che si esprime attraverso i continui trionfi sul campo – sabato scorso Messi e compagni hanno vinto l’ottava Liga negli ultimi dieci anni –, ma che in realtà parte da lontano, da un’identità tecnica e politica estremamente radicata. Il Barça di Valverde, in semifinale di Champions League quattro anni dopo l’ultima volta, è stato pensato e assemblato secondo la filosofia storica della società, per essere un discendente diretto delle squadre di Guardiola e Luis Enrique – a loro volta figlie di quelle di Cruijff, van Gaal, Rijkaard. Solo che il calcio è un sistema dinamico, perennemente in movimento, allora il Barcellona ha dovuto lavorare in maniera particolare, diversa, anche rispetto alla propria cultura. Non ha provato a sfidare o governare il tempo, non ha cercato di fermarlo, piuttosto ha tentato di comprenderlo, di interpretarlo. Ed è riuscito ad adattare il suo modello a un contesto nuovo, differente.

Qualche settimana fa, Sports Illustrated ha pubblicato un articolo dal titolo suggestivo: «Mentre il Barcellona si evolve, Sergio Busquets rimane una costante sottovalutata». Il testo spiega il gioco del centrocampista catalano, prova a quantificare il suo impatto sui successi del Barça e sul calcio contemporaneo, ma sottolinea anche come la vittoria ottenuta dalla squadra di Valverde contro il Betis di Quique Setién (1-4 a Siviglia lo scorso 17 marzo) sia arrivata con una percentuale di possesso palla favorevole agli andalusi (57%-43%). Un dato preso e buttato lì in questo modo potrebbe avere un significato scarso o nullo – anche perché il Barcellona continua a essere la squadra con il maggior possesso palla della Liga, 61% di media per match –, se non fosse per le parole dello stesso Busquets, che ha spiegato come «il calcio sia diventato molto più difficile e ricercato rispetto a dieci anni fa, tutti i nostri avversari sono più preparati tatticamente, e allora abbiamo dovuto adattarci, cambiando qualcosa nel nostro gioco». Il fatto che la squadra di Valverde abbia un possesso palla più basso rispetto a quelle di Luis Enrique (64% nella Liga 2014/15) e Guardiola (67% nella Liga 2011/12) conferma l’esistenza di un mutamento in corso.

In un longform di Simon Kuper pubblicato sul Financial Times, ci sono alcune dichiarazioni di Ernesto Valverde. Il tecnico di Viandar de la Vera, un minuscolo comune dell’Extramadura (233 abitanti nel 2018 secondo Wikipedia), spiega il suo approccio al calcio: «Quando la squadra non funziona, la tattica ti aiuta a a restituire un ordine alle cose. Quando invece la squadra funziona, puoi anche dimenticarti degli schemi, sei nel paradiso degli allenatori. Il calcio è uno sport continuo, la panchina ha un’influenza minima sul risultato: ci sono solo tre sostituzioni, i giocatori si muovono in campo e prendono decisioni per 90 minuti, hanno pochi attimi per pensare, non sempre possono ascoltare e rispettare le indicazioni di una persona posizionata a cinquanta metri di distanza. Anche per questo penso da sempre che i grandi giocatori del Barcellona riescano ad analizzare il gioco meglio di me. Anzi, mi correggo: lo interpretano meglio di me».

Le parole di Valverde potrebbero comporre un contromanifesto ideologico rispetto alla storia del Barça e alla filosofia di Cruijff e Guardiola, secondo cui i risultati passano necessariamente dalla ricerca continua di nuove soluzioni all’interno di un sistema per principi. In realtà, l’allenatore non fa altro che raccontare la trasformazione del contesto, in pratica riprende gli stessi concetti di Busquets, solo che la sua prospettiva è più ristretta, più interna, fa riferimento solo al Barcellona piuttosto che ai suoi avversari e/o all’evoluzione del calcio in senso assoluto: in questo momento, gli elementi più rappresentativi dell’organico azulgrana (Messi, lo stesso Busquets, Suárez, Piqué, Jordi Alba) hanno raggiunto la maturità agonistica, sono già formati dal punto di vista tecnico e tattico, oltretutto hanno una qualità decisamente superiore alla media e hanno imparato a fare a meno di Puyol, Xavi, Iniesta.

