La notte in cui Sacchi cambiò il calcio

Trent'anni dalla prima Coppa dei Campioni del Milan di Sacchi, un trionfo costruito a Belgrado.

Boom! Boom! Boom! Il sonno di Billy si interrompe qualche minuto prima della sveglia, comunque programmata di buon’ora, perché qualcosa di simile a un bisonte sta correndo nel lungo corridoio dell’albergo, e la moquette sbiadita dell’Intercontinental di Belgrado non basta ad attutire il rumore. Boom! Boom! Il ritmo della corsa è crescente, il bisonte accelera più o meno all’altezza della camera di Costacurta, che dopo essersi tirato il cuscino sulla testa per provare a dilazionare il risveglio si decide infine ad andare a scoprire cosa sta succedendo. Altri giocatori del Milan, nello stesso momento, stanno aprendo le porte delle stanze, il volto insonnolito dalla ritirata suonata tardissimo la notte prima: erano le 2, e adesso l’orologio segna qualche minuto dopo le 8.

 

A un capo del corridoio Arrigo Sacchi e il suo staff, il dottor Monti in prima fila, stanno gridando le loro disposizioni: «Adesso aumenta il passo dopo la seconda camera, ma rallenta prima di raggiungere il massimo». Costacurta gira lo sguardo dall’altra parte, dove il bisonte Ruud Gullit parte in accelerazione. All’altezza della seconda camera è già in piena spinta, e il casco di treccine si agita ribelle. Gli passa davanti come un treno lanciato, Billy avverte lo spostamento d’aria. «Okay Ruud, ti portiamo in panchina», dice Sacchi, dopo aver ottenuto un cenno di assenso da Monti. Se ne vanno sollevati, soltanto quando sono accanto all’ascensore uno di loro, Pincolini forse, si ricorda degli altri giocatori, ancora basiti. «Fra cinque minuti in sala colazione, che poi c’è il risveglio muscolare». Billy e gli altri rientrano in camera mentre stanno squillando ovunque i telefoni. Un disco informa che «sono le 8 e 15 minuti».

È il 9 novembre 1988, e la sera prima il Milan è sopravvissuto a una prova potenzialmente letale

È il 9 novembre 1988, e la sera prima il Milan è sopravvissuto a una prova potenzialmente letale. Nella gara di ritorno degli ottavi di Coppa Campioni (andata a San Siro, 1-1) è andato sotto 1-0 contro la Stella Rossa nel terribile Marakana; tutto sembrava perduto – anche perché la squadra giocava davvero male – quando, a mezz’ora dalla fine, una nebbia metafisica, da film horror americano (Fog), era scesa sul grande stadio di Belgrado coprendo alla vista qualsiasi cosa stesse succedendo in campo. L’arbitro tedesco Pauly, all’ultima partita internazionale della carriera, non poteva non interromperla: Baresi ha sempre assicurato che il gol jugoslavo (Savicevic, do you remember?) fosse viziato da fuorigioco mentre Virdis, espulso qualche minuto prima dello stop, giura ancora oggi che il suo tackle avrebbe meritato al massimo un cartellino giallo. Sono asserzioni impossibili da verificare, la nebbia s’era inghiottita tutto, compresa una qualificazione della Stella Rossa ormai vicinissima. Il regolamento Uefa dell’epoca prescrive che la gara sospesa si rigiochi il giorno dopo dall’inizio, non dal minuto dell’interruzione e quindi non ripartendo dal risultato acquisito al momento dello stop. Il timore di una nuova discesa in campo della nebbia, inoltre, consiglia di anticipare alle 15 il nuovo calcio d’inizio: nemmeno ventiquattr’ore fra una gara e l’altra, condizioni estreme.

Per anni una battuta – divertente – di Gene Gnocchi sul “culo di Sacchi” è stata amplificata e usata dai detrattori del grande allenatore romagnolo per sminuirne i meriti: se il Milan e poi l’Italia vincevano spesso nel finale o in condizioni agoniche è perché quelle squadre, pur volendo praticare un gioco di seta, erano fatte di ferro. Belgrado, invece, fu un episodio di innegabile fortuna, perché la Stella Rossa sottovalutata al sorteggio era una grande squadra in nuce (due anni dopo la coppa l’avrebbe vinta lei), e fra San Siro e la prima partita al Marakana il Milan era stato subissato. Ma spesso una seconda possibilità è tutto ciò che chiediamo alla vita, giurando di non sprecarla. E Sacchi non la spreca, disegnando a notte fonda un piano di guerra al quale partecipano anche alcuni senatori (Baresi, Ancelotti, Tassotti, Filippo Galli) e che parte da nuovi presupposti: la partita interrotta non è totalmente azzerata, l’espulsione di Virdis e l’ammonizione al diffidato Ancelotti non scompaiono, prima di lasciare lo stadio per l’albergo il funzionario Uefa informa Arrigo che l’indomani i due non sarebbero stati eleggibili. I cambi sono decisi nel corso di una rapida cena: Mannari per Virdis è obbligato, mentre Rijkaard – difensore in quei primi tempi di Milan – viene avanzato a centrocampo al posto di Ancelotti, liberando lo spazio in difesa a Costacurta. Praticamente da lì in poi sarà l’assetto definitivo. Occorre però un’idea per riaccendere l’entusiasmo in una squadra ancora spaventata dal pericolo corso, e certo non ancora esaurito. E l’idea viene con l’alba.

