Un gioco da bambini

Gli oratori di Milano sono un'istituzione, ci dicono molto del senso della competizione, e anche del suo opposto.

Mi sono sempre detto che non ci sarei cascato e ho sempre detto agli altri che non sarei mai diventato come “quei genitori”, ma questo succedeva prima che iscrivessi i miei due figli, maschi di 7 anni, alla scuola calcio dell’oratorio. Come tutto il resto, un altro elemento della teoria è stato totalmente contraddetto dalla pratica e, a un paio di mesi dall’iscrizione, è arrivata la vera rivelazione su che tipo di padre sarei stato. Era una domenica di novembre, con la nebbia e la pioggerellina – ingredienti ideali per ricamare un po’ di epica calcistica a buon mercato – quando siamo stati invitati alla prima trasferta della squadra, che già si fregiava di una divisa Givova a fasce rosse e blu. Li abbiamo accompagnati con tre o quattro macchine in periferia per poi lasciarli all’ingresso degli spogliatoi, come minuscoli soldati in partenza per il fronte, e ci siamo sistemati sugli spalti coperti dove già altri genitori erano assiepati, coi giubbotti pesanti, i cappelli, le sigarette.

Il campo, forse non regolamentare ma molto grande, era diviso in tre campi verticali, dove si giocavano altrettanti tornei in contemporanea divisi per anno di nascita. Alcuni padri urlavano, incitavano aggressivamente, si arrabbiavano coi loro figli, o con quelli degli altri. La prima rivelazione è arrivata quando ho capito che non li avrei più giudicati degli psicopatici perché ci ero dentro anch’io; è chiaro che mi sarei sforzato di non essere come loro, ma avrei dovuto, appunto, “sforzarmi”. La seconda rivelazione è stato sentire crescere quel sentimento inconfessabile che ho provato quando altri padri mi hanno chiesto: «Ma quello è figlio tuo?», riferendosi a Tommaso che aveva giocato una partita in porta al di là delle sue possibilità. Aveva parato tutto, ricevendo ululati di approvazione sugli spalti. L’altra squadra di settenni era evidentemente più forte – giocavano la palla, sapevano cercarsi – ma noi avremmo segnato in contropiede con un tiro calciato un po’ a casaccio da un altro bambino, da lontanissimo: novembre, pioggerellina, periferia, vittoria in contropiede (ed epica a buon mercato).

Dopo la trasferta, Tommaso è stato poi preso sotto l’ala protettiva dell’allenatore dei portieri, convinto di aver trovato un talento da coltivare. Ci ha tenuto molto lui, l’allenatore, a raccontarmi la storia di un bambino dell’oratorio, anche lui portiere, che un paio di anni prima, in una di queste amichevoli, era stato notato da un’altra squadra che aveva chiesto a sua madre di passare con loro. Avevano accettato, ma essendoci un altro portiere più forte, mi aveva detto l’allenatore, il bambino aveva finito per restare sempre in panchina e quindi, dopo un po’, era tornato all’oratorio, dove giocava tuttora «felice». Io ho preso solo la parte immorale della parabola e ho iniziato a visualizzare un futuro che all’improvviso mi sembrava interessante: allenamenti duri, partite sui campi di mezza Milano e provincia, fino al professionismo. Poi, in realtà Tommaso mi ha confessato che si era stufato di fare il portiere e continuava a farlo solo per non deludere l’allenatore. Voleva giocare in attacco, mi ha detto. «Tu sai giocare in tutti i ruoli. Però certo in porta…», gli ho detto io, infischiandomene di qualunque possibile condizionamento. Per la cronaca: sono almeno quattro allenamenti che in porta non ci va più.

C’è ovviamente qualcosa di bello in questa specie di comunità trasversale, di quartiere, oserei dire laica, che si riunisce attorno ai centriPoco prima di Natale, c’è stata la partita figli contro genitori. Dovevamo giocare senza impegnarci troppo, ma neanche troppo poco, ovviamente, perché i bambini altrimenti avrebbero capito. Due padri però l’hanno presa seriamente: si cercavano con lunghi lanci a tagliare il campo e sgroppavano sulle fasce dribblando le scivolate dei settenni; a conclusione di uno scambio cross di rabona e tiro al volo, poi, si sono abbracciati in mezzo al campo davanti agli sguardi increduli dei nostri figli, ma soprattutto nostri. Siamo riusciti ad arginare i due a far finire la partita 10 a 10, per fortuna. Poi siamo andati nella sala al chiuso dell’oratorio per la festa con consegna di medaglie, il banchetto coi tramezzini al prosciutto e i wurstel tagliati a rondelle, lo spritz annacquato, mamme e padri infagottati in brutte tute, microfoni gracchianti, sullo sfondo di uno slideshow delle foto con le azioni in campo. C’era ovviamente qualcosa di bello (e di romantico a buon mercato) in tutto quello. E c’è ovviamente qualcosa di bello in questa specie di comunità trasversale, di quartiere, oserei dire laica, che si riunisce intorno ai centri.