Una serie di condizioni particolari, che hanno imposto o comunque suggerito dei cambiamenti: un calcio estremamente sofisticato come quello di Guardiola o anche di Luis Enrique non sarebbe più facilmente attuabile, perché ormai fuori tempo rispetto al contesto interno ed esterno. Allora certi concetti sono stati diluiti, quasi come se a Barcellona si fossero resi conto di vivere una fase transitoria, in quest’ottica Valverde e il suo realismo si sono rivelati funzionali per assemblare una squadra forse meno spettacolare e visionaria nell’espressione di gioco, ma comunque vincente. Oggi il Barcellona è costruito intorno alla figura assoluta di Leo Messi, non è esagerato scrivere che gli azulgrana disputano le loro partite assecondando il ritmo del fuoriclasse argentino, quasi in surplace, sembrano rimanere sospesi in modalità risparmio energetico per lunghi periodi, poi però esplodono quando Messi decide di accelerare, quando l’estro del fuoriclasse argentino viene ispirato, stuzzicato dai compagni, azionato attraverso meccanismi ad altissima qualità.

Il calcio del Barça resta proattivo in senso offensivo, certo non è diventato speculativo. Però c’è una differenza col passato, e riguarda l’intensità, fisica e concettuale: se in questo momento la qualità dei catalani – sublimata nel dominio di Messi sul pallone, sui compagni, sugli avversari – riesce ad andare oltre la tattica, oltre il gioco stesso, non c’è bisogno di radicalizzare il sistema. Non c’è più bisogno. La squadra di Valverde è programmata per gestire le partite piuttosto che per aggredirle, un approccio che si estende dal breve al lungo termine, nel senso che in questo modo ha gestito anche la sua stagione. La vittoria del titolo è sembrata inevitabile, una delle letture più interessanti è stata quella di Sid Lowe sul Guardian: «Il Barcellona ha fatto apparire normale, addirittura prevedibile, un successo che invece è straordinario». Questa sensazione di mancata urgenza racconta la superiorità assoluta di una squadra che non ha rinnegato la sua identità, semplicemente ha saputo rinnovarsi intorno a essa, accettando la legge del tempo che passa e cambia le cose, cambiando a sua volta.

Il discorso non si esaurisce con l’aspetto tattico. Negli ultimi anni, uno dei temi più ricorrenti nel racconto del Barcellona riguarda la crisi della Masia: in questa stagione, per dire, nessun giocatore Under 27 cresciuto nel vivaio ha raggiunto i 1000 minuti in campo, solo il 21enne Aleñà ha superato i 900 minuti. Anche questo, se vogliamo, è un altro aspetto “normalizzante” che il club catalano ha dovuto metabolizzare, per una semplice questione di ciclicità: la generazione di Puyol, Xavi, Iniesta, Messi, Busquets e Piqué è praticamente irripetibile per qualità assoluta, non a caso i prodotti della cantera azulgrana del post-Guardiola hanno avuto carriere al di sotto delle aspettative – si pensi a Bojan, Deulofeu, Samper, Bartra, Tello, Montoya; l’unico a essersi imposto davvero è Sergi Roberto, in ogni caso lontano dal livello dei suoi predecessori. Il Barcellona ha colto perfettamente questi segnali, allora ha messo a punto una nuova strategia di mercato, da circa cinque anni ha allargato la rosa con pochi campioni già affermati (Suárez, Rakitic, Coutinho, Vidal), con dei giovani già pronti per entrare nelle rotazioni (Umtiti, Dembélé, Arthur, Lenglet) oppure molto promettenti (Todibo, Malcom ed Emerson, che arriverà a giugno dopo il prestito al Betis).

Una strategia diversificata rispetto al passato, tutt’altro che facile da attuare nonostante l’enorme appeal del club. Il presidente Josep Bartomeu, intervistato dal Financial Times, ha spiegato le difficoltà del Barcellona nella fase di reclutamento: «Molti ragazzi cresciuti nella Masia hanno deciso di lasciare il club, a volte anche prima di iniziare la carriera da professionisti. Non si sentivano all’altezza di superare Busquets o Messi nelle gerarchie. Sul mercato abbiamo avuto gli stessi problemi: tanti calciatori erano eccitati dall’idea di firmare per il Barcellona, poi si sono tirati indietro. Avevano paura di finire in panchina». Le parole di Bartomeu spiegano come questa era transitoria nasca da un’esigenza difficile: sostituire i fuoriclasse che hanno fatto la storia del Barcellona – e del calcio – nell’ultimo decennio, quindi integrare nuovi aspiranti campioni all’ombra di miti dal passato troppo ingombrante, o ancora in piena efficienza fisica e tecnica. Tutto questo, senza perdere in competitività – che da queste parti vuol dire sollevare al cielo tutti i trofei possibili, ogni anno. Per riuscire in questa impresa, il Barcellona ha scelto la strada del buon senso, ha mantenuto i cardini della sua filosofia storica ma ha anche accettato di dover modificare qualcosa, non si è cristallizzato su sé stesso, ha elaborato nuovi piani d’azione, in campo e nella politica societaria. Evidentemente, era ed è la strategia migliore per continuare a vincere.

Immagini Getty Images