Se il Milan e poi l’Italia vincevano spesso nel finale o in condizioni agoniche è perché quelle squadre, pur volendo praticare un gioco di seta, erano fatte di ferro

La domenica precedente Ruud Gullit è uscito al 31’ del primo tempo nella gara di Verona per un problema muscolare. Si parla di stiramento, e l’olandese viene dichiarato indisponibile per la partita di Belgrado. Viene comunque aggregato alla trasferta per cominciare subito le terapie (i medici fanno parte della comitiva). Riletto a posteriori ovviamente non si trattava di stiramento, ma di semplice contrattura: in ogni caso, Sacchi lo sottopone al provino in albergo perché pensa che la sua sola presenza in panchina possa rianimare la squadra. Non sospetta che il drammatico incidente a Donadoni (duro scontro aereo con Vasiljevic e ricaduta rovinosa, frattura della mascella, il medico della Stella Rossa gli salva la vita aprendogli a forza la bocca per farlo respirare) lo porterà in campo per ripresa e supplementari.

La cronaca della partita è ormai un pezzo di storia: l’autorete di Vasiljevic non vista da Pauly (palla dentro di un metro, altro che goal-line technology…), il vantaggio di Van Basten e il pareggio di Pixie Stojkovic (assist sublime di Savicevic: l’innamoramento nasce lì), la grande prestazione del Milan che non basta a evitare i rigori, la serie finale risolta da due parate di Giovanni Galli, la festa sotto lo spicchio di curva rossonera con i poliziotti serbi che allentano la morsa sul guinzaglio dei cani, e Costacurta si becca un bel morso sul sedere. Quella trasferta drammatica è la cruna dell’ago che il Milan attraversa senza danni sulla strada del trionfo.

I rigori di Stella Rossa-Milan

Prima c’era stato un sedicesimo facile contro il Vitosha, la denominazione usata per quattro anni dal vecchio Levski in seguito a una squalifica che aveva portato allo scioglimento (fittizio) della società più famosa di Bulgaria. 2-0 a Sofia, 5-2 a San Siro per acquisire una sicurezza internazionale che non c’era: i vecchi di Milanello ricordano ancora una solenne lite tra Franco Baresi e Pietro Carmignani, assistente di Sacchi, prima della gara d’andata, frutto del nervosismo dello staff. Dopo Belgrado venne nei quarti l’ultimo avversario tosto, il Werder Brema, e il giudizio suona paradossale considerato nome e tradizione di chi arriverà in semifinale. I tedeschi, comunque, favoriti da un altro gol rossonero non visto (Rijkaard, nello 0-0 dell’andata), vendono cara la pelle a San Siro: ci vuole un rigore molto generoso per saldar loro il conto.

Milan-Real Madrid 5-0

Il giorno dopo Real Madrid-Milan 1-1, ricordo un virgolettato del grande Butragueño su Marca: “Por el Bernabéu pasò un equipo maravilloso”

Il Real Madrid dell’epoca vive e prospera sulla Quinta del Buitre, la generazione di stelle cresciute in casa guidata da Butragueño (el Buitre, l’avvoltoio), composta da Míchel, Sanchís e Mártin Vázquez e arricchita da un serial killer d’area come il messicano Hugo Sánchez. L’andata a Madrid finisce 1-1 ed è uno spettacolo memorabile recitato dal Milan, che pareggia con un capolavoro di Van Basten il vantaggio di Sánchez e si vede annullare per fuorigioco un gol di Gullit, regolare di almeno due metri: quando qualcuno vi dice che il Var non ha cambiato nulla, andate a rivedervi quell’obbrobrio e poi ridetegli in faccia. Il mio ricordo di quella trasferta è la prima pagina di Marca del giorno dopo, centrata su un virgolettato del grande Butragueño: “Por el Bernabéu pasò un equipo maravilloso”. Il titolo dell’articolo di fondo era “A San Siro será de angustia”. Profetico.

Il bilancio complessivo delle ultime due partite di quella Coppa dei Campioni è di 9-0 per il Milan: 5-0 al Real nella semifinale di ritorno, una sinfonia di calcio che del fortino avversario non lascia pietra su pietra, 4-0 nella finale alla Steaua, inadeguata vittima della mattanza. Sono due recite eccezionali di un copione che nel giro di due stagioni Sacchi ha stampato nel cervello e nel cuore dei suoi giocatori, diventando di fatto un’icona da storia del calcio pur essendo durato pochissimo: dopo la gavetta, quattro anni al Milan e cinque in Nazionale, il resto aggiunge poco. Come dice al magnifico replicante Roy Batty (Rutger Hauer) il suo creatore, lo scienziato Tyrell: «La fiamma che brilla al doppio dell’intensità brucia per metà tempo». Anni dopo ho passato molti giorni a Barcellona, seguendo un’altra epopea di calcio celeste, il Barca di Pep Guardiola. Ma novantamila persone in attesa del passaggio del pullman milanista lungo la discesa tra l’hotel Princesa Sofia, quartier generale della finale, e il Camp Nou, non le vedrò mai più.

Dal numero 27 di Undici
Illustrazioni di Luca Laurenti