A Napoli, la città dove sono nato e dove ho giocato a calcio da bambino, la forza degli oratori sul territorio è impercettibile o almeno io non l’ho mai percepita: il calcio è soprattutto un fatto di strada (cioè di cortili e di comprensori e, nel migliore dei casi, di società professionistiche). A Milano, invece, si resta colpiti, se non ci si è cresciuti, da quanto gli oratori siano così un riferimento per lo sport giovanile (e il calcio in particolare) e da quanto pure la chiesa più disgraziata sia dotata di un campo. Con un prezzo fuori mercato rispetto anche ad altri sport, l’iscrizione annuale costa 170 euro: si gioca su un sintetico tenuto molto bene e ogni bambino riceve una divisa invernale, maglietta, pantaloncini, calzettoni, mantellina, persino il piumino e la borsa, tutto con il marchio dell’associazione.

Quello che viene rimarcato in oratorio è quest’idea di coltivare lo sport senza forare troppo sull’aspetto della competizione e del successoIn Italia esiste una specie di circuito degli oratori, una rete che viene gestita dal Csi (Centro sportivo italiano), che è «la più antica associazione polisportiva attiva in Italia». La sua fondazione è datata al 1944, grazie all’Azione Cattolica, con l’obiettivo di continuare l’esperienza della FASCI (Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane), che era stata creata nel 1906 ma interrotta nel 1927 dal regime fascista. Questa rete degli oratori è in sostanza alternativa a quella più marcatamente agonistica delle scuole calcio che fanno parte della rete Figc. In quest’ultima rientrano i centri federali, così come le scuole calcio delle squadre di Serie A; quella dell’Inter, per dare un ordine di idea, costa oltre 400 euro all’anno, più del doppio di un’iscrizione all’oratorio. La differenza è che gli allenamenti settimanali sono due, più le partite fisse nel weekend.

Quello che viene rimarcato continuamente in oratorio, dagli allenatori ma anche dai genitori, è quest’idea di coltivare lo sport senza forzare troppo sull’aspetto della competizione e del successo, quest’idea dello sport come una “cosa sana”. I padri si dicono che hanno iscritto i figli lì per non gettarli subito nella mischia. Gli allenatori hanno nel loro repertorio storielle come quella che mi ha raccontato il preparatore dei portieri. Nella sezione “Finalità” sul sito del Csi c’è scrittore: «Educare attraverso lo sport è la missione del Centro Sportivo Italiano. […] Lo sport inteso dal Csi può anche essere uno strumento di prevenzione verso alcune particolari patologie sociali quali la solitudine, le paure, i timori, i dubbi, le devianze dei più giovani. Un’attività sportiva organizzata, continuativa, seria, promossa da educatori, allenatori, arbitri, dirigenti consapevoli del proprio “mandato” educativo, infatti, aiuta i giovani ad andare oltre, ad abbandonare gli egoismi e ad affrontare la strada della condivisione, della sperimentazione del limite, della conoscenza di sé».

Ma lo sport può essere una cosa completamente sana? Sotto questi aspetti lo è evidentemente, ma c’è anche qualcosa di “insano” che qualunque genitore che inizia i propri figli allo sport incontra riportando alla memoria traumi di gioventù. Lo dico anche dal mio privilegiato punto di osservazione di padre di due gemelli, una condizione che in qualunque campo della vita ti mette di fronte alla certezza che gli esseri umani sono così come sono, e sono diversi. Lo dico dopo aver cercato di calmare mille pianti, arrabbiature e litigi di sabati e domeniche passati a vederli giocare o a giocare io stesso al parchetto vicino casa. C’è Tommaso che è nato con un senso della competizione e una fame di affermazione fortissima. C’è Matteo nel cui organismo invece il senso di competizione è del tutto assente. Matteo tocca naturalmente meglio la palla, ha più eleganza nei movimenti, ma è leggero e quasi inconsistente. Tommaso che è più rozzo e impreciso, con la determinazione e la forza fisica sopperisce a tutto e ovviamente finisce per emergere. Se volessi seguire i principi della “cosa sana” dovrei pensare che l’atteggiamento iper-competitivo di Tommaso, il suo bisogno di riuscita non è sano e che è più sano Matteo che gioca per giocare più che per affermarsi. Ma lo sport è veramente questa cosa qui? Lo sport non è anche delusione, senso di inadeguatezza e di esclusione, e all’opposto voglia di prevalere sugli altri?

L’allenamento è ogni venerdì alle 18 e 30. Abbiamo preso l’abitudine io e un altro paio di padri di spostarci al bar di fronte per una mezzoretta, mentre i bambini fanno gli esercizi, a bere un paio di bicchieri in un bar del quartiere un po’ alla vecchia, dove si parla solo di calcio ovviamente, per tornare poi a guardare la seconda mezzora, quando c’è la partitella. Facciamo gli osservatori, li guardiamo muoversi sul campo, diciamo qualche parola, sentiamo il padre che dice «Simo, resta sulla fascia» e poi si gira verso di noi e chiosa «Simo oggi non è in forma»; guardiamo l’altro che sta fermo immobile con la faccia appoggiata alla rete senza dire una parola; o la famiglia filippina completa di nonni che viene ogni volta a fare il tifo per il loro piccoletto. L’ultima partita è finita 2 a 0, comunque, con un gol di Tommaso e l’altro di Matteo. Era la mia serata, ma nessun padre se n’è accorto. O non mi hanno detto niente apposta?

Dal numero 23 di Undici
Foto di Fabrizio Vatieri